È estate, siamo in vacanza e quindi non vogliamo impegnarci. Queste riflessioni estemporanee costeggiano le nostre esperienze in questo agosto lontano dagli schermi, ogni settimana dalla testa di un redattore diverso. Buona lettura e grazie di continuare a sopportarci anche dai mari e dai monti che state calcando in questi giorni, fregandovene della vita che facevate e di quella che farete.
Ho un rapporto strano con i dischi dei Cocteau Twins che ho ascoltato: mi sembrano tutti belli ma incompleti. Garlands luccica già di talento e intuizioni fuori scala per un esordio, ma si percepisce ancora uno scollamento tra la parte esoterico-graffiante e quella etereo-evocativa; Head Over Heels satura tutti i canali dell’ascolto con un magia decadente e buia, che vive di picchi così alti da oscurare i brani che sembrano poco più che bozzetti; Treasure esce incompiuto e affrettato già nelle testimonianze della band, si appoggia come non mai alla glossolalia misterica di Elizabeth Fraser per sostenere una levità sempre sul punto di spezzarsi; Heaven or Las Vegas vive del fascino di chi ha già varcato una soglia, una maturità piena con i segni della vecchiaia e uno scheletro fino a reggere abiti meravigliosi. Nel mio percorso da ascoltatore che vedeva i Cocteau Twins come uno dei gruppi più celebrati di sempre, questo senso di incompletezza mi faceva innervosire perché mi impediva di amarli pienamente: è possibile, mi dicevo, che una creatura che aveva dalla propria la voce di Fraser -il cui formulario di incantesimi cantati rimane una delle esperienze più impattanti della musica degli ultimi 40 anni- non sia riuscita a compiersi in una forma definitiva e perfetta? E non parlo ovviamente di Storia della Musica, in cui uno o due dei loro album stanno comunque su un piedistallo a prescindere da chi la scriva, ma di una forma definitiva per me: un disco a cui legarmi per sempre e da cui ritornare per emozioni piene e rassicuranti. Ora che riascolto gli stessi dischi dalla prospettiva sbilenca della Vita Adulta®, rivedo in quel desiderio di valori assoluti un’ingenuità del me passato che mi fa sorridere. Ora che i quadri dei miei giorni sono quasi tutti fatti di sfumature, mi piace invece l’idea che il mio disco preferito dei Cocteau Twins possa variare da un ascolto all’altro; la parte incompleta che mi impedisce di cristallizzarli in un canone è anche la linfa vitale che di volta in volta mi porta a riascoltarli per cogliere qualcosa che prima mi era sfuggito. In questo momento, seppur pesantemente fuori stagione (o forse anche per questo), sono particolarmente legato a Head Over Heels. Ascoltare la drammaticità incombente ed enorme di pezzi come Five Ten Fiftyfold e Musette and Drums è un’esperienza in cui mi piace indulgere quando mi sento spossato; sento la fibra dei pensieri inceppati gonfiarsi di carica emotiva per poi fare pop! come una bollicina quando capisco che in fondo sono tutte filastrocche. Piene di spavento e di promesse, come la sveglia che suona domattina.
Tra i dischi hip hop usciti recentemente quello che sto ascoltando di più è Killing Nothing, collaborazione tra Real Bad Man e un Boldy James che negli anni pandemici sta pubblicando album con lo stesso ritmo di un pezzo gabber. Non è esattamente un disco sorprendente o innovativo, ma unisce solida narrativa gangsta tra droga e massacri con un flow diretto e impeccabile su basi dal forte accento boom bap: c’è di che prendersi bene. Tuttavia la ragione per cui Killing Nothing rimane appiccicato ai flussi audio delle mie cuffie sta principalmente nel fatto che fa la sua cosa in maniera creativa ed efficace senza strafare, senza bisogno di dover dimostrare nulla che non sia saper fare bene la propria cosa. Forse è solo una mia impressione o forse sto diventando gradualmente un vecchio di merda, ma questa attitudine mi sembra una boccata di aria fresca rispetto alla tendenza di incorporare una miriade di influenze e stili differenti con sampledelia allargata e ospitate a iosa per dimostrare di essere sul pezzo su tutti i fronti. Questo approccio si ritrova in artisti già sdoganati che vogliono fare il Grande Salto ed ottenere un riconoscimento che va oltre gli steccati del genere, ma inevitabilmente anche in ambienti underground e autoprodotti diventa una tattica consapevole per mirare a più bersagli possibile sperando di fare qualche centro. Un buon esempio a metà potrebbe essere Moor Mother, che abbiamo sempre apprezzato nelle sue vesti più politicamente cariche e deflagranti di suoni industrial pensando però sotto sotto “chissà se…”, immaginando aperture e variazioni di spartito; quando poi è successo è venuta fuori una roba come Jazz Codes, che è un offertorio di noia proposta in dozzine di vesti diverse e per un attimo ci fa uscire da ogni proposito di ascolto orizzontale per abbracciare l’integralismo stilistico duro e puro. Vale la pena di perdersi nei meandri di dischi così, con un impianto concettuale che si sbrodola in mezzo a mille idee soffocate nella culla per l’ansia di non trovare spazio alla successiva e senza neanche UN pezzo che si fa ricordare a fine ascolto? No, preferisco cento volte la sobria eleganza di dischi come Killing Nothing che sfruttano ogni sample, ogni variazione sul beat, ogni pausa al massimo delle proprie potenzialità; che ti spingono ad ascoltare con attenzione per godere tutte le finezze inserite nel canovaccio collaudato e con un pugno di buone intuizioni mettono insieme una tracklist che ha tiro, coerenza e momenti memorabili. È buona cosa di questi tempi rimanere idratatə e rimpolpare gli ascolti con album come questo, che di uscite che solleticano l’ADHD latente in chi ascolta per mancanza di un piano migliore ce n’è già abbastanza.
Non ho mai avuto nessuna passione per gli oggetti, e i dischi in formato fisico non fanno eccezione. Avere la copertina di uno dei miei album preferiti di sempre che fa capolino da un mobile non mi dà nessun piacere, per di più ascolto quasi esclusivamente musica in digitale e in cuffia. Se compro un vinile, un CD o una cassetta lo faccio per una mera questione di supporto e di finanziamento all’arte che amo di più, nel mio piccolo, sapendo che spesso la musica che più mi appassiona vive all’interno di dinamiche economiche molto difficili da sostenere per chi la crea e chi la distribuisce. Per questo ho poche ma incrollabili direttrici da seguire. Cerco di acquistare in formato fisico solamente uscite pubblicate negli ultimi anni, per supportare artistə ed etichette ancora in attività; per massimizzare la quota a loro destinata preferisco comprare su Bandcamp, o direttamente sui siti delle etichette stesse; niente acquisti dalle major o da utenti di Discogs; se un disco non è disponibile in formato fisico cerco di comprarlo in digitale. In queste linee guida piuttosto scarne concettualmente ci sarebbe poco spazio per acquisti da distributori o aggregatori di vario tipo, eppure uno dei luoghi preferiti per i miei acquisti appartiene nominalmente proprio a questa categoria ed è Boomkat. Questo perché Boomkat non è soltanto un negozio di dischi virtuale, ma rappresenta un vero territorio di esplorazione per chiunque abbia interesse verso le gemme nascoste che lo sterminato terreno della musica può offrire. Il concetto è semplice e diffuso: ogni pubblicazione disponibile sul sito, sia in formato fisico che digitale, ha una pagina dedicata. Molte di queste hanno presentazioni che non sono semplici copia-e-incolla dei comunicati stampa discografici (com’è usanza comune), bensì vere e proprie descrizioni/recensioni scritte dallo staff di Boomkat, tra i più competenti e creativi che mi sia capitato di incontrare in questo settore. Il loro grande talento sta nella capacità di creare curiosità e hype intorno a dischi tanto particolari quanto sotterranei, e allo stesso tempo nell’assoluta e appassionata sincerità con cui ne parlano. Boomkat deve vendere i dischi che mette in lizza per potersi sostenere, questo è certo; eppure non scade mai nella ruffianeria di venderti ogni insieme di tracce come un capolavoro per fartelo comprare. Si ha proprio la sensazione che la stragrande maggioranza della musica disponibile sul sito venga ascoltata prima di essere resa disponibile e che i giudizi riflettano l’apprezzamento di chi se ne occupa. Se un disco è piaciuto allo staff, verrà presentato con diversi e riconoscibili gradi di entusiasmo che uniscono la conoscenza di chi ne sa a pacchi all’entusiasmo di ognuno di noi quando si trova nel proprio elemento musicale; altrimenti avrà una presentazione impeccabile ma neutra. Addirittura, nei casi in cui il personale di Boomkat si trova nell’ambigua situazione di vendere un disco che non piace, le descrizioni si caricano di ironia e sembrano fatte apposta per presentare la musica sotto una cattiva luce: è il caso dell’insignificante In Colour di Jamie XX, che ai tempi veniva delineato come “the pre-eminent posh soul boy” la cui musica è un esempio di “safe raving” in cui “the putative “soul” of rare groove, boogie, hardcore and early jungle is sucked out and spliced with vocals in feathered arrangements ripened up for students and yummy mummys alike”. Come a dire: se proprio lo vuoi noi te lo vendiamo, però insomma…
