CIME – THE CIME INTERDISCIPLINARY MUSIC ENSEMBLE
Quando nel 2022 mi sono confrontato con le descrizioni reperibili online di The Independence of Central America Remains an Unfinished Experiment, il debutto su long play della polistrumentista honduregna Monty Cime, la mia mente si è subito stabilizzata sulla classica previsione manichea: o è una merda, o è una bomba. In realtà, il modo in cui The Independence portava avanti le sue istanze di avant-folk-prog latinoamericano ballava fin troppo tra questi due giudizi, e la sua tattica di esplorazione era abbastanza alla tienimi che ti tengo, con il risultato spiacevole ma promettente di un disco molto confuso e creativo. Il progetto rimaneva, come l’indipendenza dell’America centrale, un esperimento inconcluso – e un po’ inconcludente. A quel punto, però, il nome di Cime era entrato di diritto nel nostro radar, ad accarezzare la possibilità di una evoluzione un po’ più imbroccata della stramba impalcatura che la musicista aveva proposto alla sua prima prova. E, difatti, dato che quest’estate abbiamo avuto l’occasione di ascoltare il riuscitissimo, divertentissimo, particolarissimo The Cime Interdisciplinary Music Ensemble, oggi ci prendiamo qualche minuto per raccontarvi perché questo secondo tentativo colpisce nel segno, inquadrandosi in un progetto compiuto e comunque conservando l’animo matto e stridente che ha caratterizzato il debutto.
Cerchiamo innanzitutto di fare un po’ di chiarezza. L’interdisciplinarietà di questo music ensemble, generalizzando un attimo, si esprime ai fatti in un blend di scrittura scoppiettante avant-prog, soundkit della primissima epoca del post-punk più artistoide/No Wave e attitudine urlatrice e outsider di Monty Cime ai microfoni. Questo impasto di base viene spesso lavorato con delle devianze dalla formula che variano verso l’avant-jazz di qua, il noise rock di là, il rock latinoamericano in entrambe le direzioni. Il mucchio di diversi riferimenti rende veramente difficile classificare questo nuovo sforzo di Cime, o associarlo a qualche altro grande nome della storia della musica recente, se non provando ad attaccarsi ai Mothers o ai Debonairs, che possono un po’ sovrapporsi a questo caos da laboratorio passando da percorsi più smaccatamente Zolo e Comedy. Questa difficoltà nel dare un nome alla musica dell’Ensemble fa chiaramente parte del fascino che si prova ad ascoltare e riascoltare quest’uscita, ma non è certo tutto: del resto viviamo in un’epoca in cui simili tentativi massimalisti sono all’ordine del giorno. Ecco, laddove l’attuale cultura dell’avanguardia rock sembra fissata sulla raffica di hook slegati e squillanti, un punto chiave della poetica di Monty Cime è la sua disposizione a indugiare su di un punto, su di un giro di basso, su di una free improv di flauto, su di una ripetizione al microfono, che spesso suona anche imbarazzante. Questa occasionale ripetitività dà un corpo solidissimo a tutte le esecuzioni dell’ensemble, lasciando che i suoi elementi possano prendersi il tempo necessario a completare l’esperimento, prima di passare ad altro. The Cime Interdisciplinary Music Ensemble è follemente coraggioso in ognuno dei suoi tentativi, orribilmente imperfetto in tanti dei suoi risultati, carichissimo di narrativa, di idee, di what if? – e allo stesso tempo assolutamente stabile, identitario e, semplicemente, sensato.
