CHARLI XCX – BRAT

Atlantic

2024

Electropop

Era prevedibile che ci saremmo trovati qui, prima o poi, a parlare di Brat. “Prevedibile” suona in realtà più come “inevitabile” dato che, nonostante tutta la buona volontà, siamo noi stessi stati travolti da quell’ondata di immagini di profilo e meme verde acido, onnipresenti in qualsiasi social network, tanto da lambire persino la corsa presidenziale statunitense. Sì, perché in fondo non sarebbe né possibile né sensato parlare di Brat senza considerare ciò che questo disco è: un successo di marketing, prima ancora che musicale. 

Mi piace immaginare le ore di lavoro dietro al meticoloso shooting fotografico per la copertina di Crash, che appena due anni fa presentava una Charli XCX sanguinante sul vetro scheggiato di un’auto, avvenente bikini nero, pelle lucidissima, il viso perfettamente inquadrato sul terzo di sinistra. Ore buttate, in fondo: nel mondo occidentale terminally online basta una scritta nera su un verde debitamente fastidioso ed istantaneamente riconoscibile, e il pranzo è servito. La ciliegina sulla torta? Esportare il file in JPEG nella minor qualità possibile, per un risultato complessivo che appare così terribilmente stupido ed esilarante da fare il giro e diventare feticcio. Ad ogni modo, se c’è chi ora si sta fregando le mani nel quartier generale della Atlantic è perché la risonanza mediatica e memetica di Brat non è solo dovuta al suo geniale marketing a corredo, ma anche alla musica che c’è dentro, e nondimeno a chi quella musica dovrebbe recensirla. 

Guardarci attorno nel panorama della critica di settore ci fa sentire come Homer Simpson al bancone del She-She Lounge: Pitchfork celebra Brat con un 8.6 “best new music”, Rolling Stone si mantiene sull’80/100, Fantano di contro si spinge addirittura allo “strong 9 to a 10”, e mentre la media su Rateyourmusic è ancora sopra il 3.90, quel 95 aggregato su Metacritic scintilla nella sua tonalità verde-quasi-brat, ennesimo contributo per la marea incontrollata sulla quale tentiamo faticosamente di galleggiare. In quello che sembra essere un consenso unanime che la società dell’hype ci ha imposto, cercare la realtà dietro alla narrazione senza cadere nel bastian contrario diventa sempre più difficile, e l’unico modo per avvicinarcisi è rassegnarsi ad ascoltare veramente questo disco, per capire infine qual è l’oggetto di cotanta venerazione.

A livello sonoro, Brat continua pacificamente con l’operazione nostalgia che affligge l’intera grande industria mediale da circa un decennio: l’electropop di base dell’album è colmo di rimandi al panorama house di inizio anni 2000, mai comunque trascurati dall’estetica della vicina PC Music, ma questa volta più che mai esplicitati, a volte senza troppa vergogna. A questi vengono di volta in volta aggiunti ingredienti coevi pescati qua e là, dalla bassline di Club Classics all’electroclash di Girl, So Confusing, passando per la french house di Talk Talk, con risultati qualitativi altalenanti. Ascoltando il disco diventa infatti chiaro come le tracce più riuscite e memorabili siano quelle che spingono di più sull’aria di generale tamarraggine e marciume danzereccio, culminante nel singolo di lancio Von Dutch. Qui ad esempio, la produzione di EASYFUN non si preoccupa di citare senza veli Yeah Yeah dei Bodyrox, facendomi per un attimo tornare bambino mentre la voce di Aitchison è ormai tutt’uno con l’autotune, fusa nella strumentale del pezzo, disgustoso nel suo incedere, eppure pregno di quel tipico sapore di guilty pleasure. È chiaro che un revival del genere sia stato concepito per solleticare specificatamente i late millenial, non molto diversamente da quella poltiglia che fu Chromatica, ma nel bilancino di precisione su cui questo lavoro è stato soppesato non poteva mancare una controparte seriosa per riportare a terra l’euforia e dare al tutto una pretesa di profondità, funzionale a legittimarne le derive più lezze.

È così che la brat-persona sforna-singoli Charli è presto messa davanti al suo opposto, Charlotte Emma, aperta alle proprie vulnerabilità e incerta sul suo futuro, umana e non robotica. L’efficace Sympathy is a Knife, che non avrebbe sfigurato in Pop 2, è il primo passo in tal senso, ma dietro l’angolo irrompe subito a gamba tesa la brutta ballata alt-pop I Might Say Something Stupid a spezzare nettamente il ritmo del disco, in un colpo di mano che appare decisamente forzato, col senno di poi semplice presagio di ciò che verrà. Svariati brani di qui in avanti ce la mettono tutta per mostrare il lato più emotivo della pop star, che complice l’assenza di featuring riesce effettivamente, bisogna dirlo, ad esprimersi in un modo più personale del solito, tra il rimpianto per la perdita di SOPHIE (So I), le riflessioni sulla propria carriera (Rewind) e il rapporto con la maternità (I Think About It All the Time). Il vero problema è che sono proprio questi i momenti musicalmente meno ispirati, in cui le sonorità si ammorbidiscono fino a diventare deboli e mosce, svelando di conseguenza i limiti dei produttori coinvolti. Un sacrificio calcolato, perché nelle menti dello stan ciò che eleverà Brat sopra al generico disco pop sarà soprattutto l’intravedere il proprio idolo sotto una luce soffusa – una luce confinata in una stanzetta per non intaccare i singoli, s’intende. 

In tutto questo, A.G. Cook la fa da padrone, e non per forza in positivo, ricordandoci che tra i problemi della sua produzione, dei quali abbiamo già parlato, vi è anche una generale povertà armonica, riscontrabile nelle tante progressioni che sanno di ripetuto, di già sentito, e troppo evidente persino per le basse pretese che abbiamo nei confronti di un lavoro di questo genere. A mascherare questa falla ecco prontamente le scelte timbriche, a volte interessanti, più spesso banali, mai veramente spinte verso gli episodi più “osé” che avevano contraddistinto la fase hyperpop della cantante inglese, ma disegnate per essere sbarazzine, almeno quel tanto che basta per accontentare tutti. L’unico episodio realmente dirompente rispetto al passato arriva infatti nelle infiltrazioni di grime e funk brasileiro in Everything is Romantic, che nella sua schizofrenia appare come l’ultimo concreto avvenimento di rilievo che l’album ha da offrirci prima di sprofondare nell’impalpabilità sonora della sua seconda metà: Rewind e So I sono canzonette con un ritornello che potremmo aver sentito in una decina di altri lavori PC Music, se solo non fosse per il testo ad infiocchettarne il sacchetto di plastica; Apple è evanescente, l’esperimento pseudo-futurepop di B2B riesce nell’impresa di non possedere una personalità definita, un break di piano è tutto ciò che vale la pena ricordare in Mean Girls, mentre I Think About It All the Time affida alle parole la sopravvivenza intera di un brano musicalmente più che trascurabile. La chiusura del cerchio affidata a 365, rielaborazione della traccia d’apertura 360, ritorna troppo tardi ai numeri da club della prima metà, lasciando calare il sipario su un build up quasi industrial techno per farci dimenticare la mediocrità che abbiamo appena vissuto. 

Le basi strumentali su cui Charli si muove sono rappresentative di ciò che Brat è: un grande compromesso, studiato per non scontentare nessuno fino in fondo nelle sue contraddizioni, e per questo eletto dalle masse e dai critici ad opera matura, finalmente compiuta. Nella sua tendenza ad andare incontro alla EDM più digerita possibile, la carriera di Charli XCX è ormai sospesa in un sound che non sembra avere grandi prospettive di evoluzione, ma che viene comunque inspiegabilmente celebrato con parole roboanti, pur non avendo mostrato progressi eclatanti dai tempi di How I’m Feeling Now. Il lascito musicale di Brat è quello di un disco a metà, divertente nei suoi risvolti più beceri, vacuo o passabile nel suo lato più impegnato, un fatto che nessun testo sincero e profondo può cancellare. Diverso è il lascito d’immagine: se su Ondarock ci tocca leggere che la Brat-era “è giunta per restare”, noi vediamo Brat per ciò che è, un meme, che come tutti i meme morirà prima che ce ne si renda conto.

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Lorenzo Dell'Anna
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