Siamo in un periodo in cui per qualche motivo ci sta venendo di partecipare in maniera un po’ più diretta in certi fatti della musica e del giornalismo musicale nell’infosfera italiana. Noi siamo piuttosto orgogliosi del nostro lavoro, ma difficilmente abbiamo avuto occasione di presentarci dall’altro lato dello schermo a parlare di quello che facciamo e a raccontare dei retroscena e della storia che solitamente facciamo solo trasparire nei nostri pezzi più in soggettiva. Abbiamo delle opinioni molto forti e un tone of voice molto personale, ma raccontarci in presa diretta non è stata mai una nostra prerogativa. Anche perché, parliamone, a chi ne cale?
Per questo motivo siamo stati stupiti e lusingati quando la redazione di Ubu Dance Party ci ha esteso l’invito di partecipare a niente meno che un laboratorio gratuito sulla scrittura musicale per persone che vogliono fare l’attività che facciamo noi, e magari trasformarla in un lavoro pagato. Ovviamente, se l’obiettivo è quest’ultimo, abbiamo messo ben in chiaro che bisogna fare il contrario di quello che potevamo consigliare. Ma la passione è tanta, quindi la chiacchiera ha avuto modo di prendere delle pieghe interessanti. I ragazzi del laboratorio, in particolare, sono stati particolarmente svegli e ricettivi, a sbatterci in faccia la realtà dei fatti che di gente con fotta ed etica del mestiere è pieno il mondo. E che in questo mondo dominato da slop algoritmici e logiche di mercato culturale non meno impersonali c’è una certa necessità di piantare un chiodo qui e lì e provare a rendere più umana e prorompente questa attività di ascolto e ricerca che ci caratterizza.
Dal canto nostro, abbiamo avuto anche un’occasione in più di vederci, raccontare un po’ del nostro passato, delle nostre motivazioni e dei nostri piani. Abbiamo pensato di mettere l’intervista ad archivio anche sul nostro sito e condividerla con i nostri lettori, che sicuramente possono essere interessati da questo interplay che si è creato con i ragazzi del laboratorio. Ma ancora di più, plaudiamo all’iniziativa disinteressata di sviluppare un laboratorio di scrittura così fitto che, per necessità e virtù, si muove su linee parallele rispetto alle realtà più ufficiali che hanno tutta una serie di scopi che prescindono dal vero obiettivo di chi questa roba la ama: parlare di musica. Grazie mille ai ragazzi di UDP, speriamo di rivedervi presto in qualche altra occasione!
(L’intervista, chiaramente, è una rielaborazione e filtraggio di ore di chiacchierata. Se suoniamo diversi da come siamo di solito, è per via della compressione)
QUI trovate l’articolo originale.
QUI trovate quattro recensioni ispirate alla nostra intervista fatte dai ragazzi del laboratorio

(Prefazione di Ubu Dance Party)
Apparsa nel 2011 su Blogspot dietro al nome Bjorko Dio, la webzine a tema musicale Livore si compone di sei membri compaginatisi negli anni all’insegna di una critica abrasiva e trasparente, tesa a sondare con la stessa capillarità tanto il panorama mainstream quanto le autoproduzioni più recondite di Bandcamp. Alessandro, David, Emanuele, Jacopo, Roberto e Lorenzo – da ora in poi noti come i Livorosi – hanno concesso alla redazione laboratoriale di Ubu Dance Party qualche domanda per far luce sul personalissimo e dirompente stile di critica musicale: per usare le loro stesse parole, in uno spettro che va dagli articoli copiati dal press-kit a Nuova musica del venerdì di Francesco Farabegoli, si posizionano come persone che sono se stesse molto bene: nella maniera più competente possibile esprimono anzitutto la loro soggettività.
UDP: Dalle bestemmie al livore il vostro biglietto da visita è quello del disappunto, o di un sardonico umorismo. A quali circostanze possiamo attribuire questo atteggiamento e quanto influisce sul vostro stile di critica e divulgazione in ambito musicale?
LIVORE: Quando abbiamo cominciato con Bjorko Dio era un mondo diverso: Internet andava avanti a piccoli blog, c’erano alcune isole all’interno della websfera dove era necessario trovare un modo per essere diversi. Siamo partiti molto giovani e avevamo come cifra stilistica lo shitposting. Bjorko Dio era antisistema: condividevamo la musica con MediaFire, quando Bandcamp non era una realtà ancora effettiva. Abbiamo mantenuto questa cifra perché dava una valenza emotiva al gesto critico; non eravamo particolarmente competenti ma questo era il nostro modo per fare critica militante, più o meno informata, più o meno aderente ai nostri gusti. Col passare del tempo abbiamo deciso di mantenere questo piglio tagliente lavorando sulla necessità immediatamente successiva: la competenza.
Bjorko Dio chiuse nel 2020 e subentrò Livore. Questo nome, nato come parodia e sfottò della blasonata testata di giornalismo musicale Rumore, deriva dal fatto che quotidianamente, chi più chi meno tra noi, corrispondiamo alcuni minuti di odio ad articoli zeppi di superficialità, approssimazioni se non deliberati travisamenti, consapevoli del disservizio nei confronti della musica e del pensarla e criticarla che essi svolgono. Per parlare di certi dischi leggiamo tesi di dottorato e non tolleriamo il pressapochismo di testate molto più lette di noi, e perciò più dannose. Queste ultime tendono a presentare i propri contenuti fin dal nome: dalla neutralità di titoli come Ondarock all’effetto di altri come Impatto Sonoro e Rumore.
Il nostro riflette un’estetica sbottonata e accattivante, ma le recensioni, per non parlare degli articoli, sono sottoposte a revisioni rigorose. Tutto quello che scriviamo è corretto da più persone, chi si occupa delle maiuscole, chi della sintassi, chi degli inglesismi. Da una parte cerchiamo di presentarci senza prenderci troppo sul serio, nonostante ciò leggendo i nostri articoli desideriamo che traspaia la capillare ricerca che svolgiamo. Se in questi scorgerete una bestemmia od un insulto rivolto a una critica che non ci piace non inquinerà la sostanza della nostra. D’altro canto non troveremmo nessun valore in una critica redatta correttamente, educatamente, ma priva di spessore.
Quando esprimiamo un’opinione veniamo spesso accusati di snobismo e di voler fare i bastian contrari, ma chi contesta questo atteggiamento attacca in realtà la nostra volontà di non parlare mai per partito preso. Prima o poi dovranno venire a patti col fatto che ci piace solo quello che ci piace e non ci piace solo quello che non ci piace. Anche il nostro atteggiamento avversivo contribuisce a farci essere più di alcuni-tra-i-tanti nel web.
UDP: Quando abbiamo cominciato a preparare la vostra intervista siamo incappati, tra i tanti altri contenuti, nella “non-recensione” al disco dei Verdena Volevo magia: Dieci cose più interessanti dell’ultimo disco dei Verdena di Alessandro Corona. Preso atto della sua pubblicazione, l’articolo si chiede “[…] perché torturarsi i coglioni con i Verdena quando nel mondo succedono cose così bislacche?” passando dunque ad elencare 10 alternative all’ascolto di un album “[…] di cui non può fregarcene di meno”. Riproponete lo stesso meccanismo con un’artista molto più mainstream come Beyoncé. Perché interfacciarsi col lettore con queste modalità?
LIVORE: La recensione del disco dei Verdena da valore al lettore condividendo una molteplicità di proposte interessanti. Così come con Beyoncé si tratta di un disco mediocre, che non ci ha entusiasmati pur senza offrire il pretesto per una stroncatura. Volevamo sottolineare ai componenti dell’infosfera, molto agitata per la sua pubblicazione, quante cose più interessanti ma poco rumorose stessero accadendo in quello stesso momento, fornire un contrappunto immediato a tutti quei lettori con un potenziale.
Reperire informazioni sui Verdena è molto facile, con il capitale sociale di cui godono in Italia: tutti tratterebbero e trattano il loro ultimo disco. Parlarne in modo tangenziale come abbiamo fatto noi esprime già di per se una posizione critica. Quello che volevamo dire sul disco, forse, è che non avevamo nulla da dire, e tanto sarebbe valso chiudere il PC e farsi una passeggiata per i boschi.
Visto che la nostra voce si immerge in un panorama ricco di opinioni che tende ad unificarsi, quando non siamo mossi da qualcosa di consistente non abbiamo ragione di scrivere. Preferiamo cogliere l’occasione per ampliare le motivazioni del perché pensiamo ciò che pensiamo. E a questo proposito è bene ricordare che questa non-recensione ha il valore che ha per la nostra redazione poiché abbinata ad altre ottanta recensioni molto più strutturate, mediate ed estese, siano elogi o stroncature. Se facessimo una recensione su due in questo non-modo avremmo un valore diverso da quello che desideriamo nel panorama di critica musicale italiana.
UDP: Sul vostro sito abbiamo reperito una spalletta che ci invita a riascoltare un disco degli Area: Arbeit Macht Frei. L’attenzione ritorna dunque a un degno esponente di quei capolavori di un tempo, ai quali usa guardare con nostalgia come se così grandi ormai non potessero più uscirne: ma è davvero così? Un tempo degli stessi capolavori parlavano i giornali, le radio, poi alla copertura si è aggiunta una sedimentazione mediatica molto accentuata che ha contribuito ad imporli come pietre miliari. Oggi ci troviamo immersi in un paesaggio più dispersivo e frammentario come quello del web, dal quale è più difficile far emergere un nuovo capolavoro.
