SILVIA PEREZ CRUZ – TODA LA VIDA, UN DÍA
È un pomeriggio d’estate, sto coprendomi al sole da una pesantissima afa ecoansiante, in lontananza troneggia il piccolo centro commerciale di Via del Lavoro, Bologna, il suo caffè-tabaccaio spruzzato di sedie di plastica verde e arancio, lo studio dentistico. Entro nel centro commerciale, il mio sudore viene purgato dall’aria condizionata: sto ascoltando Toda la vida, un día.
È una mattina, sempre d’estate. Stavolta fa fresco, e c’è un pesante respiro di vento che, permettendone il movimento gentile, esaspera la bellezza dei variopinti bouquet di fiori che si trovano a margine delle strade della freetown più famosa d’europa. Sto esplorando la zona poco battuta dai turisti, le case tirate su dai migranti tra gli anni ‘70 e ‘80, cercando di non stizzire chi ha deciso di abitarci: sto ascoltando Toda la vida, un día.
Tardo autunno, sole quiescente dietro un pantano di nuvole. Sono su di una panchina al termine di una lingua di scogli, il mare vi si accascia piatto e spento. Attorno è tutto grigio, appaciato, solo l’attività in superficie di certi grossi uccelli tradisce la vitalità di questa bonaccia. Una influencer viene a farsi un set fotografico accanto a me, nonostante il vento e la brutta giornata: sto ascoltando Toda la vida, un día.
Sto studiando a casa. Sono in bici. Sono a lavoro. Sono in palestra. Sto cucinando. Sto facendo la doccia. Sto, insomma, ascoltando Toda la vida, un día.
Non sono ossessionato dall’opera maestra di Sílvia Pérez Cruz, sto solo cercando volta per volta di mettere in ordine le idee per una recensione che non so quando arriverà. Il disco è uno di quei lavori per i quali puntare il dito sulla grandezza è un’operazione genealogica complessa, una ruminazione dei termini che, alla fine della fiera, agilmente porta a una lettura all over the place, poco precisa. A onor del vero, di precisione ne trovate a pacchi nella recensione schematica e completa curata da Federico Romagnoli ed edita per Ondarock, si parla abbondantemente di passato e presente della cantautrice catalana, anche con una certa competenza. C’è un problema a parlare di un lavoro a mezza via tra il pop da camera dolce e vellutato, tutto cuore, e l’avant-folk, genere più furbo, difficile e fascinoso: è difficile decidere quale categoria esplorare, se il corpo e la scrittura musicale, o il senso melodico, l’amore che traspare. Forse questa è la radice della mia infinita necessità di riascolto e della schematizzazione più meccanica che fa Romagnoli: come parlare, altrimenti, del disco?
Sappiamo che ci sono cinque movimenti: la flor, la inmensidad, mi jardín, el peso, renacimiento, e che ognuno di questi contiene tra i tre e i cinque brani che spesso condividono i nuclei concettuali, sia all’interno del singolo movimento che tra i cinque movimenti. Tutte le aperture e le chiusure, tipicamente, hanno delle forti somiglianze. Il concept vitalistico e celebrativo alla base dell’uscita vena ogni brano di una poetica piuttosto esplicita e testuale, e l’atmosfera che si respira per i suoi quasi settanta minuti aleggia in quei luoghi di profondo e struggente coinvolgimento emotivo tipico del cante flamenco di vecchio stampo. D’altro canto, se questa spinta emozionale è vecchio stampo, possiamo dire che null’altro di Toda la vida, un día, sente il peso dell’età: anche quando Cruz va a pescare nei brodi più ancestrali (per esempio nelle sue versioni di Aterrados) la traccia della musica è sostanzialmente nueva, come nuovo è il flamenco, nuova è la cançó, nuovo è l’approccio folk-jazz.
