KALI MALONE – DOES SPRING HIDE ITS JOY
Molto tempo fa, quando questo sito era ancora chiamato Bjorko Dio e i grandi bisonti popolavano le praterie, avevo scritto un commento caustico su un disco di Max Richter uscito per la Deutsche Grammophone, Sleep, un’opera immersiva che con le sue otto ore e mezza di durata avrebbe dovuto accompagnare l’ascoltatore durante il sonno per spingerlo attraverso stati meditativi più profondi e rilassanti. Ovviamente, erano tutte stronzate: anche volendo escludere l’inquietante riflessione che il concept di un disco simile evoca (siamo davvero arrivati a un punto così marcio del mercato del tempo per cui abbiamo bisogno che persino lo slot del nostro riposo debba essere occupato e ingolfato da un prodotto “attivo” come un disco?), Sleep era un merdosissimo, annacquato esercizio di ambient music moscissima fatta tutta di pianoforti plinplinplin e archi zoooooong zoooooooong che non andava da nessuna parte per tutta la sua estenuante durata.
Per sua fortuna, Does Spring Hide Its Joy della compositrice americana Kali Malone non vuole aggirarsi nella stessa boriosa bruma degli intenti psicopompi di Max Richter. Tuttavia, questo non gli impedisce di essere comunque un ascolto ugualmente frustrante e noioso, che lo piazza tra i dischi più brutti di questo 2023 a malapena iniziato. Ma partiamo dall’inizio.
Dicevamo, appunto, che Kali Malone è americana. Does Spring Hide Its Joy però nasce durante quella che sarebbe dovuta essere una breve residenza a Berlino nel 2020, trasformatasi in due mesi di reclusione a causa del COVID; Malone, come riporta il presskit della label Ideologic Organ, ha dovuto perciò fare i conti con lo sfilacciato senso del tempo che ha contraddistinto a livello globale quei lunghi, terrificanti primi mesi di pandemia. Bello, mi dicevo io mentre inforcavo le cuffie: forse Does Spring Hide Its Joy sarebbe stato un ultimo, imponente monumento di quella ondata che oramai anche la stampa specializzata chiama senza troppi problemi “COVID-core”, e cioè quei dischi che per forza di cose hanno dovuto fare i conti con la pandemia a livello logistico e tematico. Una definizione barbara dato che ingloba di tutto, da How I’m Feeling Now di Charli XCX all’ultimo spompatissimo disco dei Fucked Up, One Day; ma tant’è.
I più accorti tra di voi noteranno che sto agilmente tentando di sviare dal discorso di cosa ci sia effettivamente in questo disco, facendo questi giri larghissimi intorno al contesto che l’hanno creato: mi sembra però arrivato il momento di affrontare l’elefante nella stanza. Does Spring Hide Its Joy è, alla sua base, un lungo, lento e labirintico movimento di bordoni dove Malone, Stephen O’Malley dei Sunn O))) e Lucy Railton esplorano per poco più di cinque ore l’interazione tra (rispettivamente) un sintetizzatore, una chitarra elettrica e un violoncello. La composizione, che non ha un minutaggio fisso e che qui viene raccolta in tre differenti iterazioni, consiste nella sovrapposizione dei toni tra i tre strumenti che, venendo microscopicamente alterati nel corso del tempo, danno vita a compenetrazioni degli armonici nello spettro auditivo che ne sfibrano la texture trasformando nebulosamente il soundscape da una situazione A a una situazione B. Niente di nuovo sotto il sole: anche solo all’interno delle grandi compositrici di avanguardia del secolo scorso, appare ovvio come Malone sia profondamente indebitata nei confronti di lavori come Deep Listening di Pauline Oliveros nella modellazione dello spazio acustico a partire da un singolo suono. L’esercizio di Does Spring Hide Its Joy è interessante nell’intento, dato che tre strumenti radicalmente diversi nella palette timbrica assumono contorni sfumati mentre interagiscono tra di loro; in più di un momento, mi sono trovato a domandarmi se il suono che stavo sentendo avesse in primo piano ora il violoncello, ora il synth, ora la chitarra; e altrettanto spesso mi sono domandato come fosse possibile alterare così drasticamente la ricezione delle onde sonore tramite modifiche così minuscole come quelle che si percepiscono mentre il disco si snoda su se stesso.
Se questo paragrafo vi è sembrato stranamente positivo, però, è necessario che mettiate tutto quanto quello che ho scritto poco sopra nel contesto di un’esperienza di ascolto di cinque ore. Le intriganti domande alla base del processo di Does Spring Hide Its Joy diventano un pensiero fisso e sfiancante, visto che sono anche l’unica cosa che ci si può chiedere durante tutta la sua durata; e se l’interplay tra i tre musicisti sarebbe una delle più interessanti basi concettuali dalle quali è possibile esplorare i significati del disco, il fatto che il granitico drone che riempie le cuffie sia più o meno costante dal primo minuto fino all’ultimo impedisce di comprendere quali siano le effettive interazioni e contaminazioni di uno strumentista sull’altro. E allora con cosa si rimane quando finisce Does Spring Hide Its Joy, se non con un pugno di mosche e le orecchie che ronzano fastidiosamente? Personalmente, l’unica altra cosa che riesco a portare con me da questo disco è una profonda insoddisfazione: l’idea di base del disco è meravigliosa, intrigante, capace di diventare un instant classic anche solo in virtù del periodo storico in cui è stata progettata; e però la sua esecuzione diventa solo un prolisso parlarsi addosso, per giunta ripetendo la stessa parola per tutto il tempo. Quando i mistici ripetono ossessivamente formule, preghiere e frammenti per raggiungere un più alto livello di illuminazione, il primo effetto che si nota è che la parola pronunciata smette di avere senso; ed è forse questa la lezione che dovrebbe imparare Kali Malone prima di cimentarsi con altre avventure di questo genere.