NALA SINEPHRO – ENDLESSNESS
Vorremmo tanto provare per Nala Sinephro un’acredine feroce e velenosa come sappiamo riservare ai nostri più grandi nemici ideologici, quei totem della musica che rappresentano ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Vorremmo, ma non possiamo, perché la musica di Sinephro è davvero troppo vapida e anemica per suscitare emozioni accese durante l’ascolto – figuriamoci per meritarne dopo. In passato (qui e poi, tra le righe, anche qui) abbiamo vagamente accennato a ciò che rende il suo lavoro così povero di contenuti: su Space 1.8 si era limitata a pennellare acquerelli di muzak da ascensore a metà tra il minimalismo più tenue e certe divagazioni più new age-y dell’estetica ECM, che nei suoi picchi di robustezza quasi accarezzava la delicatezza cool di un Bill Evans. Come diceva Jacopo in uno degli articoli citati poco sopra, la poetica di Sinephro è davvero descrivibile come ambient jazz: non è né una declinazione dell’ambient consapevole dei mezzi espressivi e tecnici del jazz – come poteva essere la musica di Harold Budd o di Jon Hassell – né è una forma di jazz che si concede delle divagazioni che sfruttano i timbri o le idee alla base della musica d’ambiente – come per esempio accadeva con il noiosissimo trio di Esbjörn Svensson. È, piuttosto, un punto di incontro a circa metà dello spettro tra i due estremi, riassumibile in un jazz elettrico talmente edulcorato e suonato in punta di piedi da svuotarlo della verve ritmica e armonica allo scopo di giungere a una forma di ambient sofisticata – aggettivo da intendere in termini meramente tecnici e performativi, senza alcun connotato qualitativo che invero la musica di Sinephro non può vantare. Il suono di Space 1.8 è fatto di delicate trame di arpa alla maniera di Alice Coltrane (è sempre lei la colpevole), mulinelli di sintetizzatore che fanno pensare invece a un Terry Riley, comping di pianoforte e chitarra di una leggerezza insostenibile, ostinati bordoni di elettronica cosmica che si fondono con il tono mellifluo di un sassofono in secondo piano. In questo, Space 1.8 si distingue dal coevo Promises di Floating Points – molto più classicamente riconducibile al mondo del post-minimalismo ambientale – che ai tempi della sua uscita è stato spesso usato come termine di paragone e con cui invece condivide soltanto il fatto di essere un album noiosissimo la cui funzionalità si esaurisce quando il dentista chiama il tuo turno e puoi finalmente uscire dalla sala d’attesa. Perché quello di Sinephro è un suono talmente sbiadito che l’inserimento di elementi sonori più nitidi e meno amorfi– come i groove di batteria di Eddie Hick (dei Sons of Kemet) e il tono più acido della tastiera di Wonky Logic su Space 3, o gli assoli coltraniani del sax tenore di James Mollison (Ezra Collective) su Space 4 e Space 6 – vengono recepiti più come una contraddizione dell’estetica generale dell’album, anziché come un’estensione dello spettro timbrico ed espressivo attraversato da Sinephro. In poche parole: un album inutile per qualsiasi altro scopo che non sia quello di tappezzeria sonora – che come tale non ha mancato di ricevere riconoscimenti dai più modaioli portali sulla piazza.
Endlessness, uscito di nuovo per Warp a tre anni da quel debutto, non cambia molto del tracciato di quel disco se non per qualche piccolo orpello a livello di strumentazione: un utilizzo più parsimonioso dell’arpa in favore dei sintetizzatori modulari; un organico più esteso comprendente anche la trombettista Sheila Maurice-Grey dei Kokoroko e gli Orchestrate (lo stesso ensemble presente su Lives Outgrown di Beth Gibbons) a curare gli arrangiamenti; poco altro. Se proprio vogliamo fare i sommelier, potremmo dire che così facendo Sinephro spinge sull’acceleratore verso il lato elettronico e d’ambiente della sua musica, mirando al suo carattere più evocativo (o presunto tale). Il grosso del tessuto sonoro di Continuum – questo il titolo dell’unica traccia di Endlessness, per comodità divisa in dieci segmenti su disco – si basa su mulinelli di tastiera tra il minimalismo e la progressive electronic, ragnatele di arpeggi sintetici che rievocano la deriva più soft dei corrieri cosmici di fine anni Settanta, e letargici tappeti di archi cinematografici; tant’è che anche quando appaiono i sax di Nubya Garcia e di James Mollison, o la tromba e il flicorno di Sheila Maurice-Grey, l’intento sembra quello di recuperare l’afflato arcadico e newage-y della ECM post-anni Ottanta. Non a caso, in più o meno tutte le recensioni disponibili del disco, Endlessness viene spesso paragonato all’opera di Suzanne Ciani: è un riferimento completamente corretto e a fuoco, soprattutto guardando al gusto alle tastiere e ai sintetizzatori mostrato da Sinephro; mi è solo incomprensibile perché tutti lo vedano come un termine di paragone nobile.
Alla fine dell’ascolto, di Endlessness non rimane assolutamente nulla se non il riconoscimento, dovuto ma insignificante, per una buona scelta dei suoni e qualche intrigante contributo di batteria e fiati. Poche volte Endlessness sembra davvero giungere a una sintesi compiuta del mondo jazz e di quello ambient: accade per esempio su Continuum 2, che con il notturno interplay tra pianoforte e flicorno proietta perfino l’ombra lunga dei Talk Talk di Laughing Stock e dei Bark Psychosis di Hex, e su Continuum 10, dove invece l’ottima prestazione di Eddie Hick contrappunta con creatività le modulazioni elettroniche dei sintetizzatori che già di per sé richiamano gli esperimenti all’organo di Mike Ratledge. Per gran parte della sua durata (che è circa quarantacinque minuti, non esattamente pochissimo), l’album galleggia invece nell’etere quasi incurante di sviluppi narrativi – anche perché, avendo suddiviso Continuum in dieci brani, ognuno di questi può indulgere e ribadire ostinatamente la stessa idea per tre, quattro, sette minuti, portando come unica variazione qualche crescendo stanco e ormai passé. È musica che, come Space 1.8, si adagia in una comfort zone di ripetizione di frasi tanto semplici da non suscitare nemmeno sentimenti così infuocati: entra in un orecchio e scivola via dall’altro, dolcemente, facendo ben attenzione a non rigare il parquet. Il che a quanto pare basta per ottenere plausi o–v–u–n–q–u–e: contenti voi…