A unire il tutto c’è una coerenza invidiabile nella musica che Boomkat sceglie di coprire, dalle etichette discografiche con cui collabora alle produzioni che pubblica in proprio. Nelle poche righe in cui viene descritto il sito, si legge: “…we are constantly on the lookout for what we consider to be the most innovative, exceptional, interesting and often overlooked music out there – regardless of where it has come from or who it is made by”. È effettivamente così: Boomkat è specializzato in tutta quella musica che sta al confine tra avanguardia e sperimentalismo, con particolare riguardo per l’elettronica, ma soprattutto con una ispirazione da talent scout per andare a scovare dischi illuminanti in contesti spesso superficialmente ignorati. Pubblicazioni indipendenti, riedizioni di materiale d’archivio, compilation di scene musicali non occidentali; e ancora box set onnicomprensivi, split tape, EP in tiratura limitata. Tutto ha la possibilità di finire nella lente d’ingrandimento di Boomkat, che peraltro ogni settimana fa uscire una rassegna stampa dove segnala le uscite più interessanti tra album, EP/singoli e ristampe. Oltre a questo il sito ha, diciamo così, inscritto il proprio canone in due raccolte intitolate “Classics” e “Future Classics”, con la prima dedicata a pubblicazioni seminali dell’ultimo secolo e la seconda a lavori usciti recentemente che secondo lo staff saranno influenti negli anni a venire. Entrambe sono costantemente arricchite e aggiornate, colme di selezioni assolutamente non scontate e stimolanti da affiancare ai nomi noti di pilastri di vari generi musicali; rappresentano di per sé dei fantastici territori di esplorazione e conoscenza secondo prospettive diverse dal solito. In periodo natalizio, poi, c’è la chicca delle classifiche dell’anno appena trascorso: un lavoro enorme, dove lo staff redige tre diverse selezioni -classifica generale, gemme nascoste e uscite d’archivio- e chiede a una platea vastissima di artistə (che spesso e volentieri hanno musica disponibile su Boomkat) di inviare le proprie, creando un caleidoscopio di stimoli dalla varietà e profondità impressionante, per coprire interamente il quale ci vorrebbe buona parte dell’anno successivo. In questo modo Boomkat riesce ad incorporare un mix di caratteristiche tra Resident Advisor, The Quietus e il compianto TinyMixTapes risultando allo stesso tempo unico e inimitabile: uno dei posti migliori dove scoprire nuova musica e supportarla sostenendo anche questo gioiello di sito e il personale che lo rende tale. Quest’anno ricorre il ventennale dell’esordio online di Boomkat e, oltre a leggere queste righe, potete visitarlo da voi per capire quanto è meritevole.In questi mesi ho comprato su Boomkat: un live di Anna Von Hausswolff e una pubblicazione di materiale d’archivio dei VOX Populi!, di cui ho parlato qui; All Caps di ZULI, uno dei dischi più grossi dello scorso anno; Fragmentos da Casa di Marco Bosco, ristampa di un album dalla creatività festante che è tra i più misconosciuti ed interessanti nell’evoluzione brasiliana a cavallo degli anni Ottanta, tra folk della tradizione e nuovi suoni sintetici; l’EP Collapse di Aphex Twin, inaspettata e piacevolissima dimostrazione di rilevanza contemporanea di RDJ; infine un bel DJ mix, fabric presents TSHA. TSHA è una giovane DJ e producer che negli ultimi anni è stata molto chiacchierata dalla gente giusta e ha collaborato con la gente giusta, un nome in rapida ascesa che presto farà il passo dell’album d’esordio. Finora la sua musica si è caratterizzata per un suono molto à la page, una house dalle influenze tropicali tra Africa e Sudamerica con un’impostazione accessibilmente pop. Nel mix però mostra chiaramente il talento che c’è alle base dell’hype. Qui TSHA mantiene come punto di riferimento una tech house dinamica e coloratissima, macinando una gran quantità di pezzi dagli stili molto variegati all’interno di un flusso che aggiunge sempre nuovi stimoli senza mostrare mai cali di tensione. È notevole la sua capacità di usare la diversità di proposte ritmiche e tematiche del materiale mixato per generare qualcosa di personale, come materia modellata da un’artigiana sapiente. Il risultato è un mix coinvolgente dal perfetto mood estivo, che vi lascio come consiglio per sonorizzare il vostro agosto.