WORMROT – HISS
I Wormrot sono piuttosto dislocati dall’epicentro geografico del grindcore – si sono formati a Singapore, ormai quindici anni fa – ma si sono imposti negli anni come uno dei progetti più importanti e seguiti nel genere, consacrandosi definitivamente con Voices, nel 2016. Nonostante l’ambiente estremo sia storicamente molto ricettivo e curioso nei confronti di artisti provenienti all’infuori da Stati Uniti ed Europa, il relativo successo riscosso dai Wormrot è comunque sproporzionato rispetto a quello che la loro provenienza potrebbe far pensare. Il motivo si spiega facilmente con il fatto che Digby Pearson, nel 2009, scoprì il loro debutto quasi per caso e si decise a farli firmare per la Earache, che negli anni Novanta e Duemila è stata la casa per tantissimi dei gruppi più influenti della storia del grindcore, dai Napalm Death in avanti.
Eppure, il loro grindcore è progressivamente diventato meno Earache-esco con il passare delle uscite. Nei primi due dischi Abuse e Dirge, incisi nel segno degli Insect Warfare, i Wormrot mantenevano ancora quell’approccio più punkettone tipico dei primissimi Napalm Death o degli Anal Cunt: nel caos metallico di quelle schegge impazzite di durata tra i 30 e i 60 secondi in media che i Wormrot avevano l’ardire di chiamare canzoni, si percepiva comunque l’influenza dell’anarcho-punk e del crust punk primigenio. Già l’ultimo Voices aveva però portato il gruppo a rendere più variopinto il loro suono: i brani si erano allungati relativamente – addirittura quasi quattro minuti la conclusiva Outworn – e i Wormrot avevano ampliato la propria palette sonora, abbracciando un range di influenze che andava dai Pig Destroyer, con cui condividono una formazione senza basso, fino ai più progressivi Gridlink (cfr. Hollow Roots). Il riffing si era fatto quindi meno elementare e feroce, scoprendo una tridimensionalità inedita grazie all’utilizzo di tempi meno sostenuti, armonie dissonanti e melodie più pronunciate. La musica, in sé, rimaneva comunque rumorosissima.
Hiss, uscito dopo quasi sei anni da Voices, è il loro disco più creativo e sofisticato, o questo almeno è quello che ripetono vari commenti estasiati in giro su internet, sia tra i fan che tra le webzine di settore (anche in Italia, Metalitalia e Aristocrazia si sono lanciate in lodi sperticate). La realtà è però un po’ più sfumata di così. Da un lato, Hiss è sicuramente il disco dei Wormrot che si compromette maggiormente con soluzioni più inusuali per il grindcore, innestandole sul tessuto strumentale più forbito introdotto su Voices: su Broken Maze l’ora ex-cantante Arif si cimenta in una prova in canto pulito degna di Garm sotto una scrosciante cascata di distorsioni chitarristiche, mentre in Grieve e nella conclusiva Glass Shards i Wormrot si accompagnano perfino alla violinista classica Myra Choo. Ma se Grieve è una terrificante parentesi strumentale in cui i glissando e i tremolo del violino vengono usati per esaltare la furia dei blast beat e del serrato riffing in tremolo picking della chitarra, ergendosi soltanto occasionalmente sul marasma sonoro con qualche riconoscibile linea melodica struggente e maligna, Glass Shards è una roba ben più tronfia e scontata: addirittura, il pomposissimo assolo di violino che si staglia a metà del brano si abbandona infine a una conclusione catartica che rispetta tutti i dettami del crescendo-core di serie B. E il punto alla fine è tutto qui: le supposte soluzioni esotiche tentate dai Wormrot in Hiss sono in realtà orpelli superficiali su brani che saranno pure melodicamente e tecnicamente confezionati con molta più competenza che in passato, ma che hanno barattato questa maggiore professionalità con un generale impoverimento della qualità di scrittura e dell’impatto sonoro. Il grindcore che si sente su questo Hiss è frustrantemente poco esplosivo e dilaniante; anzi, sovente il riffing e la struttura dei brani rimandano al death metal melodico se non direttamente al thrash metal – su When Talking Fails, It’s Time for Violence c’è pure spazio per un coretto di scuola newyorchese come li facevano gli Anthrax e i Suicidal Tendencies, ma in generale tutto l’impianto dei Wormrot su questo disco è sorprendentemente slayeriano.
Non importano quindi i campionamenti rumoristici con cui si apre The Darkest Burden, o l’effettistica sulle parentesi per sola voce e batteria di Pale Moonlight e All Will Wither (entrambi comunque pezzi molto interessanti), perché alla fine Hiss appare come un ascolto molto più addomesticato e imbrigliato dei suoi predecessori. Il fatto che i Wormrot (e diversi altri colleghi dello spettro estremo che cercano di allargare il proprio bacino di utenza) sappiano affidarsi solamente agli escamotage melodici e strutturali delle peggiori sbrodolate del post-rock quando vogliono espandere la portata emotiva della propria musica non fa che peggiorare la situazione già precaria di un album che, sforzandosi di essere avventuroso, suona invece tristemente molto prevedibile.
