SOPHIE – OIL OF EVERY PEARL’S UN-INSIDES
Dopo aver superato lo scaffale degli integratori, giri l’angolo e fermi l’hoverboard a levitazione magnetica di fronte al banco elettronico del pesce. Qualche etto di gamberi geneticamente modificati per un buon risotto: aggiungi al carrello. Come da prassi, al momento dell’acquisto sul visore si apre una finestra che ti elenca alcune ricette sfiziose che il tuo CookRobot3000 potrebbe preparare con l’ingrediente appena comprato e altri in vendita nell’ultramercato. Uhm, risotto speziato di gamberi e pomodorini con latte di cocco…si può provare, pensi. Aggiungi la ricetta alla lista della spesa e l’hoverboard si muove automaticamente sui binari che conducono alla sezione dei cibi esotici. In sottofondo, da ognuna delle due casse poste sopra ad ogni incrocio tra scaffali, una vocetta canta:
“You’ve got to be crazy
Thinking you can resist this
You know, yeah you know
You can’t help yourself
I bet you can’t take it
But I’d like to see you try
You should try, if you don’t you might never know
How it tastes so good
Sweet like whipped cream
Soft and smooth”
Alla fine di un nebuloso agosto del 2014 esce Hey QT. La voce zuccherosa cinguetta un testo adolescenziale su suoni standard dance-pop e culmina in un ritornello appiccicosissimo che viene ripetuto per più di metà brano. Se vi sembra che ci siano tutte le caratteristiche per tirare lo sciacquone dopo un ascolto, i siti specializzati sui cui questo pezzo è rimbalzato non sono d’accordo con voi: anticipato con hype da Tiny Mix Tapes, tra i migliori singoli del mese secondo Resident Advisor ed ovviamente Best New Track per Pitchfork. Nulla di sorprendente: dopotutto, nel mondo in cui si fornisce peso specifico a fenomeni pop mainstream come Taylor Swift, Carly Rae Jepsen, Lana Del Rey, Rihanna, perfino Ke$ha, è perfettamente logico che si apprezzi un esempio in cui il giochino è scopertissimo. Vi invito però a guardare il video del singolo: vedete quella bibita in lattina che si chiama come l’artista e viene mostrata e decantata a più riprese? Non è un semplice gimmick sul consumismo: si tratta di una bibita reale, realmente venduta e distribuita. Il video è una pubblicità e il pezzo ne è allo stesso tempo teaser e jingle. Si è dunque formato un cortocircuito ampiamente condiviso in cui la critica musicale fa pubblicità gratuita (spero) ad un’operazione commerciale esaltando le qualità metamusicali di un singolo che suona commerciale fino all’osso.
Uno dei produttori accreditati per il pezzo è A. J. Cook, titolare di un’etichetta il cui nome è passato a simboleggiare un intero movimento: la PC Music. L’intento sotteso dietro ad ogni mossa di questo gruppo mi sembra sia quello di creare una scena pop 4.0, una musica completamente digitalizzata che sonorizzi in maniera perfettamente aderente la realtà aumentata nell’era dell’usa e getta. Se fate un giro sul loro Soundcloud e provate ad ascoltare ogni singolo pezzo che incontrate, potrete convenire che la formula è sempre la stessa e non particolarmente complessa: l’ABC degli stilemi di un singolo-pop-da-classifica-di-tre-minuti ripresi pari pari ed immersi in un bagno di bytes e pixel fino ad eliminare ogni traccia di vetustà analogica, prendendo in prestito dalla bass music quel tanto che basta di ritmi plasticosi e irregolari per avvolgere il tutto in un alone di novità. L’offerta musicale è quindi molto coerente ma non rappresenta il vero aspetto innovativo con cui opera l’etichetta, la cui attività si basa su alcuni punti fondamentali:
- Sia la musica che l’artista devono essere spersonalizzati. Il tradizionale rapporto di fruizione da parte del pubblico viene superato; l’identità dei vari componenti del roster è ambigua, fino a sembrare fittizia; l’incertezza viene rafforzata, oltre che dall’omologazione della componente musicale, anche dalla pletora di collaborazioni e remix incrociati che fanno sembrare ogni singolo nome una pura emanazione di un organismo collettivo. L’attività musicale si avvicina quindi alle coordinate della produzione di massa, con la musica che rappresenta il prodotto venduto e l’artista un semplice marchio di produzione industriale.
- Il focus non deve essere posto sulla promozione e diffusione di ogni singola uscita bensì sull’annuncio di uscite sempre nuove; si procede così per accumulo ricalcando il processo della sovrapproduzione capitalistica.
- La musica non deve sfidare la bassa soglia di attenzione dell’utente internautico: perciò la produzione deve essere quasi totalmente riservata a singoli ed EP di pronto consumo, in formato digitale.