Dato questo giudizio prima facie, guardiamo un secondo ai brani: sei pezzi di durata variabile, dal minuto e ventidue di Goodnight from La Ceiba alla quasi mezz’ora di The North, prevedibilmente l’apice di tutto il disco. Sebbene ogni brano sia molto livido e a volte quasi inascoltabile, non è possibile dire che Monty Cime abbia suonato pezzi veramente deboli. Anzi. A Tranny’s Appeal to Heaven è una lunga jam polimorfa che a modo suo metterebbe d’accordo un ascoltatore dei Casiopea e uno di Laba Sosseh (sul fatto che la cantante rovina tutto). La base latin di partenza è la miccia che fa scoppiare i fuochi d’artificio dei fiati e delle tastiere, che coprono tutta la seconda parte del pezzo con una furia di vivere demenziale ma irrefrenabile, passando minuti e minuti a rubare la scena alla sezione strumentale d’appoggio. Manco il tempo di chiudere questa carica e l’ensemble attacca con The Ballad of Tim Ballard, un quattro quarti sincopatissimo che nasce su delle camminate storte al basso, con accordi al piano e scale ai fiati costantemente al limite – e oltre il limite – dello stonato. Una marcia che l’Ensemble dovrà riprendere più volte, passando da digressioni di chiara scuola prog e assoli al sax figli del post-bop più bizzarro, ma la cui geometria rimarrà uno dei punti forti di tutto il disco. Il petto e l’atmosfera voluta da Monty Cime si sgonfiano decisamente in DIYUSA, un tentativo di ingrigire questa prima ondata di locura in un più circoscritto laboratorio post-punk, al servizio di cinque note tirate da un polverosissimo basso che un po’ ricorda il lavoro di David Hofstra nei Contortions e soprattutto quello di Dave Allen nella Gang of Four. Il giro cresce fino al parossismo anche qui, lasciando spazio di manovra alle fioriture di rumori e synth e all’infinita batteria di percussioni di Lautaro Akira Martinez-Satoh; l’affascinante inversione a U della coda del brano lascia che DIYUSA chiuda con una improbabile conga che sostiene il refrain del cantato sulla parola “America”, un po’ una versione depressa del ritornello dell’omonimo mantra portoricano composto da Bernstein per West Side Story. I cinque minuti di Lempira (Or, The Lencan Crusade) forse sono quelli che hanno meno respiro di tutto il disco: il solo iniziale è troppo interessante, sembra suonato da un Tom Verlaine con la gotta, ma finisce molto, molto presto. Poco male, però, perché l’esplosione alle voci e ai fiati della seconda sezione del pezzo è furibonda ed eccezionale, esprime senza incertezza una vitalità incontrollabile che sposa un cordone di urla essenzialmente hardcore con quello sbieco filamento di skronk e fischi al sax che da solo sarebbe stucchevole, ma che nel contesto diventa oltremodo galvanizzante.
Il caos di Lempira serve anche a scaldare l’ascolto e preparare il campo per il lungo attacco di The North. Il filotto di brani appena ascoltato sarebbe già abbastanza per convincerci della validità del disco, ma è con questa lunga suite di venticinque minuti che l’ensemble di Cime ha il suo exploit più impressionante. Il pezzo si può dividere a larghi tratti in tre movimenti, ben amalgamati e collegati. Il passaggio introduttivo è un’improvvisazione per flauto, piano e synth che vagheggia per qualche minuto in campo atonale per poi saltare in aria con cluster selvaggi al pianoforte, soffi esasperati al flauto e sintetizzatori che salgono abbastanza di tono da diventare dolorosi. Lo schiaffo di questo trio si quieta solo verso l’ottavo-nono minuto, dove i protagonisti assoluti diventano i tritoni improvvisati da Sean Hoss, che presi back to back con i sintetizzatori squillanti di Rowan Collins danno quell’idea di buio circense che ai più anziani può ricordare senza esagerazioni il primo disco dei Faust. Una breve scala di piano viene battezzata come refrain e passata prima al legno del clarinetto basso di Hoss, poi raggiunto dalla magra e marcia chitarra post-punk di Collins, aprendo così la seconda parte del brano. La sezione strumentale mantiene un andamento assurdo e cartoonesco, a sostenere l’incedere sardonico e depresso del canto rabbioso di Monty Cime; pian piano emergono pulsazioni di basso e svolazzi di piano e synth che cominciano ad acquisire vita propria. Il basso sarà il principale responsabile della successiva apertura a una sorta di Punta schizzata, brillante e rumorosissima. Il brano qui raggiunge ampiamente gli eccessi della precedente Lempira, con una loudness che si esprime in un mix di ottoni, percussioni, basso, urla e alti bpm che viaggiano in una strana intersezione di punk funk, hardcore e rock latinoamericano. Questo caos si chiude e si riapre nella terza e ultima parte di The North, con velocità che si abbassano e rialzano seguendo il ritmo del racconto. La versione virgin del passaggio precedente riesce addirittura a toccare un’atmosfera crimsoniana e fatata in più momenti: il tragico apice della suite, del resto, lascia coincidere la disperazione di Cime con un luminoso e roseo accordo dell’ensemble, molto più prog che avant, probabilmente evocato nel ruolo di ironico contrappunto alla cavalcata bestiale e disperata che abbiamo in cuffia da venti minuti.