CLOUD RAT – THRESHOLD
Pur provenienti dal più familiare Michigan, i Cloud Rat con i Wormrot condividono diversi aspetti, più o meno superficiali: anche loro hanno esordito intorno al 2010, anche loro hanno una formazione in trio senza basso, e anche loro – ovviamente – suonano grindcore with a twist. Rispetto ai Wormrot, però, i Cloud Rat appaiono immediatamente più affrancati dai cliché iconografici del genere: il loro moniker non restituisce la stessa putrescenza dei colleghi singaporiani – anzi, è dedicato a un delizioso roditore delle Filippine – e la loro formazione colpisce per la presenza della frontwoman Madison Marshall alla voce. (A essere del tutto sinceri, prima che mi informassi su internet, non mi ero nemmeno accorto che al microfono ci fosse una donna, tanto è disumanizzato il suono prodotto dalle sue corde vocali.) Come se non bastasse, questo Threshold con cui sono tornati a calcare le scene dopo tre anni di silenzio si presenta con una coloratissima copertina degno di qualche disco flippatissimo di neo-psichedelia.
Anche musicalmente i Cloud Rat sono molto più difficilmente classificabili dei Wormrot: se i riferimenti stilistici di questi ultimi sono più o meno quelli che ci si aspetterebbe di default da un gruppo grindcore, i primi si muovono su coordinate molto più personali. Il loro stile, definitosi via via sempre più nitidamente negli anni fino a raggiungere la maturazione in Qliphoth (2015) e soprattutto in Pollinator (2019), risulta fortemente contaminato da diverse esperienze della musica estrema poste al crocevia tra crust punk, sludge metal e perfino black metal, con diverse tracce di Dystopia, His Hero Is Gone, Indian e Dephosphorus che affiorano qua e là durante l’ascolto. Tuttavia, il peculiare e struggente senso melodico delle parti di chitarra, insieme alla dolorosa poetica dello scream di Marshall (che si situa da qualche parte tra le urla laceranti di Dylan O’Toole degli Indian e l’emotività disperata di Jayson Green degli Orchid), dona alla musica dei Cloud Rat una sfumatura propria dello screamo e del post-hardcore di fine anni Novanta.
L’estetica di questo nuovo Threshold non si discosta particolarmente da quella già presentata su Pollinator, e in effetti è difficile stabilire se Threshold rappresenti un ulteriore passo avanti o semplicemente una conferma dei già notevoli livelli del suo predecessore. Quel che importa, però, è la qualità e la quantità di soluzioni esotiche che il trio sperimenta nella mezz’ora di durata di questo disco: dove i Wormrot per caratterizzare la propria formula giocavano perlopiù con la palette timbrica, i Cloud Rat optano per una maggiore varietà strutturale e melodica. Prima The Color of a Dog, con il suo sviluppo fratturato e serpentino, sembra fare il verso ai Converge; quindi, il sinistro riff di chitarra di 12-22-09 (probabilmente, uno dei brani più belli del metal estremo in questo 2022) richiama addirittura il rovinoso finale di Disambiguation degli Indian; infine, Kaleidoscope e Babahaz, con il loro passo continuamente conteso tra le scosse telluriche del grindcore e le tormentose melodie ascensionali della chitarra, esaltano tutti i punti di contatto tra i Cloud Rat e la scena screamo. Gli ingredienti per scrivere uno dei più grandi lavori grindcore dai tempi dei Pig Destroyer sono già tutti in questi quindici brani: il sound del gruppo è unico, la scrittura è evoluta e sofisticata, i pezzi gestiscono con sapienza l’alternarsi di situazioni più estreme e momenti più dilatati, e hanno anche il tempo di esprimersi adeguatamente, grazie a una durata media meno castrante del minutaggio essenziale tipico del genere – che comunque non si dilunga eccessivamente nemmeno nei momenti più pacificanti. Insomma, i Cloud Rat fanno bene più o meno tutto ciò che i Wormrot sbagliano su Hiss. Da questi ultimi, i Cloud Rat potrebbero forse prendere spunto per tentare soluzioni timbriche più diversificate, che affievoliscano il senso di sameness che appesantisce l’ascolto di Threshold (così come appesantiva già quello di Pollinator) – che alla fine è l’unico importante difetto della formula dei Cloud Rat. A parte questo, però, sono già il gruppo grindcore da seguire con attenzione di questi anni.