SCARCITY – AVEILUT

The Flenser

2022

Black Metal

La genesi spirituale di questo Aveilut risale addirittura al 2019. Ai tempi, il chitarrista Brendon Randall-Myers – già membro del gruppo noise rock Marateck, dell’ensemble sperimentale Invisible Anatomy, e anche direttore del Glenn Branca Ensemble dopo la morte di Branca nel 2018 – aveva appena perso, nell’arco di un mese, una zia e un amico; nell’arco dell’anno successivo, ancora nel mezzo dell’elaborazione dei propri lutti, si sarebbe anche trovato bloccato a Pechino durante il primo lockdown per covid del 2020, e quindi costretto nuovamente in misure restrittive una volta tornato a New York, in uno degli epicentri della pandemia in America. Il suo progetto Scarcity – di cui Aveilut rappresenta l’esordio discografico – prende piede dalla necessità di manifestare il dolore e soprattutto il rapporto con la morte che, nell’arco di due anni, si è trovato ad affrontare sia in termini individuali che universali. Lo stesso titolo deriva dall’ebraico avelut (lett. rimpianto), termine che indica grossomodo la fase di elaborazione del lutto successiva alla sepoltura di un proprio caro. 

La scelta stilistica di Randall-Myers per esprimere un umore tanto funereo ricade quindi nel metal estremo, genere che nella New York del nuovo millennio sembra sposarsi bene con le ambizioni di molti musicisti attivi nell’ambito d’avanguardia (senza andare troppo indietro nel tempo, vi ricordate i Luminous Vault?). Ne emerge una lunga composizione di circa tre quarti d’ora, suddivisa in cinque movimenti di durata variabile (dai cinque minuti del terzo fino ai tredici dell’ultimo), dalle sonorità chiaramente imparentate con quelle del black metal più scarnificante della scuola americana ma la cui strategia compositiva è quella del minimalismo di area Theatre of Eternal Music. Lentamente, ma inesorabilmente, la musica di Aveilut si sviluppa tramite il progressivo addensamento di cellule musicali che vengono ribadite ostinatamente con il passare dei minuti, con minime variazioni. L’effetto ricercato è, evidentemente, quello tipico dei maggiori lavori di Glenn Branca, tant’è che il missaggio asfissiante dell’onnipresente Colin Marston punta precisamente alla saturazione di timbri e frequenze, mirando a confondere i vari strati strumentali di chitarre, sintetizzatori, basso e batteria in un unico marasma sonico che l’orecchio possa percepire come un’esplosione di puro suono – che è uno dei fondamenti concettuali di tutta la corrente totalista newyorchese.

Tuttavia l’attuazione di questa filosofia compositiva è sorprendentemente cheap. Da un lato, quest’operazione non è scheletrica o radicale come quella che fu per esempio quella degli Orthrelm di OV, limitandone di molto il fascino intellettuale; dall’altro, la formula di Aveilut è sufficientemente ripetitiva da essere avvertita come monodimensionale, specialmente se paragonata con quella di band stilisticamente affini come i Liturgy o, appunto, i Luminous Vault. È una sensazione spiacevole che è ravvisabile lungo tutto il disco, ma che emerge con prepotenza specialmente nelle tracce in cui il contributo della base ritmica è ridotto al minimo, ovvero la prima e la quarta – che perlomeno spezia un po’ la formula rallentando i tempi e impantanandosi nel passo apocalittico dei Khanate, prima di chiudersi in una coda di rumore bianco in odor di Prurient. La musica di Aveilut suona quindi sì oscura e intensa, ma pare anche non avere nulla da dare oltre all’accumulo di pulviscoli di distorsioni, feedback e riff in tremolo picking. Nei primi quattro movimenti, viene facile perdersi piuttosto nei dettagli armonici dovuti all’adozione di accordature esotiche e della microtonalità (Randall-Myers utilizza un’ottava suddivisa in ben settantadue suoni): la ripetizione ossessiva dei riff di chitarra, unita ai pochissimi cent di ampiezza degli intervalli musicali in un temperamento simile, fa percepire (o forse solo immaginare?) cambi microscopici e alieni che sembrano distorcere la percezione delle frasi melodiche a un orecchio occidentale. Carino, ma è più o meno ciò che è sempre accaduto nella musica che ha posto come fulcro nevralgico l’idea della microtonalità, e questo principio è stato utilizzato proprio in questo modo a più riprese anche nel metal – l’esempio più illustre in questo caso è, ovviamente, Jute Gyte. 

Paradossalmente, il momento più straziante ed efficace di tutto Aveilut è proprio quello più tradizionale – ovvero il quinto e ultimo movimento, in cui l’accordatura è standard e il temperamento è equabile. Il brano in sé è però un black metal plumbeo e rovinoso che rimanda direttamente ai Weakling, con una prova lacerante come screamer di Doug Moore dei Pyrrhon (coinvolto nella realizzazione del disco soltanto una volta ultimata la composizione delle parti strumentali), completamente giocato su un doloroso crescendo di intensità portato avanti dall’elaborato contrappunto di diverse tracce di chitarre elettriche che finalmente riesce a epurare la violenza tragica del black metal tramite la catarsi spirituale delle sinfonie di Branca. Quando il pezzo, e quindi il disco, si chiude con una sommessa – ma a suo modo serena e pacificante – elegia di sintetizzatori, si viene colti dal dubbio: forse era questo tutto ciò che gli Scarcity avevano da comunicarci.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia