STEAL DECENT SHIT IF YOU’VE GOT TO STEAL: L’ARTE DI DANIEL VAHNKE

Le origini: 1986-1991

Vampire Rodents provided the perfect vector for my sick sense of humour and my anti-human extinctionist politics.
(Daniel Vahnke)

Phoenix, Arizona, 1986. Un giovane antropologo e musicista dilettante canadese, Daniel Vahnke, già da qualche anno dedito alla realizzazione di musiche per film e documentari su commissione, è ora impegnato nella scrittura di alcuni brani per pianoforte solo influenzati dal ragtime e dalla musica per player piano di Conlon Nancarrow. Durante il processo di composizione, però, Vahnke si scopre incapace di tradurre le sue idee allo strumento, per via delle ovvie limitazioni del temperamento equabile in dodici semitoni. La sua prima risposta a questo problema è l’esplorazione della microtonalità, con l’intenzione di espandere il numero di toni nell’ottava fino a frazionarla in ventiquattro possibili suoni diversi. Tuttavia, la sua ricerca lo porta ben presto su altre strade compositive.

There are no limits to what you can write. Jazz, classical, unknown, whatever. Sample-based composition is really sculpting and forcing shapes out of chaos.

Armato di un semplice quanto economico set composto di un Commodore 64 provvisto del programma Sonus Super Sequencer e di un sequencer Roland S-50, Vahnke decide di comporre la sua musica affidandosi principalmente ai campioni. La sample-based composition (da qui in avanti, semplicemente SBC), come si evince già dal nome, è una teoria che prevede l’utilizzo dei sample come atomi fondamentali di una composizione: la musica viene trascritta ed eseguita tradizionalmente, e in un secondo momento viene completamente ristrutturata e riarrangiata maniacalmente tramite il campionamento, in un mosaico di moltissimi suoni diversi di cui non è più possibile riconoscere né l’esatta provenienza, né il contesto originario (cosa che oltretutto permette di evadere con scaltrezza anche la necessità di pagare le royalties ai creatori originali di quella musica). Ovviamente, il parallelismo con la plunderphonics di John Oswald è evidente; ma dove questa pone l’accento sul materiale originale che viene campionato, allo scopo di decostruire i concetti di «originalità» e «identità», nella SBC il punto focale diventa il processo stesso del campionamento, visto come uno strumento compositivo che trascende i metodi della musica occidentale tanto da renderne obsoleta perfino la notazione grafica tradizionale (al suo posto, viene preferita la piano roll notation). Ormai non più vincolato da limitazioni tecniche o economiche di alcun tipo, lo stesso autore della musica assurge a un nuovo ruolo completamente inedito, trasformandosi da strumentista ad archivista di una enorme mole di fonti di suoni, rumori ed effetti da utilizzare a tempo debito. Nel manifesto programmatico Sample-Based Composition: A Brief Summary, è Vahnke stesso a spiegare questa “rivoluzione copernicana” in termini molto chiari.

One of the most useful applications of SBC is in the creation of unique, autonomous blocks of ‘frozen’ musical time as the primary components for new ideas. That is, soundworks made to exist independent from the limitations of normal human cognitive and motor abilities. The musician is, therefore, switched from the role of performer/artist to that of sound source provider for the data banks of sample files the composer must compile before embarking upon a new composition. In turn, the composer exchanges the role of musician/artist for that of scientist/architect. Obviously, this throws that old element of ‘artistic ego’ right out the window. Good riddance to bad rubbish, one could say.

notazione musicale VR 2

Agli occhi di Vahnke le potenzialità della SBC sono illimitate. È quindi necessario divulgarne il verbo in qualche modo: il pubblico deve comprendere quanto è facile e alla portata di chiunque la possibilità di scrivere musica ambiziosa e armonicamente elaborata, e quanto è infondato il pregiudizio che considera lo strumento del sampler come troppo poco nobile per essere utilizzato anche nella musica accademica. Vahnke decide perciò di fondare un gruppo che possa esplorare pienamente le possibilità della SBC, insieme all’amico Victor Wulf (anch’egli antropologo impiegato in Arizona e tastierista dilettante, ma con un gusto particolare per la new age, la musica ambientale e l’art pop sintetico) e al collega Karl Geist (basso e tastiere). Le interviste e i credits dell’epoca menzionano anche la presenza di tal Jing Laoshu, che contribuirebbe con percussioni e testi in cinese, ma l’assenza del suo nome nelle pagine Bandcamp del gruppo fanno supporre che si tratti, come capita spesso quando si parla dei Vampire Rodents, di una mera invenzione goliardica di Vahnke.
Come moniker viene scelto qualcosa di correlato alle attività di ricercatori del quartetto: Vahnke rinviene infatti il teschio di un roditore dai canini particolarmente sviluppati, e quest’immagine viene considerata perfettamente in linea con la natura sotterranea del gruppo. Nel 1988 nascono così i Vampire Rodents.

We pooled our resources and started Vampire Rodents as an outlet to our experiments, both as self-entertainment and as a way to ‘play a joke’ on the music industry.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare dalla natura intrinsecamente colta del gruppo, però, i Vampire Rodents non adottano immediatamente gli strumenti e l’estetica della musica classica contemporanea. Al contrario, i Vampire Rodents in principio nascono – quasi per scelta aprioristica – come gruppo di industrial rock elettronico, sul solco di band come i primi Nine Inch Nails, i Test Dept. e, soprattutto, gli Skinny Puppy. La scelta strategica è spiegata in questi termini da Vahnke stesso:

We picked the genre for its characteristics: it’s young, it’s based on non-performance based music, it attracts a more-intelligent-than-usual audience of a volatile nature. We don’t give a fuck whether you can dance to it or not.

In realtà, nonostante la decisione di inserirsi in questa nicchia stilistica, Vahnke è molto poco informato sullo stato dell’arte del panorama industrial rock ed electro-industrial. Stando alle sue (non sempre attendibili) parole, Vahnke avrebbe anzi ascoltato gli Skinny Puppy soltanto per via dei frequenti paragoni tra la sua voce e quella di Nivek Ogre, e all’inizio – complice anche un certo snobismo accademico – li prende pure in antipatia (per poi rivalutarli in seguito e ammettere la vicinanza di intenti tra le due band). La realtà è che i Vampire Rodents, pur nati come esperimento accademico, concepiscono l’adozione di un formato più tradizionalmente associato ai gruppi di popular music come una presa in giro rivolta alla comunità musicale. È proprio per questo che nella primissima era della band è riscontrabile un più marcato utilizzo della strumentazione elettrica classicamente associata alla musica rock, nonostante sia un genere sommariamente poco apprezzato da Vahnke per via della propensione all’assoggettamento alle regole del mercato discografico e, soprattutto, per via della cultura machista e patriarcale che domina l’immaginario di molti suoi esponenti.

Rock rhymes with cock for a good reason.

SEPARATORE

Nel 1989 è già pronto un primo album, che viene però pubblicato solo il 20 agosto dell’anno successivo per l’etichetta personale dei Vampire Rodents – la VR Productions – in formato cassetta e in un numero esiguo di copie; soltanto nel 1991 la Dossier ne pubblicherà una edizione in compact disc. Intitolato War Music (come la formula che Vahnke aveva coniato all’epoca per descrivere la musica dei Vampire Rodents), l’album è solo un assaggio ancora molto amatoriale delle idee della band, e non solo per via della produzione approssimativa e del packaging artigianale (che anzi aggiungono fascino al disco). War Music si approccia ancora in maniera molto cauta e timida al mezzo della SBC, elargendo tracce dalla struttura e dagli arrangiamenti relativamente tradizionali per l’ambito industriale. Come se non bastasse, il disco si ritrova zavorrato da una suddivisione molto rozza della tracklist: la prima metà è infatti un’intrigante collezione di schegge impazzite di feroce industrial rock, mentre l’altra è quasi interamente dedicata a un pop sintetico e ballabile in linea con ciò che Wulf suonava prima di entrare nei Vampire Rodents; ad anni di distanza, però, questa seconda parte del disco risulta troppo in linea con gli stereotipi del pop elettronico dell’epoca. Più che per la qualità del lavoro, War Music è interessante perché è un vero e proprio manifesto dell’estetica di Daniel Vahnke, tanto musicale quanto concettuale, a partire dal sarcasticamente autocelebrativo «Rodentia über alles» che figura nel booklet. Soprattutto nella prima parte dell’album, i riff di chitarra (attribuiti anche a un collaboratore esterno chiamato Ivan Koci, di cui ovviamente ora non si hanno più notizie) sono spezzati in frammenti che quando vengono ricomposti perdono ogni soluzione di continuità melodica, barlumi di puro suono elettrico. Sotto queste frasi di chitarra che richiamano il noise rock più abrasivo degli anni Ottanta in stile Big Black, le elastiche linee di basso dal sapore disco-punk omaggiano una grande influenza di Vahnke – i Gang of Four – mentre le percussioni vengono relegate al solo ruolo di generatore di rumori primitivi, visto che la pulsione ritmica viene scandita effettivamente da una drum machine (molto vicina a quelle utilizzate per le basi del boom bap golden age). Le tastiere di Wulf, infine, speziano il tessuto strumentale con interventi che richiamano ora la new age, ora le colonne sonore cinematografiche, ora la musica ambientale, per diventare poi assolute protagoniste nei brani synth pop che chiudono il lavoro.

Su questo tripudio industriale si erge quindi la sgraziata voce di Anton Rathausen, alter ego psicopatico e malvagio di Daniel Vahnke, inizialmente spacciato dalla band come individuo realmente esistente: è lui che, secondo il booklet di War Music, si occuperebbe di voce, chitarra e campionamento (mentre Vahnke sarebbe relegato al solo ruolo di management). I suoi testi, sbraitati in inglese, tedesco, latino e cinese, sono perlopiù un campionario di atrocità misantrope, a metà tra l’horror gore e l’effettiva denuncia dei crimini dell’umanità, con i suoi totalitarismi, il suo sfruttamento dell’ambiente, la sua violenta natura belligerante. Programmaticamente, War Music si apre con un brano intitolato Dumme Weisse Menschen («stupido uomo bianco» in tedesco), per chiudersi invece con Meat; entrambe sono interamente dedicate ai soprusi che l’essere umano compie sul pianeta e che prima o poi dovrà pagare con la sua stessa estinzione. In mezzo però ci sono assurde scaglie di humor nero allucinato, fatto di raccapriccianti visioni di mutilazioni, morti e malattie (Autocannibalism, Crack Babies e Mummified, che con il suo incedere misterioso e ominoso è anche uno dei vertici musicali del disco). Anche quando le sonorità si fanno più accessibili, i testi rimangono sempre estremamente neri e deviati: nel synth pop di Success si ironizza su quanto morire sia di molto preferibile allo stress causato dalla spasmodica ricerca per il successo, mentre la caustica Abortion Clinic Deli – cantata da un coro infantile per aggiungere shock factor – propone diverse ricette per cucinare la carne di bambini abortiti, con la dichiarata influenza della Modesta proposta di Jonathan Swift. Non mancano poi le invettive politiche contro ogni ideologia autoritaria, sia dell’estrema destra che dell’estrema sinistra: Pla Man, cantata in cinese con l’aggiunta di campioni di throat singing in sottofondo, è una denuncia del massacro di Piazza Tienanmen, mentre The Tide Returns associa senza mezzi termini il regime comunista cinese al nazismo tedesco; nel complesso, non c’è un brano che non rifletta la prospettiva estremamente tragica e disillusa da cui Vahnke guarda gli sviluppi storici dell’umanità. Se lo studio delle possibilità della SBC sarà il punto focale dell’intero discorso musicale dei Vampire Rodents, questo pessimismo venato di politiche estinzioniste (e, di conseguenza, inevitabilmente guerrafondaio) costituirà invece il punto concettuale nevralgico nella poetica del gruppo.

intermezzo VR 1

La maturità: 1992-1995

Concluse le registrazioni di War Music, la line-up dei Vampire Rodents viene completamente rivoluzionata. Geist abbandona la band e comincia a lavorare per l’etichetta Words of Warning sotto l’alias Karl WOW, e anche di Laoshu da qui in avanti non si avranno più notizie (se non nei booklet dei dischi dei Vampire Rodents, comunque non particolarmente attendibili vista l’incorreggibile tendenza al cazzeggio di Vahnke). Al loro posto, entra in scena Andrea Akastia, collega antropologa di Vahnke nonché violoncellista e violinista di formazione squisitamente accademica, al tempo impegnata ad Atene in un complesso di musica da camera (l’unica registrazione in questa formazione parrebbe essere quella di un recital su Iannis Xenakis, di cui ovviamente non rimangono tracce). Affidate le parti di basso a Vahnke-Rathausen, è con questa formazione che la VR Productions pubblica il secondo album Premonition, in data 19 maggio 1992.

La musica industriale sembra essere ancora il punto di partenza del sound dei Vampire Rodents; eppure, qualcosa adesso è cambiato. Il gruppo suona ancora estremamente feroce, ma l’arrivo di Akastia e l’aggiunta dei suoi archi alla palette timbrica del gruppo permette a Vahnke di poter manovrare una gamma di suoni inedita e, soprattutto, di cominciare a perseguire più esplicitamente gli scopi avant-garde con cui è nato il progetto. Se i brani di War Music avevano infatti un impianto tutto sommato classico, in Premonition si fanno strada per la prima volta le effettive potenzialità della SBC tanto nel definire arrangiamenti più densi e stratificati, quanto nel fratturare il flusso metrico della musica. Si possono sovrapporre diverse tracce musicali indipendenti, oppure si può interrompere bruscamente lo sviluppo consequenziale del pezzo con l’inserimento di un’altra traccia radicalmente differente in umore e in genere da quella precedente, o ancora si può tagliare e ricucire minuziosamente i campioni a disposizione (spesso – ma non sempre – ottenuti dalle stesse registrazioni del gruppo); ancora meglio, si possono applicare tutte queste tecniche simultaneamente, più e più volte in pochi minuti. Brandelli delle avanguardie del Novecento, da Anton Webern a Karlheinz Stockhausen, interagiscono così con la musica pop dei Blue Nile, con i game piece di John Zorn e con la schizofrenia stilistica dei Mr. Bungle. Il risultato finale conia un nuovo idioma della musica industriale in cui si colgono tracce dello stile polimorfo dei primi Coil, della teatralità e della magniloquenza del Foetus maggiore, e del primitivismo espressionista degli Einstürzende Neubauten, ma che trova nel caleidoscopio metallico, proteiforme e sample-based degli svizzeri Young Gods il proprio precedente concettualmente più affine.
Tuttavia, ricercare i riferimenti di Vahnke nella sola scena industrial è limitante, per non dire del tutto fuorviante. Il modo in cui egli assembla e fa convivere tutte le diverse tendenze centrifughe che scuotono le instabili composizioni dei Vampire Rodents ha dei riferimenti che, tolti gli appena citati Young Gods, provengono in realtà da ambienti e culture radicalmente distanti dall’universo industriale: c’è l’ovvio influsso della musica concreta di Tod Dockstader, di cui viene recuperato l’impianto collagistico, ma anche quello di eccentrici innovatori del primissimo pop elettronico come Joe Meek e quello dei pastiche post-moderni realizzati sul fronte accademico da compositori come Bernd Alois Zimmermann e Alfred Schnittke. E, soprattutto, c’è la fondamentale influenza dello swing di Raymond Scott, della musica per big band degli anni Quaranta e delle musiche per gli show della Looney Tunes realizzate tra gli anni Trenta e Cinquanta da Carl Stalling e Milt Franklyn, da cui Vahnke recupera tanto il gusto squilibrato per melodie e arrangiamenti in continuo stravolgimento, quanto gli sviluppi adrenalinici, imprevedibili, e in definitiva esilaranti dei brani.

