SAN SALVADOR – LA GRANDE FOLIE
Con il suo font moderno e iper-minimale, gli abiti turistici, vistosi e coloratissimi, dei soggetti della foto — con tanto di casacca di Stoichkov del Barcellona in seconda fila —, la copertina di questo La grande folie sembra introdurre all’ennesimo disco di indie pop elettronico un po’ ironico come ne escono a decine ogni settimana. E invece. Formatisi pochi anni fa nel piccolo comune francese di Saint Salvadour, nel dipartimento di Corrèze della Nuova Aquitania, i San Salvador propongono una musica che è molto lontana da quella che i pregiudizi sulla copertina possono portare a immaginare. Si tratta, infatti, di un sestetto che già da un paio d’anni sta riscuotendo un certo successo tra appassionati e addetti ai lavori per la loro personale interpretazione delle musiche folk delle regioni nei dintorni del Massiccio Centrale e, in particolar modo, dell’Occitania — lo stesso moniker altro non è che la traduzione in occitano del toponimo Saint Salvadour. Non è un caso che La grande folie, loro album di debutto, sia stato pubblicato tramite la Pagans, etichetta francese che negli ultimi tempi è diventata un faro di riferimento per le più disparate e innovative declinazioni del folk del sud della Francia (occitano, basco, guascone, alvernese, e chi più chi ne ha più ne metta), dai canti polifonici delle Cocanha agli esperimenti allucinati e saturi di droni di Romain Baudoin e Super Parquet. L’approccio dei San Salvador, tuttavia, si pone un po’ a metà tra questi due estremi.
Come le Cocanha, i San Salvador sono un gruppo quasi completamente vocale votato alla polifonia. In questo caso, alle voci femminili di Eva Durif, Marion Lherbeil e Laure Nonique-Desvergnes, si aggiungono anche quelle maschili di Thibault Chaumeil, Gabriel Durif e Sylvestre Nonique-Desvergnes, oltre a un sostegno ritmico più pervasivo dato da battiti di mani e da ciò che è praticamente una batteria smembrata e spartita tra i sei membri: un tamburello, una gran cassa, due timpani, qualche piatto, nient’altro. Tutto questo, insieme al fatto che tutti i testi siano in occitano e siano per lo più adattati direttamente da canzoni popolari e tradizionali (seppur riarrangiati in maniera completamente originale), farebbe pensare che la prospettiva dei San Salvador al repertorio folk locale sia strettamente filologica, ma questa assunzione non è completamente esatta. Come specifica lo stesso Gabriel Durif in un’illuminante intervista rilasciata a Blogfoolk, per i San Salvador la tradizione è un «soggetto mobile», che gli stessi interpreti storici hanno sempre avvicinato con rispetto e libertà in egual misura, senza mirare a una forma cristallizzata e fissa di “folklore” non meglio definita. E proprio per questo i San Salvador, pur riconoscendo l’eredità culturale del patrimonio folk, si pongono l’obiettivo di rinnovarlo e attualizzarlo. Una decisione, d’altronde, manifesta già nella sola cernita dei soggetti per i vari brani, scelti appositamente per suonare comunicativi ed espressivi anche per l’individuo del ventunesimo secolo: uomini che esercitano violenza sulle donne, ritorni desolanti dal fronte venati di antimilitarismo, rifiuto pagano del giogo della religione, perfino (sulla conclusiva Quau tu mena) quella che con la mentalità contemporanea può essere interpretata come una proto-manifestazione di empowerment femminista. L’unico testo originale, quello del singolo di lancio Fai sautar, si colloca comunque nello stesso solco — l’invito è sempre quello di far saltare in aria gabbie, prigioni, sbarre più o meno metaforiche. (I testi, per chi fosse interessato, sono reperibili in occitano, francese e inglese qui.)
Questo processo di aggiornamento si traduce in una lunga serie di libertà filologiche, geografiche e stilistiche, che i San Salvador decidono di prendersi nella loro rivisitazione delle musiche del Massiccio Centrale. Per esempio, nonostante la ricca tradizione polifonica dei trovatori, i San Salvador non si rifanno direttamente a essa quando intessono i propri intrecci vocali; piuttosto, la loro scrittura è il risultato del riadattamento delle melodie dei canti locali del dipartimento di Corrèze (tipicamente monodici) sui ritmi frenetici della musica strumentale popolare. Ma soprattutto, i San Salvador ricercano uno spirito popolare trasversale geograficamente e culturalmente (un «folklore universale», secondo le loro stesse parole), e per questo sono influenzati da forme musicali anche piuttosto lontane da quella occitana: non solo la Marsiglia del Còr de la Plana, ma anche la Bulgaria del Mystère des voix bulgares, l’Italia di Giovanna Marini, finanche la Riunione di Danyèl Waro, passando anche per le tradizioni andaluse, mediorientali, asiatiche. Tuttavia, il risultato assolutamente esplosivo di La grande folie non si può spiegare soltanto in termini di musiche folk e popolari, per quanto possa essere vasto il numero di fonti cui i San Salvador attingono. È lo stesso sestetto a parlare di “punk” e “costruzioni math rock” sul proprio sito, e in effetti è difficile non scorgere negli intricatissimi incastri ritmici di voci e percussioni su Lo mes de mai, nelle eccentriche armonizzazioni che emergono dall’incontro/scontro dei sei cantanti su Enfans de la Campagna, perfino nella musicalità convogliata dalle parole in quanto tali, suggestioni di gruppi sperimentali che abitano lo spettro tra Magma, Gentle Giant e Roomful of Teeth.