- L’estetica deve essere completamente imbevuta di cultura web e trasudarla da ogni poro, in modo da fornire ai fruitori un terreno interpretativo comune da cui attingere significato.
Non a caso ho aperto l’articolo con QT (e non a caso è l’immagine scelta da Mattioli per aprire i suoi “Appunti per una discografia accelerazionista”), che rappresenta forse l’apice di questo modus operandi. Chi è QT, innanzitutto? La ragazza che canta in lip-sync nel video e che si è presentata alle esibizioni da quel che ho capito dovrebbe essere semplicemente una modella ingaggiata per rappresentare QT; nei vari live si è limitata a sostenere una posa in linea con il personaggio, muovendosi a ritmo, toccando più le cuffie che il mixer e ogni tanto tirando fuori dallo zainetto l’immancabile lattina della bibita brandizzata. Mai vista cantare, mai vista mixare, è realistico pensare che QT sia solamente un’entità fittizia, nata in studio, a cui è stato donato un corpo per scopi promozionali. Per oltre un anno QT si è guadagnata spazi ed è salita su palchi sulla scorta di una produzione discografica complessiva che ammonta ad un solo singolo. Ogni esibizione vive dell’evidente scollamento tra effettiva paternità (maternità?) artistica e stage persona, con una flagrante testimonianza nel live a Fader Fort: presenza algida da ragazza immagine e tre minuti con il ritornello di Hey QT in loop, al termine dei quali sorride e se ne va. Il pubblico applaude.
L’altro nome accreditato per la produzione di Hey QT è quello di SOPHIE, che invece è tanto reale da aver collaborato con Le1f, Madonna e Charli XCX: ottimo curriculum poptimista. Ciò che però la fa brillare di luce propria è la serie di singoli pubblicati a partire dal 2013. Sono pezzi che rientrano perfettamente nelle coordinate estetiche della PC Music: la voce femminile con alti livelli di pitch e saccarina, gli hook melodici esagerati, il suono ipersintetico. Eppure hanno qualcosa di più. Dietro alla facciata di ipersensibilità pop, si avverte una pulsazione nichilista totalmente assente in tutte le altre emanazioni innocue del cosiddetto bubblegum bass. I synth sono gonfiati fino a scoppiare, mostrando l’impalcatura metallica che li sostiene; i bassi enormi vengono mandati a sbattere con cozzare di lamiere; le melodie vengono ripetute in maniera ossessiva fino al collasso. Il suono è prodotto in modo da risultare molto tagliente e quasi grezzo, volutamente sharp-pitched, e sentire zuccherini da j-pop mentre la base ritmica si piega e si contorce produce un effetto decisamente straniante. E’ stata questa, io credo, la carta vincente per tenere la critica con il fiato sospeso su meno di mezz’ora di musica in due anni: la presenza di un impianto pop sfacciatissimo a presa immediata che però evita la sensazione di guilty pleasure grazie alla convivenza con visionarie fughe in avanti. Oltre, ovviamente, al fatto di aver sfornato la musica per i supermercati del 3000 quando tutti parlavano di accelerazionismo / turbocapitalismo /poptimismo.
Questi singoli sono stati raccolti nella compilation Product, da cui è stato giustamente escluso Nothing More To Say del 2012 perché legato ad un suono nu-disco che nulla ha a che fare con la costruzione sonora e pubblica del personaggio attuale. Sentendo pezzi come Hard e MSMSMSM c’è di che entusiasmarsi, perché si assiste ad una rielaborazione degli elementi pop che è in realtà una triturazione meticolosa e divertita, come un bambino che distrugge i giocattoli, e ne escono pezzi dalla forte attitudine post-industriale che suonano moderni e senza compromessi. Anche Elle non è male, certo dal punto di vista compositivo la gioca più facile, ma restituisce bene la sensazione di pattinare su una pista rosa shocking con vista sul vuoto pneumatico. Poi però ci sono gli altri pezzi. E gli altri pezzi SONO il vuoto pneumatico. Lemonade è un pezzo stupidissimo che risulta efficace solo in funzione della propria stupidità. Bipp suona caotica e martellante ma non è altro che un pezzo pop insistente senza cambio di base tra strofa e ritornello. Just Like We never Said Goodbye: se mi dicessero che è un pezzo di Ariana Grande non avrei nulla da eccepire. L.O.V.E. non ha nulla di pop, è anzi un tentativo ambient-noise interessante ma con un’ambizione più grande della sostanza. E poi c’è Vyzee. Vyzee mi turba, perché tra i pezzi pop è il più contagioso, il più spendibile come singolo ear candy e forse il più riuscito. Ma nulla riesce ad eliminare la sensazione che sia anche questa una pubblicità. “Look at me, it’s simple / We’ll make it easily / If you need that something but don’t know what it is / Shake, shake, shake it up and make it fizz…”. Perfetta per una…bibita gassata, no? E in generale all’ascolto non posso fare a meno di avvertire più di una carezza al mio istinto di consumatore. Magari sono io, d’accordo. Però Lemonade è poi finita su uno spot di Mc Donald’s. Ed insieme all’uscita di Product SOPHIE ha anche aperto un negozio virtuale in cui oltre a copie fisiche del disco erano in vendita scarpe, occhiali e sex toys. Quindi, fino a poco tempo fa, la domanda era legittima: è tutta fuffa? E’ un fenomeno gonfiato in maniera abnorme o c’è davvero della carne al fuoco?