Delle ventuno tracce che compongono Premonition, solo una manciata tradisce un legame di parentela diretto con lo stile di War Music – e comunque, anche in questi casi, il materiale di questo secondo album è estremamente più sofisticato. Quando per esempio Babelchop parte in quarta con un groove di basso rubato ai Gang of Four di Capital (It Fails Us Now) (da Solid Gold) è difficile non cogliere la vicinanza ai numeri industriali più demenziali dell’esordio tipo Autocannibalism; tuttavia, nessun episodio di War Music aveva un’evoluzione altrettanto sopra le righe. Lo sviluppo consequenziale del brano è frantumato da repentini cambi di tempo, continui sabotaggi di rumori concreti, e incursioni in un’arcigna musica da camera che sembra intrufolarsi tra le maglie del tessuto industriale come un’interferenza in una trasmissione radio. Le sonorità industriali di War Music vengono proiettate verso territori più austeri da una folle deflagrazione di bassi funky, ritmi percussivi primordiali, dialoghi campionati e interventi sinfonici (Subspecies); oppure sono rese ulteriormente tetre e inquietanti da una sapiente commistione di obliqui motivi di tastiera, degni dei Residents di Not Available, e brutali assalti di batteria e percussioni (Burial at Sea); altre volte ancora, infine, vengono contemporaneamente rese più estreme e più colte facendo collidere il senso del ritmo delle culture tradizionali africane e asiatiche con l’intensità dell’industrial rock e con la complessità timbrica della musica orchestrale occidentale (Deicide). A conti fatti, forse l’unico pezzo davvero in linea con l’album precedente – almeno nello spirito – è l’assurda rilettura di Babyface, novella Fragrance of Christ che parte come reinterpretazione minimale/industriale del classico di Little Richard per poi tingersi di una sfumatura sinistra, degenerando da ingenua canzone d’amore in perversa istantanea di un ben più prosaico atto sessuale («Babyface / Rodent glands are thumping, you’re gonna get some pumping / Babyface / I’m up in heaven when you’re sitting on my face / My love just overflowed when I shot my load / On your pretty babyface»).

Il resto del disco procede invece in una triturazione continua dei generi musicali più disparati, che assimilano registri e tradizioni musicali di ogni tipo facendo emergere la personale quanto schizzata estetica dei Vampire Rodents, che ormai trascende completamente le sonorità electro-industrial: si passa agilmente da versioni minimali dell’acid jazz (Monkeypump) a interpretazioni aberranti della new wave in stile Wall of Voodoo (Recoil, a firma di Wulf); da collage febbricitanti che inglobano rumori selvatici e increspature di pianoforte (Vulvasaurus) a rielaborazioni simil-orchestrali della musica aborigena (Tenochtitlan). E si arriva, naturalmente, fino alla musica dei cartoni animati: su Rodentia Ostinati I & III è soltanto una suggestione dovuta alla sovrapposizione di frammenti provenienti da War Music con l’accompagnamento di un pianoforte impazzito, che fa pensare a una versione psicopatica delle colonne sonore di Carl Stalling rilette da Conlon Nancarrow; su Ovulation invece il riferimento è esplicito, e le voci dei Looney Tunes vengono campionate sopra un incalzante tappeto ritmico industriale. C’è spazio infine anche per la musica elettronica per tastiera di Victor Wulf, che però ora appare meno legata al synth pop o alla musica new age (eccezion fatta per le parentesi arcadiche di Annexation e di Apparition): è lui la mente dietro alla orrorifica Sitio (cantata in latino su una nebulosa di droni e dissonanze elettroniche), alla desolante Book of Souls e ai conclusivi otto minuti di Colonies, una musica ambientale dalle tinte cosmiche che si pone tra Steve Roach e Klaus Schulze.

Gli esperimenti più innovativi – quelli che decretano il clamoroso successo artistico di Premonition rispetto a War Music – sono però le composizioni più organiche che dimostrano al meglio le capacità di Vahnke come compositore contemporaneo, e in cui non a caso l’intervento di Akastia si fa più determinante. Di questi, il capolavoro indiscutibile è Dresden, sorta di opera espressionista ridotta che, nonostante il feroce ostinato percussivo industriale che ne scandisce il passo ritmico, è completamente dominata dai volteggi del violoncello e del violino: Akastia si destreggia con naturalezza tra il tardo-romanticismo continentale e il serialismo viennese, fino a lambire la micropolifonia dell’opera orchestrale di György Ligeti nella delirante digressione contemporanea incastonata a metà del brano. Il piccolo quadretto sinfonico di Demon Est Deus Inversus, la decadente musica concreta di Dante’s Shroud o il duetto per violino e chitarra elettrica di Waterhead raggiungono in ogni caso picchi di creatività e intelligenza non troppo distanti. Ciò che ancora limita la piena coronazione delle mire compositive di Daniel Vahnke è soltanto la dimensione bozzettistica dei brani, spesso didascalicamente votati a una singola idea o tecnica di applicazione della SBC.

Vampire Rodents was designed to be an influential tool, period. Nearly every Vampire Rodents song is an etude or problem-soving in arrangement exercise to those few willing to learn from them. Many Vampire Rodents pieces are quite static and ‘sewn’ for that purpose only.

SEPARATORE

Il nome dei Vampire Rodents comincia a essere più conosciuto nell’ambiente industriale underground americano a partire dal 1992, quando firmano per la Re-Constriction – una succursale della Cargo Records guidata dall’intraprendente Glenn Chase e specializzata in musica elettronica e industriale. A questo punto i Vampire Rodents si fanno progressivamente strada nella scena tramite la partecipazione a diverse compilation edite da un’altra sottoetichetta della Cargo, la If It Moves…, cogliendo l’occasione di entrare direttamente in contatto con alcuni dei più importanti esponenti dell’ambiente coldwave americano come i Chemlab, i Mentallo & the Fixer e soprattutto il duo synth punk/electro-industrial Babyland. Nel 1992 i Vampire Rodents vengono inclusi in The Cyberflesh Conspiracy, contribuendo con la Burial at Sea già apparsa su Premonition. Sempre nello stesso anno, Vahnke avvia anche una fugace collaborazione con Dan Gatto, il vocalist dei Babyland, adottando il moniker Recliner: fanno in tempo a registrare soltanto un nuovo pezzo, che viene infine pubblicato l’anno successivo su Rivet Head Culture. Nosedive – questo il titolo del brano – è la più estrema delle esperienze di Vahnke con la SBC fino a quel momento: la linea melodica è definita da un grasso groove di basso e drum machine condito da un irrequieto tema di violoncello e archi assortiti, mentre in secondo piano si avvertono interventi minacciosi di corni e ottoni. Nel frattempo, versi di animali e suoni trovati selvatici vari violentano le frequenti tentazioni orchestrali del pezzo.
Su questo tripudio di arrangiamenti si erge infine la feroce linea vocale di Dan Gatto, dal piglio squisitamente punk, che denuncia un’America incapace (e tutto sommato nemmeno interessata) a cogliere l’odio, le ingiustizie e le crepe del sistema capitalista che la soggioga. La fedeltà di registrazione, ben lontana dalla qualità casereccia di Premonition, contribuisce a far suonare Nosedive inquietante e spettrale come nessun altro pezzo del precedente repertorio Vampire Rodents.

Proseguendo il discorso musicale intrapreso su questa traccia, i Vampire Rodents lavorano per circa un anno a un terzo album, che la Re-Constriction pubblica il 25 ottobre 1993 sotto il titolo Lullaby Land. Il riferimento all’omonima canzone per bambini firmata da Max Prival e Frank Davis nel 1919 è evidente sia nel titolo sia nella copertina (che è la stessa dello spartito della canzone originale), ma è altrettanto chiaro che tale scelta sia da interpretare in termini squisitamente ironici: il sound di Lullaby Land è il più luciferino e nevrastenico mai esibito dai Vampire Rodents e porta alle estreme conseguenze la stratificazione sonora collaudata su Nosedive – che infatti viene inclusa nella scaletta. Non a caso, a questo punto della storia Vahnke è diventato assoluto padrone della direzione artistica dei Vampire Rodents: l’unico contributo di Victor Wulf a questo nuovo disco si trova in Passage, un placido numero di musica ambientale conteso tra tenui acquerelli di tastiere cosmiche e pulsioni ritmiche etniche che chiude l’album su una nota sorprendentemente contemplativa. Negli anni successivi, il suo apporto alla causa diverrà ancora più marginale e preferirà concentrarsi maggiormente sul suo progetto space ambient a nome Dilate, con cui pubblicherà un paio di dischi tramite la Hypnotic Records.

A livello strutturale, i brani di Lullaby Land non sono particolarmente più sofisticati di quelli di Premonition: per la maggior parte del lavoro la scrittura di Vahnke segue uno sviluppo strofico piuttosto tradizionale, con un minutaggio medio di poco meno di tre minuti e mezzo per traccia che si colloca pienamente in linea con i canoni del pop e del rock anni Novanta. Eppure, l’arte del campionamento dei Vampire Rodents si è evoluta in una direzione talmente esagerata per la quantità di soluzioni sperimentate che il disco finisce comunque per suonare assurdo e indecifrabile.

