Words disobey me.
Nella leggera serata del 21 Aprile dell’anno del signore 2023 ero in un piccolo locale di Roma con Barbara a bere un tondo e abbondante calice di nero d’avola come l’anziano adulto che mi ritrovo ad essere. Attorno alla situazione, in un circondario di personaggi d’aperitivo del quartiere XIII Aurelio, semplicemente parlavamo. Un’esperienza intensa, di cui mi ricordo pochi dettagli se non uno specifico picco relativo, collocato nella metà della conversazione e a tre quarti del mio ingombrante bicchiere: una domanda di difficile interfaccia per chiunque, figuriamoci per chi fa il mio mestiere.
Ma, al di là di tutto lo studio e la ricerca, qual è il tipo di musica che effettivamente ti piace?
Di solito quando qualcuno mi fa questo tipo di domanda passo direttamente il mio profilo di RateYourMusic e pace, ma non ero davanti a uno sconosciuto, e dovevo rispondere con quella stessa serietà che avrei indossato se la domanda fosse venuta direttamente da me. È una domanda che, del resto, mi pongo spessissimo. Risparmio a chi legge l’aritmica e sbilenca risposta nella sua completezza: lunga, noiosa, fuori fuoco. Riguardava il mio assetto da ascoltatore orizzontale, la modularità delle componenti che mi piacciono in un pezzo e in un disco, le aree in cui mi sono specializzato nel corso degli anni. Posso e devo, però, condividere la prima cosa che le ho detto:
Probabilmente la prima scena in cui mi sono specializzato, quella che è più vicina alla mia pancia, è una certa corrente di post-punk sperimentale, intellettuale e frenetico di stampo angloamericano, sostanzialmente quello di cui si occupa Reynolds nella prima metà di Rip It Up and Start Again.
Mentre compilavo questa risposta di cuore alla domanda più difficile dell’universo non stavo pensando ai Magazine o ai Tuxedomoon, non stavo pensando agli Scritti Politti o ai This Heat, non stavo pensando nemmeno alla No Wave o ai Rocket From the Tombs. La mia mente si era istintivamente, immediatamente, magneticamente rivolta – nello specifico – al Pop Group. Un’ora dopo, mentre ci stavamo avviando verso Castel Sant’Angelo su Via Gregorio VII, apprendo su Rumore della morte di Mark Stewart, mi blocco sul viale, sgrano gli occhi: …no.
Io sono minuscolo davanti alla cadenza sardonica e inarrestabile della poesia beat di Stewart, ma la verità è che sono un trentenne che sta ascoltando i demoni di un ragazzo che aveva diciotto anni all’uscita di uno dei dischi più importanti di tutti i tempi, quel Y che nel mio pantheon dominato dalla storia delle Shaggs non è comunque inferiore a nessuno. Words disobey me, ripeto. È molto maleducato parlare di sé davanti alla fine della vita di qualcuno: su Mark Stewart si potrebbe raccontare tantissimo, immerso com’era nel clima apocalittico di quella Bristol universitaria lacerata dalla batteria di umori e cretinismi del punk inglese. Si potrebbe tranquillamente raccontare di tutti i riferimenti culturali di un adolescente imbevuto di agitazione citati in ogni intervista e monografia, così come si potrebbe tracciare la ragnatela di rapporti, ispirazioni, collaborazioni ed emuli che orbitano intorno al Pop Group e all’esperienza con i Maffia. Anche queste mi sembrano operazioni molto maleducate, anche solo un fraintendimento mi suonerebbe come un tradimento. Una falsa informazione, una bugia vocalizzata in malafede. È morto e basta. Words disobey me.
È morto Mark Stewart, e io già lo cercavo in ogni disco, cosa succederà adesso? Quando l’anno scorso vi ho parlato degli Nze Nze avevo una fame bestiale, una interminabile voglia di ritrovare quel collerico e allo stesso tempo chimerico fantasma di una Blood Money, di una Don’t Sell Your Dreams. Anni fa divenni evangelista di un disco punk-funk trovato su bandcamp (Dinner & the Maincourse) per lo stesso identico motivo, perché il Pop Group nel XXI secolo non potevo più averlo. Ma come è possibile che nulla più sia stato come il Pop Group? Il caso specifico di Y non è nemmeno quello di una riuscita mescolanza di generi affini, ma l’avvento di una musica nuova e completamente diversa a partire da tasselli che stridono e stanno sotto tortura, non replicabile, difficilmente descrivibile se non agganciandosi a stratagemmi da parolaio pieni di aggettivi tipo borborigmo, miasma, magmatico oppure a panegirici del free jazz e di una dub che – diciamoci la verità – oltre il Pop Group non è che esista. Y è semplicemente Y. Come è possibile, poi, che con quella impossibile eredità Mark Stewart sia riuscito a impiantare nella storia della musica interi generi con Learning to Cope with Cowardice e soprattutto con As the Veneer of Democracy Starts to Fade, entrambi album che hanno avuto una risonanza e un’influenza mostruose?
In un’intervista con Mark Fisher portata su The Wire, Stewart riportava con la chiarezza dell’artigiano della dub un concetto che noi ci sforziamo di sottolineare molto spesso per svariati generi di musica:
Juxtaposition, saying the opposite of what you have just said, that was the nature of dub, the nature of dub was the holes.