La coda di The North, una tristanzuola strumentale primitiva per grilli e chitarra classica, sottolinea il tono negativo dell’esperienza del Nord – ed è proprio nel finale di questa epopea che Monty Cime torna ad omaggiare i suoi primi passi folk, con il sigillo della sua La Ceiba, una registrazione di una punta tradizionale di Puerto Cortés effettuata dalla Ethnic Folkways Library nel 1952, chiaro momento di riconciliazione con la propria origine – nostalgia? rimorso? – dopo il continuo sconfinamento in generi di taglio completamente diverso.
Quello che finora la mia recensione non ha toccato è la natura concept di The Cime Interdisciplinary Music Ensemble. Tutto il percorso del disco è una storia di migrazione, terre promesse e brucianti delusioni. Il filo conduttore narrativo è visibile anche solo a leggere della musica che lo accompagna: dalla prima jam euforica e mesoamericana di A Tranny’s Appeal to Heaven alla musica autolesionista che spunta in ogni angolo di The North, tutto il disco appare alla luce di Goodnight From La Ceiba come musicalizzazione del progressivo annerimento delle speranze di Cime, che è stata migrante, senzatetto, culturalmente fiancheggiata da tante persone più privilegiate nel suo soggiorno negli Stati Uniti. Il pentimento e l’amarezza sono tutti riscontrabili confrontando la chiusa del primo e dell’ultimo brano, che lasciano evolvere l’atteggiamento di Cime da:
From each to his need, to her new ability
Miracles bestowed, unfold with humility
Agape and renewed, afterbirth stumbling out
The ear of corn emerged betwixt the huskI don’t want to die
But if I do, I hope I look alright
Should I put my makeup on tonight?
Just in case I die, just in case I die
Alla deprimente conclusione di The North:
I wish I hadn’t come here either
And I wish I’d never been born
I wish I didn’t speak English
And I wish I wasn’t homeless
But I guess that’s just what I get
I wish white people would shut the fuck up
But I guess that’s just what I getI wish I wasn’t transgender
But I guess that’s just what I get
I wish I died on October 12, 2014
When my uncle promised to kill me
But I guess that’s just what I get
And I hope you kill yourself too and I hope you feel every second of it
I hope that you feel so bad about yourself that you fucking kill yourself
Does this sound like I care about what I’m saying go fucking kill yourself
If you make your own money I hope you kill yourself
I will die penniless and unfulfilled and I will not regret a single moment of itI didn’t ask for any of this
I don’t want any of this
I don’t want to fucking hear it
But I guess that’s just what I get
Questo racconto in prima persona, oltre a essere fortissima benzina per alimentare la rabbia e lo sconcerto espresso nella sequela dei brani, contribuisce a dare una coesione tematica molto forte a tutto l’album, collante di cui i mille esperimenti dell’ensemble contano per dotarsi di un centro gravitazionale fondamentale. Grazie ad esso, The Cime Interdisciplinary Music Ensemble riesce dove tutti gli altri hanno fallito. Questo mastodonte di narrazione e creatività è capace di suonare outsider, post-punk, free jazz, progressive, kraut, psichedelico, accademico, noise, bachata, riesce a stonare e scivolare ogni venti secondi pur rimanendo right on the money per tutta la sua durata, tratteggia una grossa storia di disperazione e disillusione, combatte, perde e vince. Ad ogni ascolto cresce. È abbastanza, molto più che abbastanza, per consigliarvi di ascoltarlo – e, soprattutto, riascoltarlo. Monty Cime ha registrato uno dei dischi più belli e forti di tutto questo 2024, e noi non possiamo ignorarla.