All parts of a composition (with the possible except of voice texts) are built from hundreds, even thousands of small sound events and instrumental fragments.

I frammenti musicali utilizzati per arrangiare e orchestrare Lullaby Land vengono recuperati da uno stuolo di fonti ancora più ampio ed eterogeneo rispetto a quello, già nutritissimo, di Premonition: a tutto l’arsenale di musica classica e contemporanea, collage concreti, industrial, ambient, scorie di musiche tradizionali e campionamenti di cartoni animati adoperato per allestire i lavori precedenti si aggiunge ora una propellente pulsione ritmica che mesce techno, jungle, funk e hip hop; al contempo, il suono dei Vampire Rodents si irrobustisce, acquisendo un’inedita irruenza metal affine alle sonorità cibernetiche di Ministry e Scorn (curiosamente, gruppi che non incontrano minimamente l’apprezzamento di Vahnke). Questa rinnovata ferocia sonora è dovuta di certo a una produzione più tagliente e professionale rispetto al passato, ma non si può sottovalutare nemmeno la prospettiva innovativa con cui Vahnke concepisce il ruolo della chitarra elettrica: i suoi riff vengono continuamente sottoposti a un’operazione chirurgica di sminuzzamento e riassemblamento che li tramutano in scariche di pura elettricità, lontane da qualsiasi possibile precedente nell’ambito rock.
Tutte queste trame si accumulano l’una sull’altra per dare vita a un tessuto musicale densissimo in cui, in pochissimi secondi, sfrecciano decine e decine di cellule sonore a velocità supersonica, continuamente in mutazione per sonorità o provenienza anche quando il brano in realtà starebbe ripetendo una sezione o una strofa già enunciata in precedenza. Talvolta, i vari sintagmi musicali vengono saldati in maniera da creare artificialmente cambi di tempo o salti nell’accentazione nella metrica, facendo apparire “storti” perfino i momenti in cui i Vampire Rodents reiterano la stessa figura melodica; altre volte, una esposizione piuttosto lineare e vicina al formato canzone viene bruscamente interrotta da spaesati interventi di musica swing, come piccoli stacchetti di leggerezza durante un freak show degli orrori. Nel complesso, l’imponente mole di invenzioni in fase di montaggio che Vahnke adopera su questo disco rende l’album assolutamente senza precedenti, nemmeno tra arditi sperimentatori del sound collage come Negativland o John Oswald.

Il manifesto di questo modus operandi così anarchico e creativo, nonché il brano quintessenziale dell’esperienza Vampire Rodents, è probabilmente Trilobite, posta in apertura dell’album e cantata nuovamente da Dan Gatto (ma con un esile controcanto di Vahnke a fargli da eco). È una piccola composizione d’avanguardia giocata sull’accumulazione progressiva di diverse tracce musicali (percussioni selvagge, ritmiche jungle, deflagrazioni abrasive di chitarra, fraseggi atonali degli archi, senza contare ovviamente le stesse linee vocali), indipendenti sia dal punto di vista melodico che metrico, talvolta disturbate da effetti elettronici, rumori selvatici, sassofoni bebop, tastiere, sinistri unisono orchestrali. Il testo sembra una apologetica celebrazione degli strumenti della SBC e della sua sotterranea missione di rivoluzione del metodo compositivo («Come up with something original / Steal decent shit if you’re going to steal / Strip down to scrap and fuck the rest / Drop popular and don’t resist») e al contempo un surreale riassunto dell’attività di antropologo dei membri dei Vampire Rodents («It exists because we forget / What we forgot wasn’t meaningless / There’s something living in the sediment / Something alive in the sediment»). L’aria simultaneamente primitiva e post-moderna che si respira sia nelle musiche che nei versi offre dei termini di paragone con i concept anni Ottanta dei Residents, ma Trilobite abita una dimensione musicale tutta sua: è uno dei più grandi capolavori di sound collage mai realizzati.

Il resto dell’album, in ogni caso, esprime una creatività fuori dal comune, e ogni brano diventa il pretesto per sciorinare un florilegio di invenzioni in fase di arrangiamento. La decadente Catacomb fa convivere la struggente musica da camera per archi di Olivier Messiaen con forsennate drum machine industrial rock e serrate parentesi death metal; Dogchild parte con un incalzante battito house ma degenera ben presto in una parata di fanfare di ottoni e clangori distorti di chitarra, mentre Vahnke-Rathausen sbraita l’ennesimo susseguirsi di violenze gratuite e deliranti; su Glow Worm si alternano chitarre surf rock, tromboni, squarci di concerto per violoncello e musica electro-industrial.
Certe volte, addirittura, la musica di Lullaby Land sembra quasi trovare la propria fonte di ispirazione primigenia direttamente nel metal estremo, per poi guarnirlo di campionamenti di archi, fiati, tastiere, effetti e rumori elettronici soltanto in un secondo momento. Accade per esempio su Crib Death, dove la carcassa robotica di un brano thrash metal viene sovraccaricata di lamenti di archi ed exploit bandistici – sembra quasi che l’orchestra di Duke Ellington inciampi per sbaglio nel brano e decida su due piedi di offrire il proprio prezioso contributo. Crib Death, incidentalmente, è anche uno dei sommi manifesti dell’ideologia antiumana di Vahnke: l’accusa questa volta è diretta alle codarde politiche dell’ONU durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina («There’s a simple U.N. formula now / Need a quarter million body count / Before they send the blue boys out»), tanto pigre che – Vahnke suggerisce – non sarebbero messe in stato d’allarme nemmeno dall’atomizzazione di Belgrado da parte dei musulmani bosniaci; il finale, invece, vira verso una deprimente riflessione sullo stato di conflitto mondiale perenne che l’ordine occidentale pare voler mantenere. Nella ancora più estrema Toten Faschist sembra invece di assistere alla lotta furibonda tra gli Slayer e il sonorismo di Krzysztof Penderecki: il violino di Akastia volteggia stridulo ed efferato in un tripudio di tecniche estese che sembra assolvere allo stesso ruolo dei lunghi scambi di assoli tra Jeff Hanneman e Kerry King in un brano come Angel of Death, mentre le pachidermiche cadenze di chitarra sullo sfondo cercano di imprigionare i singulti atonali degli archi in una gabbia di industrial metal. Il testo, esplicito fin dal titolo, è naturalmente una manifestazione di disgusto verso i rigurgiti fascisti cui si poteva già assistere in Europa e negli Stati Uniti all’inizio degli anni Novanta – alla faccia di chi continua a negare l’evidenza pure trent’anni dopo.
Più spesso, Vahnke indulge invece in visioni macabre e disturbanti che riprendono e potenziano il discorso industrial rock di Premonition, come nelle abrasive Scavenger e Dervish o nella più metallica Gargoyles cantata da Pall Jenkins – che adesso deve la sua fama ai Black Heart Procession ma che ai tempi era ancora membro dei sottovalutatissimi Three Mile Pilot.