Di recente è uscito l’album di debutto di SOPHIE e ha rotto l’internet musicale per due giorni; se ci seguite da più di due giorni e non siete degli ascoltatori di primo pelo, avrete già sviluppato l’impressione corretta che il disco non corrisponda EFFETTIVAMENTE a tutti gli elogi che gli sono stati tributati. Però mi sembra comunque un passo significativo, perché finalmente lascia la parola solo alla musica. E la musica ha qualcosa di interessante da dire.
In primis, SOPHIE amplia la propria visione musicale. Non si limita a forzare lo schema dei singoli su un intero album, bensì cerca un’espressione di più ampio respiro e dimostra di esserne capace: non era scontato. Questo significa anche che non cerca di smussare o diluire gli aspetti sperimentali del proprio suono, anzi, li estremizza. Faceshopping è, nell’opinione di chi scrive, la cosa migliore che abbia mai fatto uscire. Niente ammicammenti, niente sottintesi, solo carezze e schiaffi. Le carezze non sono fasulle e gli schiaffi sono belli forti. E’ forse il suo pezzo più rumoroso e metallico, eppure riesce ancora ad essere ballabile. Ponyboy, che lo precede, riprende la formula di Hard e da disturbante la fa diventare abrasiva tra tra bassi tellurici e lame affilate che tagliano le voci sensuali. L’opener (It’s Okay to Cry) è di un registro completamente diverso, non un registro all’avanguardia ma uno che finora mancava completamente nella carriera di SOPHIE: una canzone pop dal sapore cantautorale, pulita e ben scritta, senza mascheramenti ritmici o frivolezze. E’ un buonissimo terzetto per iniziare e rimarrà purtroppo la parte migliore del disco. Mi ero già cautelato approcciandomi a questo ascolto con l’aspettativa di una caduta di stile ad ogni angolo, ma devo dire che non è questo il caso: l’unico sfondone becero arriva all’ottava traccia (Immaterial), che è la sola occasione in cui SOPHIE spinge l’acceleratore sul pop ipercinetico e accentua questo passaggio a vuoto con un bridge di rara bruttezza a metà traccia. Il fatto che sia un caso isolato mi fa però ben sperare relativamente al superamento di questa particolare componente nel contesto complessivo del suo suono, e paternalisticamente potrei dire che si tratta di una maturazione. Il restante minutaggio è infatti occupato da tentativi più sperimentali, più coraggiosi, ma non per questo completamente riusciti. La parte centrale del disco abbandona in toto la componente ritmica (eccezion fatta per la breve e ottima parentesi di Not Okay) e diluisce le componenti tradizionali del suono di SOPHIE lambendo nuovi lidi: minimal wave in Is It Cold In The Water?, art-pop in Infatuation, pura ambient in Pretending (la migliore delle tre). Sono esplorazioni sincere ma incompiute, che si fanno apprezzare più per le intenzioni che per i risultati, i quali rimangono un po’ rimasticati a mezz’aria senza trovare la chiave per incorporare questi nuovi elementi in maniera incisiva. Per quanto apprezzi la varietà stilistica ed anzi sia propenso ad incoraggiarla, mi tocca purtroppo riconoscere che nessuno di questi tentativi ha un decimo della potenza espressiva rispetto a quando SOPHIE fa collassare tutto con gli usuali breakdown gigantici. E’ però importante che siano presenti anche queste manifestazioni di diversità, perché testimoniano una volontà di ricerca che in futuro potrebbe dare frutti più maturi. Infine, la chiusura è tale da lavare via immediatamente il sapore acidulo di Immaterial: Whole New World/Pretend World va in all-in riprendendo i canovacci ritmici più ossessivi ed inserendoli all’interno di un suono ipercompresso, con incitazioni da cheerleader e sirene d’allarme trasfigurate che si aggrovigliano e si impasticciano sempre di più fino ad esaurirsi lasciando nell’aria uno spessissimo muro sonoro, notazione ambient-noise stavolta riuscita. Poteva forse essere accorciata di un minuto o due, ma indubbiamente funziona.
Rimane insomma un disco molto netto tanto nei pregi quanto nei difetti, che però a differenza dei singoli sembra peccare più per inesperienza che per negligenza. Tutt’altro che un capolavoro, insomma, ma con aspetti di interesse e la consapevolezza che SOPHIE è capace di andare oltre al chiacchiericcio.