LIVORE: I capolavori nel contemporaneo esistono, sono tanti ancora da scoprire ed assorbire ma ogni anno ci imbattiamo in dischi che cambiano la nostra percezione della musica e del mondo. Siamo abituati a un’idea di capolavoro reificata dal vinile anni ’70, un’opera che hanno ascoltato tutti ed ha dettato una linea per un’intera scena – dal progressive rock al rock sperimentale e così via – ma se dovessimo continuare a pensarla così allora dovremmo ammettere che non esistono più le guerre da quando è terminata la Guerra Fredda. Semplicemente le guerre adesso si combattono in modo nuovo così come il panorama musicale attuale si configura secondo dinamiche che negli anni ’70 sarebbero state incomprensibili.
Oggi si deve pensare che un capolavoro può essere riconosciuto nell’immediato, sotto molteplici forme e manifestazioni, soggette alle regole di Internet, alla frammentazione esplosiva delle scene musicali. La metafisica del concetto di capolavoro può portare a codificare contesti complessi ricchi di dinamiche ermetiche entro canoni approssimativi o arbitrari, suscitando bias di conferma fino ad aggregare realtà che non sono riducibili ad uno sguardo così tranciante. Pensiamo ad esempio ai dizionari di musica rock e jazz, sottintendenti l’idea che in 1800 pagine si possa esaurire tutto lo scibile di quei generi musicali. Questa visione può essere molto confortante: seguendo passo passo il manuale si potrebbe approdare a un’idea univoca non solo degli album più importanti del genere, ma di come si siano influenzati fino ad oggi. Secondo queste fonti, più ci avviciniamo ai giorni nostri più il numero di capolavori pubblicati diminuisce.
In realtà, superata questa prospettiva sistematica e abbracciato il caos, possiamo godere di una visione molto più appassionante: un disco autoprodotto, nascosto su Bandcamp e registrato in un continente non del primo mondo può travolgerti come un treno; dietro ogni angolo e ascolto scadente può sorprenderci un’opera rilevante per le sorti del suo genere, e della musica in generale, che ci rimarrà per tutta la vita.
UDP: Un critico, per quanto raffinato, rimane anzitutto un ascoltatore con gusti ed inclinazioni personali. Vi è mai capitato di imbattervi in un disco o un artista che non vi sia piaciuto e a distanza di mesi ripescarlo, magari casualmente, e iniziare ad amarlo? Secondo voi quale sarebbe il modo corretto per un critico di reagire a questa circostanza?
LIVORE: [Porta ad esempio il suo caso David] Ho subito pensato a Blonde di Frank Ocean, che ho rivalutato in rotta di collisione con il resto della redazione. (Qui abbiamo tutti sclerato, ndr) Quando lo ascoltai la prima volta non ne apprezzai l’R&B ostinatamente queer. Ad un secondo ascolto salvai alcuni arrangiamenti, qualche struttura dei pezzi mentre mi entravano in testa. Allora li riascoltai, e tutto l’album mi piacque sempre di più, finché ora ho sviluppato un vero rapporto con un disco che all’inizio mi fece schifo.
Molto spesso i dischi che rivalutiamo sono quelli che intuiamo di non stare capendo del tutto: cose troppo estranee alla nostra comfort-zone, musica ed estetiche che ci prendono alla sprovvista ma che siamo in grado di apprezzare con il passare del tempo e l’arricchirsi dell’esperienza di ascolto, magari cogliendole assortite in proposte più eterogenee. Viviamo il riascolto di quelle opere come maturazione dei nostri gusti e rifondazione della capacità critica, che si estende anche retroattivamente: cose che non comprendevamo ora sono alla nostra portata, e d’altro canto che ne è di ciò che in precedenza ci è piaciuto alla luce delle nuove consapevolezze? Molto spesso siamo restii o molto cauti a recensire dischi che non ci piacciono e di cui ci rendiamo conto di non comprendere appieno la composizione.
UDP: Sospendete il giudizio fino a quando non vi sentite in possesso di tutti gli strumenti necessari per formularlo.
LIVORE: Esattamente, non è una macchia non avere un’opinione pronta su un disco ascoltato. La macchia è scrivere dei dischi sapendo di averli ascoltati male. Non c’è niente di sbagliato nel contraddirsi a posteriori, rivedere le proprie valutazioni anziché rimanervi arroccati. L’attenzione va data agli strumenti che crediamo di possedere nel momento in cui tentiamo di fissare un’opinione su qualcosa.
Se ascoltiamo un disco di musica classica cinese senza sapere nulla di musica classica cinese non possiamo accontentarci di trovarlo una “pizza”, o discreto, o esaltante. Dopo altri 20 dischi dello stesso genere avremo allenato il nostro gusto e ci saremo impegnati attivamente per coltivarlo, forse cominciando ad essere nelle condizioni di agire non distruttivamente sull’oggetto del nostro interesse. Questo messaggio fa bene sia a chi scrive sia a chi legge critica musicale.
Qui finisce il transcript.
Io sono quasi sicuro che una “pizza” non sia stato detto ma sia stato detto qualcosa di estremamente più volgare, ma l’ha detto Emanuele, che è notoriamente il più dolce di noi, quindi potrei anche sbagliarmi.
Ci vediamo la settimana prossima!