C’è però del metodo in questa follia. Vahnke è in realtà un ingegnoso compositore d’avanguardia capace di muoversi con acume tra generi e continenti diversi ogni qual volta l’occasione lo richieda, per di più mantenendo una leggerezza e una capacità evocativa che è facile associare ai grandi autori di musiche per videogiochi della seconda metà degli anni Novanta, da Koji Kondo (Legend of Zelda) a Ellen Meijers e Josh Gabriel (Oddworld). La musica etnica totale di Akrotiri sovrappone armonie e strumenti orientali di ogni provenienza sotto l’evidente influenza di Toru Takemitsu; Raga Rodentia è un pot-pourri post-moderno e suadente di musica hindustana e carnatica, allestito però alla maniera del poema sinfonico occidentale; la rovinosa parentesi sinfonica di Awaken è un altro esperimento nell’arte di intarsiare ambiziose opere orchestrali in un ridotto lasso temporale nello stile della Demon Est Deus Inversus di Premonition. Il più delle volte, in ogni caso, il fulcro della composizione va ricercato principalmente nell’atto del contrappunto stilistico e del sampling in sé, e non nel risultato – che anzi talvolta lambisce volontariamente il grottesco, il ridicolo, o semplicemente la frivolezza esotizzante della scena exotica e della library music. È quello che succede per esempio su Bosch Erotique, un crossover tra gli esperimenti per nastri e voce di Luigi Nono con le Aventures di Ligeti perpetrato con lo spirito degli assurdi collage di Frank Zappa, fatto di campioni vocali di ogni tipo (si riconoscono risatine, gorgheggi operistici, respiri affannati, perfino registrazioni manipolate della Dance of the Winds di Yma Sumac), musichette vaudeville, frammenti di musica classica. Ed è ciò che accade di nuovo in Hubba Hubba, che si apre con un sample dal film Il cantante di jazz per evolversi successivamente in un brano techno con poliritmi impazziti, pastose linee di basso funk, arcigne distorsioni di chitarra elettrica, e infine deflagrare in maniera assurda nell’interpretazione di Button Up Your Overcoat di Helen Kane incastonato nella seconda metà.
Sulla title track, infine, la velocità di scorrimento e la densità degli atomi musicali che compongono la musica dei Vampire Rodents raggiungono l’apice di claustrofobia: i suoi tre minuti sono puramente un inestricabile incubo di sample di cui si riesce a cogliere l’origine soltanto con estrema fatica (ci sono sicuramente percussioni aborigene, barlumi sinfonici, assoli di chitarra metal in shredding, ritmiche vagamente funk, rumori concreti, e chissà che altre diavolerie). La voce filtrata di Jared Hendrickson dei Chemlab, che si limita a farfugliare frasi sconnesse confondendosi parzialmente nel marasma sonoro che lo avvolge, rende la resa del pezzo particolarmente perversa.

Nonostante la natura evidentemente sperimentale del lavoro, Lullaby Land colpisce però per la sua capacità di essere divertente. È vero che l’organizzazione maniacale del materiale ha più a che vedere con il lavoro di un compositore colto piuttosto che di un artista di musica industriale, ed è altrettanto vero che in tutto il disco galleggiano schegge e cocci provenienti da più o meno qualsiasi tradizione musicale (in particolar modo occidentale, ma non solo) del Novecento. Lo spirito con cui è assemblata tutta l’opera, però, è lo stesso che guida la messa in scena di uno sketch di Bugs Bunny: Lullaby Land è profondamente incoerente, frammentario e imprevedibile, ma proprio per questo è anche sempre creativo ed esilarante. Così, l’album si apre ad ascolti e interpretazioni su più livelli. È possibile limitarsi al semplice apprezzamento dei ritmi ballabili, delle armonie esotiche e delle numerosissime trovate eccentriche disseminate per tutto l’arco dei suoi settantadue minuti di durata, oppure si può indagare nel dettaglio la profondità dell’operazione di montaggio e studiare minuziosamente la varietà di eventi sonori che compongono il disco. In un decennio in cui cominciano timidamente a prendere piede esperimenti di crossover stilistici arditi, dai Think Tree ai Milk Cult passando pure per artisti di enorme successo commerciale come Beck, Daniel Vahnke si distingue immediatamente per lo spirito e il metodo di realizzazione di quello che è, ancora ad oggi, uno dei più ambiziosi ed estremi lavori di musica totale mai registrati.

SEPARATORE

A partire dal 1994, di fatto, i Vampire Rodents come band non esistono più. Wulf e Akastia non partecipano più attivamente alla scrittura della musica e non sono nemmeno più fisicamente in contatto con Vahnke: il loro contributo è ora ridotto semplicemente all’invio di frammenti di materiale registrato su cassetta, che Vahnke poi deciderà di riutilizzare per le proprie composizioni.

For instance, I may play 200 different three-note shapes on cello into the DAT, never really knowing where they’ll be used sometimes.
(Andrea Akastia)

In solitaria, Vahnke registra un nuovo album che viene comunque accreditato ai Vampire Rodents: Clockseed viene pubblicato il 7 aprile 1995, di nuovo dalla Re-Constriction Records. Da Lullaby Land sono cambiate molte cose, a partire dal fatto che l’estetica di Vahnke non ha ormai quasi più alcun contatto con la musica industriale: l’influenza più preponderante ora è quella delle tendenze elettroniche giunte alla piena maturità intorno alla metà degli anni Novanta, come il trip hop e la drum & bass, di cui Clockseed recupera lo scheletro ritmico molto pronunciato e occasionalmente anche l’arte del turntablism (come su Revisioned, un brano prettamente hip hop con rap e scratching ad opera del duo industrial rock SMP). Ovviamente, come suo solito, Vahnke rilegge queste musiche dalla duplice prospettiva di compositore d’avanguardia e infantile umorista, arricchendole di arrangiamenti sofisticati e luminosi ricavati da campionamenti di flauti, sassofoni, violini, violoncelli, pianoforti e tastiere. Il risultato è di fatto una musica da camera post-moderna per drum machine e sampler, in cui il battito danzereccio della prima collide con l’elaborato universo sonoro allestito dal secondo. In Downwind, per esempio, la trama musicale è costituita dall’intreccio tra le sinuose linee impressioniste del flauto, le frasi del violoncello e il ritmo scomposto della drum machine, mentre nella delirante Floater Vahnke scompone il jazz per big band rimontando sassofoni e xilofoni su dinamiche cartoonesche e chitarre industrial metal. Su Tattoo Me invece si lambiscono i vertici di Lullaby Land: la base, con il suo tema portante di violino reiterato in loop, sembrerebbe provenire da un disco di hip hop particolarmente evoluto, se non fosse che tra una strofa e l’altra il flusso lineare del brano viene deviato da minacciosi crescendo orchestrali e cromatismi degli archi. Il testo è l’ennesima invettiva alla superficialità americana, ma l’attacco sembra essere rivolto anche alla figura della rockstar, con tutti gli stereotipi estetici che questa comporta.

La maggiore novità – forse la più importante attuata in Clockseed – riguarda però le parti vocali del disco, da sempre ritenute il problema principale del progetto. Già all’epoca di Premonition Wulf si esprimeva in questi termini:

Vocals are the biggest weak point of this band. We really need three or four different vocalists. There are so many different types of Rodent songs, yet we have only one voice. Boring.

Se su quell’album i Vampire Rodents avevano tentato di aggirare l’ostacolo con una vasta percentuale di brani solo strumentali, e se su Lullaby Land si erano invece avvalsi delle prime timide collaborazioni con altri musicisti (presenti peraltro anche su questo nuovo lavoro), questa volta Vahnke decide di andare fino in fondo affidando a Chase l’incarico di trovare nuovi vocalist cui offrire una parte su Clockseed, reclutando infine quasi una ventina di cantanti diversi; alla fine, Vahnke canta solo su quattro dei ventidue pezzi dell’album. La ricerca di nuove voci avviene, naturalmente, nella maniera meno ortodossa possibile, in pieno spirito Vampire Rodents: i cantanti ricevono tramite Chase la registrazione del brano strumentale già ultimato e – senza alcun tipo di contatto diretto con Vahnke, che quindi non può modificare il pezzo in funzione delle esigenze del vocalist di turno – ne scrivono il testo e lo cantano sulla traccia musicale già ultimata.

We try to give a vocalist a challenging task. Often we intentionally offer a track totally unlike what the artist is used to working with.

Dato che ogni cantante sceglie in maniera completamente autonoma come affrontare la parte vocale del suo pezzo, Clockseed è disseminato di trovate eccentriche e sempre nuove. Su Dowager’s Egg il canto rabbioso di Christian Void dei Killing Floor viene trasfigurato in una sorta di rap, anche se il tessuto sonoro che lo sostiene sembra una mostruosa variazione orchestrale della musica da dancefloor, mentre su Skin Walker la voce suadente di Sarah Folkman (del duo gotico Geko) mira a confondersi con le frasi del violino. Scatter è invece una versione demoniaca di un balletto di Prokofiev riadattato per l’occasione all’era della musica elettronica, e molto coerentemente Mark Edwards (dei Fleshhouse) dà sfogo a una prestazione delirante, distorcendo la voce e cimentandosi in falsetti grotteschi; Mel Hammond, del gruppo EBM Die Warzau, rappa invece sul mosaico elettronico di Cocked, Loaded & Ready, l’ennesima variazione colta sul tema della musica electro-industrial. A Linda LeSabre, cantante del gruppo deathrock Death Ride 69, viene addirittura affidato il difficile ruolo di cantare sulla splendida Terra Amata, un nuovo esperimento collagistico di musica del quarto mondo di Vahnke in cui la base è costituita, oltre che dalla solita drum machine, da tabla, sonagli e didgeridoo. In un contesto tanto esotico, la voce di LeSabre si abbandona ora a estatiche litanie ancestrali seguendo l’esempio di Lisa Gerrard, ora a schiamazzi che si confondono nel soundscape selvatico come echi lontani di versi di qualche sconosciuta specie animale.