Due anelli possono essere uguali, ma nessun buco sarà uguale ad un altro: forse è questa la differenza specifica che sto cercando? È una realtà che traspare sia dall’ascolto di The Waiting Room che da quello di Savage Sea. Forse è questo qui il punto di un Mark Stewart il cui nucleo artistico è allo stesso tempo sfuggevole come una lucertola e statuario come una testuggine. Però…
Però sto anche mistificando. La vita di Mark Stewart è stata vissuta all’insegna dell’agit-prop. Con l’ingresso nell’età adulta del poeta, quasi tutti i suoi strali hanno lampeggiato nella praxis. Era la cosa giusta, ma quando la politica subentra nell’estetica la maggior parte della critica tende a sentire la carenza di purezza, è gelosa del genio se è convogliato in un’attività che non la riguarda. How Much Longer… piace meno per il suo turbinare holier-than-thou. I dischi sotto nome Stewart si smussano e irrigidiscono, attaccano molto diversamente; quasi tutta l’immodestia del free jazz è stata imbrigliata dai Rip, Rig & Panic. Gli anni ’80 coi Maffia si aprono e chiudono all’insegna del significato e si concentrano su innuendo che ribollono al di qua di quella mistura sonora industriale che tratteggia i dischi usciti fino a Metatron. Sempre dall’intervista con Fisher:
I think it’s important to edit your own preconceptions because we are products/constructs and that is crucial to me we are constructs. And that saying that “the truth is the first casualty lying dead on the cutting room floor”. There’s a thing about aestheticising your politics and politicising your aesthetics, it’s crappy words but I love it. I’m as much as a theory slut as the next person: Baudrillard, Semiotexte, running with poetical ideas, running with strange ideas and the lyricism of the thing kind of inspires you.
Life is politics, every decision you make, that’s what it means, when people start going on I just get completely lost.
Per qualche ascoltatore l’ultra-left di cui era butterata la poetica di Mark Stewart distrae molto dall’esperienza catartica e ferina che caratterizza i migliori passaggi del Pop Group, per qualcun altro è un grande valore aggiunto al percorso dell’artista (quando non è troppo preachy). Forse è una soluzione scontata a questo tipo di dilemma, ma io penso che gettarsi in modo così ossessivo e feroce in una lotta partigiana come quella di We Are All Prostitutes non sia molto distante dall’andare a caccia o bere sperma in un gruppo di giovani adulti Baruya. La resistenza spregiudicata è un fatto tribale nei tristi tropici del neoliberismo, e queste qui sono le coordinate spaziali e temporali in cui si muove l’azione artistica di Stewart. Natura e cultura a petto nudo dietro allo striscione incendiario che recita “ROB A BANK”. Questa congiuntura è così rara nella storia del pensiero e dell’arte che non sembra plausibile, sembra un abbaglio di critica, ma ritornando sui brani come fai a non rendertene conto?
È così ovvio: per domare l’eternità e dichiarare con un po’ di imbarazzo “We are time” bisogna essere asserviti allo scorrere del tempo, che per l’uomo non può essere che il tempo dell’uomo. I riferimenti culturali di Mark Stewart, è abbastanza evidente dalle interviste, sono rimasti più o meno quelli scoperti negli anni della Grammar School di Bristol (Artaud, Reich, Blake, Rimbaud…): perché continuare a guardare alle menti del passato se urge spezzare il presente e rovesciarsi in un futuro che non esiste? Con uno sforzo di immaginazione è possibile guardare da dentro il mulinello di relazioni, concerti e idee in cui Stewart si è lasciato risucchiare, diventando come pura materia storica, rarefatto nei fatti della società che camminava a causa della sua stessa agitazione. Cultura che diventa natura? Words disobey me, ma forse proprio lui può venirmi in aiuto per comunicare le scintille che quella voce ombrosa proietta nel retro del mio cervello.
Sometimes I feel the pain
Don’t Ever Lay Down Your Arms
Sometimes I feel the strain
But I don’t give up and lay down my arms
They’ll never try snatching a bone from the real dogs
Bastards
Think about it!
What’s pathetic is our apathy in the face of the misery of others
How Much Longer
Our inaction in the face of their murder and enslavement
Is a violent crime
La cultura che diventa natura si cristallizza e ritorna cultura nel momento in cui lo sfortunato effetto di una così convinta forza di denuncia è la genesi di quello che è a spanne il miglior disco di sempre. Ci sarà sempre spazio per sperticarsi di lodi affannose e sconvolte davanti a uno di quei buchi nel dub di cui Y è groviera; penso tuttavia che la dipartita di Stewart ci lasci con un monito molto più importante del mero change everything nel campo della musica. Non voglio saltare a conclusioni, ma è probabile che il miglior regalo che potremmo fare ad una delle voci più importanti della storia della musica sia di toglierci dagli occhi le lenti dell’antropologo e prendere in mano una lancia, guardare ai suoi testi, lasciarci ispirare a tutti i livelli. Fare quella politica di cui siamo carenti, per la cui carenza boccheggiavano i suoi recitativi. Mark Stewart è morto. Davanti a una figura così prometeica, noi umani abbiamo il dovere di non rendere i suoi crimini inutili: dobbiamo cominciare a usare il fuoco.