Nel comparto tecnico, però, non c’è nè da aspettarsi una rumba flamenca alla Camarón, né una versione distorta e contemporanea della tradizione ispanofona (sto pensando a Rosalía o a Clara!). Il versioning di Cruz è molto raffinato, e le deviazioni dalla formula standard che la cantautrice tiene da qualche anno a questa parte si accavallano con una certa varietà. I due o tre assetti strumentali ricorrenti più volte nel disco si dividono in tre grandi filoni: un gruppo da camera con chitarra classica, quartetto d’archi e voce (Ell no vol, La flor, Tots el finals); una sua declinazione jazzata che spesso viene ottenuta togliendo gli archi alti e aggiungendo i sax (Planetes i orenetes, quasi tutto il movimento La inmensidad); una formazione per sola chitarra classica e voce (il movimento Mi jardín, Toda la vida, un día). Queste formazioni suggeriscono una linea principale di musica chamber folk come ne vediamo da anni, ma il contributo del cante flamenco e della canzone catalana rendono il prodotto assai più particolareggiato e affascinante di un disco, chessò, dei Fleet Foxes; la mescita di queste due anime con l’aggiunta di ricerca e sviluppo della canzone ispanofona è abbastanza per donare alla poetica di Cruz l’etichetta di avant – ma questo è un fatto già dai tempi degli ultimi lavori della cantante, Vestida de Nit e Farsa. Lavori che, in realtà, non sono capaci da soli di arrivare all’onore della critica.
L’ambizione alla base di Toda la vida, un día è diversa e questo si nota già dalla sola dimensione e costruzione del disco. I tre formati che vi ho anticipato sono solo un punto di partenza e un porto di ritorno per una lunga serie di piccole esplorazioni che coprono i vertici del disco. Ce ne sono decine: si può trattare dell’uso degli armonici nel primo movimento, delle geometrie che creano i contrabbassi in pizzicato e le chitarre classiche e di quell’impulso corale che ricompare ogni qualvolta un ritornello appare abbastanza forte da essere replicato in più voci. Possiamo parlare delle riuscitissime entrate dei synth e della celesta che gettano le liriche di Cruz nel campo dell’art pop senza che essa abbia il benché minimo divismo, e di quanto i duetti struggenti con sua madre o con Lafourcade siano capaci di riempire il vuoto pneumatico lasciato dal comparto strumentale. Possiamo anche raccontarci di quanto l’interpretazione apocalittica del pessoano El poeta es un fingidor ricordi il sodalizio tra Cale e Päffgen e dell’atmosfera da messa di Natale che attraversa gli ultimi due brani del quinto movimento. Ognuna di queste caratteristiche torna e subentra con una grande funzionalità nei brani, ad un primo (secondo, terzo, quarto) ascolto i fatti musicali sono così omogenei da lasciare semplicemente il dubbio: perché sto uscendo pazzo per questo album? Poi si sventra, si sviscera, si mette tutto sotto la lente e si comprende.
In bilico tra una grande complessità sperimentale che ha il suo apice ne La Inmensidad e una sconfinata dolcezza cantautorale disseminata tra tutti i movimenti, Cruz è capace di accendere il cervello come non riesce neanche la grande Lafourcade – e spesso cerca di accaparrarsi, con una piacevole innocenza, quelle aspirazioni antologiche che sono state proprie di Francisco Molina, gigante dell’avanguardia iberica e globale. Questa via di mezzo tra il cantautorato minimo e l’esperimento globale è, a mio avviso, il punto più vivo della bellezza di Toda la vida, un día. Il timpano dell’orecchio dondola tra stimoli così differenti, espressività così lontane, che è inevitabile rimanere con l’impressione di star ascoltando qualcosa di importante. È un sentimento che può capitare di provare facilmente passando dalla rumba di Salir distinto al coro trentino Cima Tosa che rielabora lo splendore di Aterrados, oppure nel cambio tra il meraviglioso duetto con Lafourcade di Mi última canción triste (in cui quest’ultima, c’è da dire, spicca per espressività) e la devastante title-track cantata all’ombra della voce antichissima e spettrale di Liliana Herrero. In cinque movimenti e ventuno brani può capitare, ogni tanto, di perdere un po’ lo smalto (il love theme di Rota un po’ gratuito, Ayuda davvero troppo melensa), ma alcuni dei momenti più brillanti del disco lasciano veramente con la faccia per terra. Le Aterrados, El poeta es un fingidor, Em moro e 21 de Primavera, per non parlare della title-track, fanno tutti parte dei brani più assurdi che mi sia capitato di sentire in questo 2023. Troppo, troppo, per non promuoverlo anche a voi.
A parlarne e riparlarne mi viene una grandissima voglia di riprendere in mano certi movimenti, con una predilezione particolare per La inmensidad ed El peso, e terminando la recensione sono soggetto nuovamente, come al solito, all’incantesimo dei grandi dischi: il replay. È una mattina d’ottobre, fuori fa freddo. Ho appena finito di scrivere una recensione e sto bevendo un caffè: sto ascoltando Toda la vida, un día.