Si prenda in esame ciò che succede su La Liseta, liberamente tratta da una sanguinosa canzone su tre giovani capitani che uccidono i genitori di una ragazza (Lisetta, appunto) che ingenuamente li aveva condotti alla locanda del proprio padre. L’articolazione stessa del testo compromette fortemente l’originale (qui potete trovare lo spartito con alcune annotazioni storiche): le dinamiche di ripetizioni degli stessi versi e di call and response tra voci femminili e maschili qui non sono implementate per suggerire il dialogo tra i tre capitani e Lisetta, e anzi i sei cantanti si passano il testimone vicendevolmente anche a metà della stessa frase. Anche nelle parti corali, solitamente costruite progressivamente a mo’ di canone, vi sono sfasamenti controintuivi tra le varie parti vocali — alcune trattengono le sillabe più a lungo, altre attaccano a cantare il verso in ritardo, altre ancora semplicemente utilizzano un passo ritmico o un registro diverso aggiungendo tridimensionalità alla resa sonora del sestetto. La struttura del brano, poi, non rende le cose più semplici, visti i continui e frequenti cambi di ritmo, tempo, umore, melodia, per tutta la sua durata (quattordici minuti!) — senza seguire il testo, si potrebbe giurare che si stia ascoltando una sequenza molto concitata di quattro o cinque pezzi diversi. Il climax si raggiunge però verso il finale, quando i soldati incitano Lisetta a portarli alla locanda di suo padre: il battito si fa più serrato e i poliritmi delle percussioni incalzano ulteriormente il ritmo già estremamente febbricitante dettato dall’impasto vocale polifonico, con le voci che urlano «menas!» che sembrano spuntare da ogni dove. Un pezzo assolutamente mozzafiato.
La title track — l’altro grande capolavoro del disco insieme a La Liseta — offre altri spunti di esplorazione delle possibilità della formula dei San Salvador. Anche qui si parla di un brano lunghissimo (quasi dodici minuti) che sembra assemblato come un Frankenstein di tanti pezzi più brevi, ma la costruzione vocale è sensibilmente diversa grazie alle varie armonizzazioni corali (soprattutto femminili) che fanno da sfondo senza articolare delle vere parole. Il testo, cantato prevalentemente dalle voci maschili e inframezzato da sezioni in scat dal vago sapore arabeggiante, parla di un non meglio precisato presagio di morte strisciante che vaga e perseguita la popolazione come un’ombra minacciosa: se il tono aspro e i ritmi complessi seguiti dalle voci narranti esprimono la frenetica urgenza della necessità di svegliarsi dal torpore intellettuale, i sinistri cori wordless in secondo piano sono invece il correlativo oggettivo della tragedia incombente.
Ma anche senza badare troppo ai (numerosissimi) dettagli armonici e ritmici delle composizioni di La grande folie, la musica dei San Salvador conquista innanzitutto per la sua irrefrenabile energia. Senza necessitare di apparecchiature strumentali particolarmente elaborate, tutti i brani si distinguono innanzitutto per una componente fisica pronunciatissima che, soltanto con il tiro trascinante di percussioni e voci, sembra invitare al ballo. Anzi, le tracce migliori (La Liseta e La grande folie in testa, ma anche Lo mes de mei ed Enfans de la campagna) risultano essere proprio quelle che riescono a coniugare al meglio la componente corporea con la complessità delle architetture vocali, dando vita a perfette chansons à danser. In questo senso La grande folie centra in pieno lo spirito primordiale della musica folk, e proprio per questo risulta tanto convincente come tentativo di revival: offre gustose novità all’ascoltatore moderno più smaliziato — anche a quello poco interessato al genere, se vogliamo dirla tutta —, ma mantenendo intatto il fascino arcaico e fuori dal tempo della cultura occitana popolare. Pertanto, La grande folie è uno dei dischi più belli finora usciti nel 2021, fortemente consigliato anche (e forse soprattutto) ai non iniziati come gateway drug per conoscere il folk regionale occitano e, tramite questo, riscoprire la bellezza delle musiche popolari di ogni luogo ed epoca.