A volte l’accoppiata brano-interprete suona quasi premeditata: è questo il caso di Mother Tongue, dove Eric Powell dei 16 Volt gioca in casa su una base intessuta da un flauto mediorientale e da un insistito battito techno, che viene quindi ulteriormente appesantita della chitarra in stile Nine Inch Nails di Tony Lash (che del gruppo indie Heatmiser è però il batterista). Altre volte suona invece molto azzardata, come su Heliopause – dove Dee Madden dei Penal Colony sembra seriamente in difficoltà a trovare la giusta espressività che si adegui contemporaneamente al violoncello tardo romantico, ai lacustri interventi del sassofono e alla ritmica techno.

Of course, there are always going to be situations where this backfires.

Nemmeno ai vocalist che avevano già collaborato con Vahnke vengono riservati particolari trattamenti di riguardo. Dan Gatto canta su Zygote, che è forse il brano che tradisce maggiormente un qualche rapporto di filiazione tra Lullaby Land e Clockseed (e infatti era apparsa già l’anno prima su un’altra compilation della If It Moves…, Scavengers in the Matrix), ma a Jared Hendrickson tocca invece una parte completamente diversa rispetto a quella avuta sul disco precedente. Lontano dal guazzabuglio dissonante di campioni che era la title track di Lullaby Land, Low Orbit è invece un brano estremamente melodico, con una luminosa base di organo e archi degna di un disco baroque pop che viene solo raramente sabotata dalle scariche di chitarra elettrica e dai rumori concreti. Non va troppo meglio a Pall Jenkins che qui presta il suo canto sciamanico a Tenochtitlan II, costruita a partire dal campionamento della Technotitlan apparsa tre anni prima su Premonition (ma con finale sottratto dall’ostinato di percussioni e violino in apertura a Dresden).

I consider my great fortune & good luck with guest vocalists to be inexplicable. The music was not that great, but somehow, I received incredible results from people I’ve never met. Maybe that is the key – no communication – just let the experiment ride as it must…

Rispetto a Lullaby Land, Clockseed sembra focalizzarsi maggiormente sulla scrittura coerente dei brani e sull’operazione di arrangiamento, e se da un lato questa scelta limita l’esplosione di creatività anarchica del suo predecessore, dall’altro lo rende inevitabilmente non soltanto più accessibile ma anche più coeso. Per questo, Clockseed può considerarsi il primo album nel senso classico del termine dei Vampire Rodents: non più una raccolta di esperimenti arditi guidati dal gusto infantile per l’artificio, ma un’antologia strutturata e musicalmente omogenea di canzoni dalla personalità ben definita. Pur con brani dal piglio tanto ballabile, rimane sempre però alla base un umorismo deviato e sardonico, che è poi quello che porta Vahnke a chiudere il disco con Little Canoe, una filastrocca riguardante due ragazzi che fanno sesso su una piccola canoa fino a ribaltarla cantata con tono sinistramente infantile da tal Betty. E il tenero roditore dai pronunciati denti canini in copertina, che si specchia nell’acqua rivelando un riflesso maligno avvolto in inquietanti tinte rossastre, vuole forse celebrare proprio la dissonanza cognitiva tra le orchestrazioni sofisticate e lo humor sadico dei Vampire Rodents, e in particolar modo di Clockseed. Insieme a Lullaby Land, è questo l’altro grande capolavoro di Vahnke.

intermezzo VR 2

Ether Bunny e lo scioglimento: 1996-1997

Nel 1996 Vahnke approda alla Fifth Colvmn, dopo qualche screzio con la Cargo per questioni finanziarie. Con questa etichetta, in quell’anno, Vahnke pubblica ben due lavori.

Il primo, a nome Ether Bunny e intitolato Papa Woody, esce il 2 aprile 1996 ma è in realtà un album la cui gestazione risale già alle sessioni di registrazione di Lullaby Land, nel 1993. È un lavoro completamente strumentale (ad eccezione del martellante minuto e mezzo di Wee, che vede nuovamente la collaborazione di Jared Hendrickson come vocalist e che sembra essere scampato per miracolo alla pubblicazione su Clockseed), pensato come valvola di sfogo per tutte le tendenze bandistiche che affiorano sempre più prepotentemente nella musica dei Vampire Rodents.

With Ether Bunny, I’m trying to reach a younger market with my SBC principle.

In effetti, la differenza dal progetto principale è data semplicemente dal ridotto numero di fonti da cui Vahnke attinge i propri campioni, che ora si concentrano quasi esclusivamente sulle colonne sonore di Raymond Scott e Carl Stalling e sul jazz dell’era pre-bebop, oltre che dall’umore più infantile e meno tetro; l’approccio alla composizione tramite la SBC rimane però il medesimo. Nonostante questa volta i riferimenti non siano più Skinny Puppy e Luigi Nono ma Benny Goodman e Count Basie, Vahnke sembra in ogni caso poco incline al rispetto filologico per il jazz dell’anteguerra – che comunque ama e conosce bene, come dimostrano le percussioni latine di Jelly Roger che evidenziano il retaggio culturale ispanico proprio della musica jazz fin dai suoi albori, o le citazioni a Jelly Roll Morton, King Oliver, Louis Armstrong e Cab Calloway che si sprecano nelle varie Papa Woody, Meerkats of Mu e Closet Monster. Il dixieland, il ragtime, lo swing e la musica per big band vengono sottoposti alla stessa opera di decostruzione alla base dell’intera operazione Vampire Rodents, talvolta così estrema e accelerata da giungere involontariamente a un turbinio confusi a metà tra bebop e avant-jazz (Wabbitpipe, che pur si chiude con l’inconfondibile tema di A Night in Tunisia di Dizzy Gillespie). Le percussioni cubane e caraibiche si confondono tra le pulsazioni dance e jungle, mentre le melodie dei brani sono enunciate principalmente da cornette, trombe e sassofoni, occasionalmente accompagnati da un pianoforte stride. Da questo guazzabuglio di ottoni e ritmiche impazzite emergono qua e là effetti sonori e sample che esaltano la componente cartoonesca del progetto Ether Bunny, come l’orologio a cucù su Flea Circus o la chitarra flamenco di No Paquitos. Solo raramente Vahnke si avvale con più decisione di suoni e inserti orchestrali, partorendo brani che non sfigurerebbero sui primi lavori dei Vampire Rodents come Crippled Crickets, Telepathetic (che discende direttamente dai suoi studi per player piano degli anni Ottanta) e soprattutto Mr. Poopypants – probabilmente il collage più folle di tutto Papa Woody, parente più jazzy della Bosche Erotique di Lullaby Land.

L’album, più che un disco di neoclassicismo jazz, suona come una mutazione più swingante e al contempo schizofrenica dell’acid jazz che si stava imponendo in quegli anni nei club inglesi, riadattato però al formato vignettistico proprio dei Vampire Rodents. L’unico termine di paragone davvero a fuoco con quanto fatto da Ether Bunny potrebbe essere il side-project Steroid Maximus di J.G. Thirlwell, che a partire dal 1991 si era cimentato in un’operazione analoga – egualmente creativa, ma meno interessante dal punto di vista dell’arte del montaggio sonoro. Non sarà al livello qualitativo dei tre dischi a nome Vampire Rodents immediatamente precedenti, ma per molti versi questo è un altro album essenziale per cogliere appieno la visione estetica di Daniel Vahnke.

SEPARATORE

La seconda pubblicazione del 1996, intitolata Gravity’s Rim e di nuovo edita a nome Vampire Rodents, vede la luce il mese dopo, il 14 maggio. Gli arrangiamenti, ora venati di un’inedita tinta umbratile e gotica (probabilmente favorita anche dalla produzione più densa della Fifth Colvmn), si fanno ancora più ricchi e sontuosi, implementando oboi, fagotti, clarinetti, trombe, sassofoni, pianoforti, oltre ai soliti violini e violoncelli. Le orchestrazioni si fanno così rigogliose che Vahnke, sul booklet, si diverte perfino a inventare improbabili nomi di musicisti ospiti come Consuelo Bienviento al flauto, oboe e clarinetto e Luisa Escalante al sassofono e alla tromba (salvo dichiarare successivamente che questi personaggi non sono mai esistiti). Tocca invece a Chase occuparsi delle percussioni di questo disco, oltre che dei loop – ed è forse per questo che a livello ritmico l’album è il più classico e meno indecifrabile della discografia dei Vampire Rodents.
Anche l’assemblamento dei vari campioni è molto meno dissonante e traumatico rispetto al passato, mentre simultaneamente il ruolo del canto si fa più determinante, divenendo ora completamente asservito all’evoluzione del brano: perfino Vahnke, tornato a essere il vocalist principale, si cimenta nella prova più professionale della sua carriera. In questo senso, Gravity’s Rim porta a compimento il processo di normalizzazione del sound dei Vampire Rodents intrapreso con Clockseed: i brani sono ancora un campionario di centinaia e centinaia di sample che sfrecciano e collidono tra loro, ma questa volta tutto viene assemblato per far emergere uno sviluppo dei brani maggiormente lineare.

Se questa scelta da un lato sacrifica molto dell’estro dei lavori precedenti, dall’altro permette di portare al pieno compimento formale l’arte di arrangiatore di Daniel Vahnke, che qui sfodera le orchestrazioni più professionali e impressionanti fino a questo momento (l’utilizzo di legni, tastiere e archi, in particolare, non ha mai risentito tanto delle ricche e colorate partiture di Maurice Ravel e Claude Debussy). Ora che l’ascolto non è più sconvolto dall’enorme frequenza di bruschi cambi di tempo, velocità, umore e sonorità, l’attenzione può essere tutta rivolta al suo gusto come compositore: si può apprezzare la contagiosa linea vocale di Albatross e il vertiginoso addensarsi delle trame di violino in secondo piano; oppure ci si può soffermare sul motivo percussivo di Sandbox, che dona stabilità a un brano che attraversa soundscape orchestrali in continua evoluzione; si possono scorgere le variazioni minacciose del tessuto strumentale di Underneath e i dissonanti interventi di pianoforte sulla title track, o ancora ammirare le diverse finezze ritmiche e melodiche della più smaccatamente pop Obsidian.
Agli ospiti è dato molto meno spazio di quanto non ne avevano su Clockseed: il principale collaboratore di Vahnke per Gravity’s Rim è Athan Maroulis (negli Spahn Ranch e, successivamente, anche nei Black Tape for a Blue Girl), che canta sulla avvolgente Chain, su Calibrations e Patterns (entrambe contese tra la frenesia ballabile della drum machine e la grandeur delle orchestrazioni atonali) e soprattutto su Core, uno dei pochissimi brani dell’album che da Lullaby Land e Clockseed recupera non solo l’opulenta stratificazione verticale degli arrangiamenti ma anche la maniacale sequenzializzazione orizzontale dei vari campioni. Oltre a lui, vi sono nuovamente Jared Hendrickson (a cui toccano Beta e l’insolitamente melodica Code) e Mark Edwards (cui tocca l’assurdo tripudio percussivo di Goatweed). Tra gli ospiti inediti, invece, figurano Maria Azevedo dei Battery (che canta sui due numeri più gotici, ovvero Rain Wheel e The Happy Box) e Dave Creadeau e Boom chr Paige del duo Society Box, che condividono la parte vocale sull’inquietante Evasion. A questi ultimi toccherebbe anche un’ultima traccia, Smartass, in realtà non presente sull’album per via di cambi di programma all’ultimo minuto dovuti alla mancanza di tempo. Il titolo, tuttavia, sopravvive nella stampa della tracklist sul retro della copertina, realizzata prima della fine delle sessioni di registrazione. (Adesso, anche questa traccia è stata resa disponibile online.)

Contro ogni aspettativa, è Gravity’s Rim che segna la fine dell’avventura dei Vampire Rodents. In realtà, dopo la sua pubblicazione, Vahnke sarebbe addirittura pronto a un ennesimo salto di professionalità: è già in cantiere il suo primo lavoro interamente strumentale – di fatto pensato e composto a partire dal 1993 – intitolato Noises in the Wall e la cui pubblicazione è programmata per il 1997, e anche Papa Woody dovrebbe vedere un sequel intitolato Toy Box. Non solo: già nel 1996 Vahnke registra un disco di settantacinque minuti a nome Axon Tremolo, da realizzare con la collaborazione di Athan Maroulis, in cui far convogliare la propria passione per il sophisti-pop dei Blue Nile. Vahnke è pronto perfino a partire in tour in autunno per cimentarsi nell’impresa di eseguire la musica dei Vampire Rodents dal vivo – cosa che, fin dai suoi esordi, aveva categoricamente messo fuori discussione, per questioni logistiche ma soprattutto ideologiche.

No time for tours or recreation, so don’t kid yourself. You can be a rock star or you can be a composer, but you can’t be both and expect to live long.

E, in effetti, i Vampire Rodents non vivranno a lungo – anche se la causa non va ricercata nel cambio di mentalità di Vahnke. Un nightclub chiamato Fifth Column chiude infatti nel 1996, a seguito di un’indagine per evasione fiscale, e la Fifth Colvmn – pur un’entità distinta dal club – risente a tal punto del danno di immagine da seguire la stessa sorte nel 1997. Vahnke si ritrova in mezzo a una strada e non trova nessun’etichetta disposta a pubblicare il suo materiale: i Vampire Rodents cessano ogni attività, senza che nulla del lavoro già registrato veda la luce in alcun modo. L’ultima testimonianza del progetto è un rifacimento del secondo trio per pianoforte di Franz Schubert, pensato originariamente per il sesto album dei Vampire Rodents, che viene pubblicato nello stesso anno sulla compilation Vampire Themes uscita per la Cleopatra Records.

intermezzo VR 3

Conclusione: 2016-?

My participation in the industrial/goth movement was fraudulent at best and predatory at worst, so NO. I can’t reprise a horrible 10-year practical joke. I’m 44 years old now and no longer see the entertainment in resurrecting this point-in-time. The temporal space which VR recordings inhabit are like old Monty Python or Richard Pryor albums. You’ve heard it once – great. Hear it twice – kinda not so great. Personally, I’ve only listened to VR 2-3 times a year in the past decade and it’s not that impressive to me.
(2009)

A partire dal nuovo millennio, Vahnke torna pian piano attivo, almeno nel mondo digitale. Apre una pagina MySpace per i Vampire Rodents, dove pubblica anche delle demo di quel Noises in the Wall mai effettivamente pubblicato nel decennio precedente, e concede la prima intervista dopo oltre dieci anni di silenzio. Nelle dichiarazioni rilasciate a partire dagli anni Duemila, Vahnke insiste spesso su quanto gli ultimi due lavori dei Vampire Rodents fossero «as commercial as U2», su quanto sarebbe superfluo un suo ritorno sulle scene a vent’anni di distanza, e su quanto la musica dei Vampire Rodents non incontri più nemmeno il suo gusto – cosa che ha ribadito in seguito anche su queste pagine.

I rarely listen to my old stuff – it tends to give me a headache and my cats really hate it. Lullaby Land is such an unrelenting nightmare in retrospect. I’m surprised it was never used at Gitmo!

Rimane comunque sorpreso dal seguito e dall’interessamento che il suo lavoro riscontra ancora nella comunità underground anche a vent’anni di distanza. Nel 2016 Vahnke contatta quindi il suo manager: vengono aperte una pagina Facebook, un profilo su Bandcamp e un canale su YouTube tramite i quali viene pubblicato l’intero corpus delle sue composizioni, a partire dalle prime colonne sonore su commissione e gli esperimenti per player piano risalenti a metà degli anni Ottanta fino alla pubblicazione del lavoro a nome Axon Tremolo. A sorpresa, nel 2017, su questo canale Youtube arriva anche la versione integrale del sesto album dei Vampire Rodents.

Dalla durata importante di un’ora e mezza (il disco più lungo mai registrato da Vahnke), Noises in the Wall è l’unico album a nome Vampire Rodents che si libera del giogo della voce, potendo soffermarsi definitivamente sulla disposizione di suoni e sample. Di base l’architettura sonora è sempre la stessa, con una base ritmica techno su cui Vahnke può installare complesse strutture melodiche e gli effetti sonori più bizzarri; ciò che differenzia questa “nuova” opera da Gravity’s Rim – i cui arrangiamenti offrono il precedente più vicino alla musica di Noises in the Wall – è proprio il fatto che, private dal compito di accompagnare una linea vocale, le composizioni si fanno più astratte e sofisticate, dal formato molto meno lineare. È questo l’album in cui Vahnke risente maggiormente dell’influsso della grande tradizione orchestrale del tardo Ottocento e di inizio Novecento. Brani come Apocalepsy, Cotopaxi, Reedmaker, Insulated, Imprint, Domino Effect, Rotator sembrano rappresentare il fine ultimo dell’intera operazione Vampire Rodents: il sampler diviene definitivamente strumento per la composizione di brani di musica colta post-moderna, che richiamano il lavoro di Čajkovskij, Ravel, Stravinskij, Schoenberg, Shostakovich e Messiaen in maniera mai tanto esplicita. Non si è perso lo spirito iconoclasta e il gusto del grottesco (le variazioni sul secondo trio per pianoforte di Schubert sono dei veri e propri sabotaggi, il violoncello a violentare la linea romantica del pianoforte con passaggi che sembrano provenire più dalla seconda scuola viennese), ma di certo Noises in the Wall è il lavoro dal respiro più accademico mai registrato da Daniel Vahnke.

Ciononostante, i collage di generi, epoche e luoghi sono ancora un punto fermo della ricerca di Vahnke. Heap è praticamente un concerto dove il ruolo di solista è affidato a una chitarra elettrica, che viene manovrata in modo da sposarsi con il dinamico background orchestrale; in Cyborghostsex (dalla considerevole durata di otto minuti) il ruolo ritmico è affidato alle tabla, che sostengono gli arrangiamenti sinfonici e il campionamento insistente – abbastanza stucchevole in realtà – di un orgasmo femminile; Lotus Seal è un altro studio sulle possibilità della SBC nell’ambito della musica etnica sulla scia di Akrotiri (da Lullaby Land). Su Blue Room viene perfino recuperato il lussureggiante pop sintetico alla Stan Ridgway tanto caro a Victor Wulf, che infatti torna per la prima volta dai tempi di Lullaby Land alle tastiere e propone anche due composizioni originali: l’incubo avant-garde di Good Humour, che sommerge una ritmica synth pop con voci corali manipolate alla maniera di Luigi Nono, e la conclusiva Itume, un brano heikyoku per biwa e voce che viene condito da sfarfallii cosmici di sintetizzatore.
A questa categoria di brani appartiene anche la composizione più importante di Noises in the Wall, ovvero la frenetica suite in dieci movimenti The Zombie Dolls. Nei suoi complessivi dodici minuti di durata viene cannibalizzato ogni suono, strumento e tradizione possibile, da ostinati percussivi di pianoforte free jazz e chitarre flamenco (I. Deadpoolnet) a ritmiche breakcore impazzite, flauti svolazzanti e koto (II. Slideshow); da austere orchestre contemporanee sostenute con drum machine dance (III. Point) oppure digital hardcore (IV. The Good Virus) a colonne sonore per videogame (VII. 4-Ft Space Station); da glitch e percussioni industriali (VIII. Hydraulic) a riff di chitarra death metal (X. Harelip). Tutto sommato, The Zombie Dolls è forse il brano più vicino allo spirito di Lullaby Land dai tempi di Clockseed, e per certi versi rappresenta la summa dell’ideologia musicale collagistica, schizofrenica e onnivora alla base dell’opera dei Vampire Rodents. Si potrebbe quasi azzardare che Noises in the Wall sia il disco che Vahnke, fin dalla fondazione dei Vampire Rodents, ha sempre avuto intenzione di comporre.

L’ultima novità che Vahnke elargisce al pubblico è quello che sarebbe dovuto essere il secondo album degli Ether Bunny, che viene rilasciato con il nuovo titolo Attention Please il 28 dicembre 2017. Se Papa Woody sembrava sfogare in un progetto collaterale le sempre più ingombranti influenze jazz della musica dei Vampire Rodents tra il 1993 e il 1995, Attention Please suona come una raccolta delle musiche più cinematografiche e leggere partorite da Vahnke tra il 1996 e il 1997. Del jazz che regnava incontrastato sul primo album è rimasta qualche traccia sporadica e centellinata (Beaver Etiquette, Crumpet, Lipper Twist, Clone Alone); c’è invece molto più spazio per luminose orchestrazioni ad ampio respiro, che hanno a vedere più con la musica di Stephen Sondheim che con la musica per big band. Anche la scrittura dei brani – per quanto riguarda la densità dei campioni utilizzati, le ritmiche della drum machine e la complessità strutturale – fa un deciso passo indietro rispetto al passato. Si potrebbe dire che si tratta di un’estremizzazione dell’apertura melodica attuata con Clockseed e Gravity’s Rim, ma la realtà è che Attention Please dà più l’idea di un album di scarti e bozze al contrario del più compiuto Noises in the Wall (l’organo su Attention Please sembra provenire dalla stessa fonte di quello che faceva capolino su Low Orbit, mentre la drum machine che apre Henry Catwallace è chiaramente quella utilizzata su Cocked, Loaded & Ready). È di gran lunga l’album meno interessante di tutta la produzione di Daniel Vahnke.

Con questi due album si chiude definitivamente l’esperienza Vampire Rodents / Ether Bunny. Eventuali sviluppi futuri legati a questi moniker e all’arte della SBC sono improbabili: Vahnke ci ha spiegato che il materiale pubblicato a partire dal 2016 su YouTube e su Bandcamp, che comprende tracce bonus o inedite e un’edizione strumentale di Gravity’s Rim, raccoglie tutto ciò che aveva realizzato negli anni Novanta, ed eventuali registrazioni future lo vedranno tornare sui passi della sperimentazione nell’ambito della microtonalità che hanno fatto partire la sua attività di compositore negli anni Ottanta. È altrettanto improbabile, se non impossibile, che qualche altro musicista intenda proseguire un programma altrettanto ambizioso quanto quello dei Vampire Rodents, che necessiterebbe non solo di una caparbietà artistica non indifferente ma anche di una enciclopedica conoscenza discografica per recuperare il giusto archivio di campioni da utilizzare. A noi rimangono “solo” diversi dischi tra i più belli e creativi che la stagione della musica collagistica (post-)industriale ci abbia regalato, capaci di ridefinire silenziosamente l’estetica e gli strumenti di un genere assorbendo influenze e intuizioni di un secolo di sviluppi musicali in Occidente. Un’impresa che, per ora, sembra essere ignorata – se non incompresa – dalla grande maggioranza del pubblico che dovrebbe prestargli attenzione.

We’ll forever be that guilty porno that you hide behind the bookcase.

Fonti:

Per realizzare questa monografia mi sono avvalso praticamente di tutto il materiale che all’epoca della stesura originale di questo pezzo (dicembre 2017/gennaio 2018) sono riuscito a reperire sui Vampire Rodents, online o meno. Allo stato attuale delle cose molte di queste fonti risultano rimosse da internet, ma copio comunque la lista come appariva al momento della pubblicazione originale di questo articolo.

  1. Tutte le interviste presenti sul blog http://sodomyforhire.blogspot.it;
  2. Tutto ciò che è possibile trovare sulla pagina Facebook ufficiale dei Vampire Rodents;
  3. La pagina Bandcamp dei Vampire Rodents;
  4. L’intervista per Industrial Nation;
  5. L’intervista per Fabryka;
  6. L’intervista per Sonic Boom;
  7. A dirla tutta, anche l’intervista che gli abbiamo fatto noi;
  8. L’intervista presente su The Mind of Microwaved che ora non è più disponibile, ma che ad altezza 2010/2011 era pubblica;
  9. Ciò che mi ricordo dalla pagina MySpace dei Vampire Rodents, da cui un tempo ho ricavato molte informazioni utili sulle influenze musicali di Vahnke ma che ora è illeggibile per via del restyling grafico;
  10. I booklet dei dischi dei Vampire Rodents;
    e ultimo ma non ultimo:
  11. L’ascolto compulsivo dei dischi dei Vampire Rodents, degli Ether Bunny, di ciò che li ha influenzati, e di migliaia di dischi a corredo.
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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia