ËDA DIAZ – SUAVE BRUTA
Non c’è molta chiacchiera attorno al debutto in full-length della contrabbassista franco-colombiana Ëda Diaz, un’indifferenza giustificata dalle piccole proporzioni del disco, dalla giovanissima etichetta che l’ha promosso e dall’ambizione tutto sommato modesta della musica che ne è contenuta. Suave Bruta, però, è una interessante preziosità nella barriera corallina dell’art pop contemporaneo – e vale la pena investire una mezz’oretta per ascoltarlo e un paio d’ore per raccogliere le informazioni e scriverne per i propri lettori. Diaz è una giovane musicista nata in Bretagna, cresciuta in terre francesi, con un costante contatto con la bellissima Medellín, una grossa città colombiana, radice della sua famiglia paterna. Il campionario di canzoni di Suave Bruta, che conta undici pezzi per trentacinque minuti di album, vuole essere una rilettura di tante forme di canzoni popolare colombiane (il bambuco, il bullerengue, il vallenato), ma allo stesso tempo si muove su due binari sonori diversi e ugualmente apprezzabili: il wonky/glitch decostruito di metà ‘10s e l’avant-folk appassionato che da varie regioni della Francia (penso per esempio all’Occitania) ha recentemente fatto scuola nel panorama alternativo centroeuropeo – basti vedere il catalogo di Dur et Doux o quello di Pagans. Questa parentela trigemina si unisce alla formazione oggettiva di Diaz, accademica prima, al lato del jazz poi: un curriculum di cifre stilistiche bello satollo che non può che sparare delle belle bombette dal suo collo di bottiglia iper pressurizzato.
Laddove le progressioni armoniche di Diaz mantengono una sostanziale stabilità attorno alle danze colombiane che vuole replicare in ottica “post-”, il roster di timbri e invenzioni estemporanee che costellano i singoli pezzi è impressionante. Innamorata della salsa e dello strumento del contrabbasso – supponendo una certa cotta per il pizzicato e per la sincope – l’artista franco-colombiana sperimenta in una direzione plastica e tattile che, in un’atteggiamento ben più soleggiato, si avvicina tanto ai glitch decostruiti di Kee Avil, SOPHIE, la prima FKA Twigs. Questo troncone lo sentiamo in tutto il suo vigore ascoltando Nenita, Por Si Las Mocas, Sabana y Banano, ma le folate di happy wonky/electro sono intervallate e addolcite da sussurrate ballate jazz/folk che in ambito ispanofono hanno un illustre prodromo nella vocalità vellutata di Silvia Pérez Cruz e in varie prove di flamenco nuevo (Lo Dudo, Brisa). Quando Diaz si stanca di tenere la linea e vuole ricadere nello scherzoso la scrittura e gli strumentali rimangono stratificati e ingegnosi, con filamenti e fraseggi che pascolano nello spazio solitamente occupato da Tune-Yards (Al Pelo, Tiemblas) e Battles (Dulce de Mar) – lo stesso spazio che abbiamo visto invadere recentemente dalla registrazione della Congotronics International. La struttura episodica del disco non concede grandi valutazioni sulla caratura generale del progetto, ma è impossibile guardare dall’altra parte a un’uscita che scintilla di tutti questi orpelli, senza mai riposarsi o lasciarsi andare a se stessa. L’obiettivo di Suave Bruta è chiaramente quello di esibire la grafia in composizione di Diaz, la sua passione per il timbro incisivo e bizzarro, l’atteggiamento da assemblatrice e disassemblatrice – e in questa performance il disco centra il punto e si prende un bell’occhio di bue per le future mosse della musicista. Come sempre in questi casi non sappiamo se questo debutto sarà l’inizio di una parabola che possa mettersi in testa a testa con le varie Emily o se si tratterà semplicemente di una felice circostanza nata tra la Cordigliera occidentale e l’Île-de-France. Diciamo, comunque, che tutto quello che ribolle in Suave Bruta ci permette di fare qualche previsione informata.