RICONTESTUALIZZARE I SOFT MACHINE

Sarebbe facile dire che i Soft Machine sono stati uno dei miei primi amori, ma semplicemente non è vero. È vero che li ho scoperti che ero appena adolescente, ed effettivamente sono stati uno dei primissimi gruppi con cui ho timidamente provato ad uscire dalla mia comfort zone che, quando avevo tra i 14 e i 15 anni, era essenzialmente composta di soli thrash e death metal. Proprio per questo, però, non hanno fatto breccia immediatamente: mi ci sono voluti mesi di ascolto per riuscire a entrare nella loro musica e provare a comprenderla a un livello più “profondo” (che per un ragazzino di quell’età tipicamente vuol dire: andare a leggere cosa ne dicono i grandi e ripetere più o meno a pappagallo). D’altronde, quando si è giovanissim*, l’approccio a musiche verso cui non si è ancora maturato il giusto paradigma mentale come ascoltatore è spesso, quasi sempre, viziato da un’artificiosità un po’ innaturale, specialmente se intorno a te tutti – dagli amici (o, nel mio caso, un’amica di cui si è cotti persi), ai portali di critica online, fino a ogni sedicente esperto incrociato sia nella vita vera che su internet – insistono sul fatto che si tratti di roba impegnata, superiore, in a league of its own. Al me quindicenne semplicemente sembrava che i Soft Machine dovessero piacermi, e che dovessi sforzarmi attivamente per raggiungere tale scopo. Quindici anni dopo non posso che guardare inevitabilmente con sufficienza a questo modus operandi, anche perché crescendo ho capito che era piuttosto molto più utile e maturo elaborare perché diversi degli artisti di cui ho cercato caparbiamente di innamorarmi agli inizi della mia esplorazione musicale non mi dicessero niente (per fare un esempio: i Porcupine Tree). Tuttavia, l’amore per i Soft Machine è rimasto; anzi, a posteriori, posso dire che questo amore ha plasmato il modo in cui vivo la musica, il tipo di suoni e sensazioni che vi ricerco, perfino gli elementi stessi che metto a fuoco durante l’ascolto. In questo senso non sono stati né i primi né gli ultimi né tantomeno gli unici: ma sono stati comunque tra le influenze musicali più importanti in assoluto nella mia vita. 

SEPARATORE

Proprio per l’amore che provo verso di loro, verso le loro vicende umane oltre che artistiche, ho sempre vissuto con fastidio e disprezzo la prospettiva critica con cui l’opera dei Softs viene interpretata e valutata dal giornalismo musicale alternativo. Parlare dei Soft Machine è sempre un’occasione per parlare della carriera musicale del Robert Wyatt bipede – è lui stesso a usare questa espressione, nella sua autobiografia Wrong Movements redatta da Michael King – e per raccontare, con minime variazioni, la stessa storia: i Soft Machine sono (stati) principalmente il gruppo di Wyatt, hanno scritto tre grandi dischi con lui (con il vertice in Third e il capolavoro nel capolavoro rappresentato, ovviamente, dalla sua Moon in June) per poi precipitare in un jazz rock vezzoso ma di maniera quando egli è stato esautorato da ruoli predominanti nella scrittura dei brani (in Fourth) e soprattutto quando ha abbandonato il gruppo (da Fifth in poi). Non so chi sia stata la prima persona con sufficiente autoverolezza da promuovere così efficacemente questa vulgata tra gli ascoltatori di musica rock, anche se almeno in Italia il maggior indiziato è – al solito – Piero Scaruffi. Dico al solito non tanto perché Scaruffi abbia chissà quale meriti pionieristici nella considerazione (nel bene e nel male) di certi artisti, ma perché in Italia c’è una tendenza molto ingenua e semplicistica a ricondurre a lui tutti quei luoghi comuni della critica musicale avvolti nell’aura di trendiness propria delle opinioni superficialmente controcorrente, e che pertanto fanno facilmente breccia in una minoranza molto compatta e rumorosa che va ribadendoli a sua volta. Il più delle volte si tratta di un’attribuzione a dir poco mistificatoria, tipicamente basata soltanto sulla completa ignoranza riguardo il processo storico di valutazione (e rivalutazione) di artisti e dischi non mainstream, eccezion fatta per quella operata da Scaruffi stesso: per dire, fa sorridere imbarazzati la storiella che classici del canone del rock sperimentale o underground come Trout Mask Replica, The Modern Dance o Faust, presi a modello da numerosi musicisti già relativamente poco tempo dopo la loro pubblicazione, sarebbero completamente sconosciuti in Italia non fosse stato per Scaruffi. Nel caso specifico dei Soft Machine, però, la mia impressione – personale, parziale, e quindi da prendere con il dovuto scetticismo – è che i suoi scritti abbiano effettivamente giocato un ruolo importante nel promulgare l’idea che la parte rilevante della carriera dei Soft Machine si chiuda con i primi tre dischi, peraltro attribuendone il merito quasi esclusivo a Robert Wyatt e imputando al suo abbandono una qualche mancanza di creatività e “genio” nei lavori successivi. Ritengo che sia così non solo per diretta osservazione empirica della demografica che condivide e promuove questa opinione, ma anche perché questa lettura molto sbrigativa e sminuente dei Softs, che in larga parte si può facilmente debunkare semplicemente leggendo una qualsiasi biografia o guardando ai credits dei loro dischi, è legata a un’altra specifica emanazione del pensiero scaruffiano: quella che afferma l’esistenza di solo una musica, sorta di ideale platonico metafisico che esiste a prescindere da ogni sua manifestazione di genere, stile ed epoca. L’ovvio corollario è che è possibile – anzi, è desiderabile – ascoltare, interpretare e decodificare qualsiasi tipo di musica adottando sempre la medesima prospettiva critica imbalsamata e vetusta, senza fare alcun tipo di sforzo nell’adottare paradigmi differenti per carpire messaggi e dialetti diversi proposti da tante musiche diverse

Il problema è che i Soft Machine, già a partire da Third, non sono più propriamente un gruppo rock. La loro ascesa come sensazione del pop psichedelico inglese con tanto di concerti all’UFO Club al fianco dei Pink Floyd di Syd Barrett, insieme al fatto che Mike Ratledge e Hugh Hopper non hanno mai abbandonato la propria strumentazione elettrica, ha portato molto pubblico rock a fraintendere la musica prodotta dai Softs negli anni Settanta come (solo) “jazz fusion” o “jazz rock”. Ma si tratta di una terminologia fuorviante che sopravvaluta la componente rock, pur ancora presente, del loro suono: per scrittura e linguaggio adottato, dischi come Fourth e Fifth sono a tutti gli effetti manifestazioni della florida stagione del jazz inglese degli anni Sessanta e Settanta. Ora, da queste parti “jazz inglese” è tipicamente usato come sineddoche per “scena jazz londinese del nuovo millennio”; in realtà, il jazz inglese può vantare una storia lunghissima, per quanto sicuramente poco nota qui in Italia, sviluppatasi nel corso dei decenni non solo assorbendo e rielaborando la lezione imparata già a partire dagli anni Venti dagli ensemble americani che sono passati in tour sull’isola, ma anche inglobando gli idiomi specifici delle numerose comunità di migranti giunti progressivamente nel Regno Unito. L’approccio cosmopolita e la naturale predisposizione ad accogliere elementi musicali provenienti dalle culture delle ex-colonie (e quindi: Giamaica, Sud Africa, India…) così come da generi più popolari come pop, rock, soul, funk, e successivamente anche reggae, dub ed elettronica, sono sempre state caratteristiche proprie della via British al jazz. Dai dischi più astratti del giamaicano Joe Harriott incisi a partire dalla fine degli anni Cinquanta, fino alle esplosive performance della Brotherhood of Breath di Chris McGregor e dei Blue Notes dal Sud Africa, poi riattualizzate e prese come modello in chiave post-moderna da big band anni Ottanta come i Jazz Warriors o i Loose Tubes e quindi ancora dai gruppi di Django Bates negli anni Novanta, fino ad arrivare ovviamente a tutte le personalità attuali che sono emerse intorno alla Brownswood Recordings, la scena jazz inglese è sempre stata, coerentemente e caparbiamente, onnivora.

Ovvia conseguenza: negli anni Sessanta e Settanta, specialmente dopo l’ascesa del trend del progressive rock, nel Regno Unito la distinzione tra alcune propaggini più jazzy del rock e il jazz propriamente detto era estremamente più labile. Non si parla semplicemente di musicisti rock che ascoltano e utilizzano elementi del jazz e viceversa – anche se ci sono esempi eclatanti pure in quel senso, e in abbondanza: da un lato della barricata ci sono la passione dei Soft Machine per Cecil Taylor e Miles Davis, la fissa dei Caravan per i tempi composti di Don Ellis, e l’ammirazione di Robert Fripp per Sonny Sharrock; dall’altro, ci sono Graham Collier, che Harry Beckett definiva addirittura il primo musicista jazz rock, e John McLaughlin, che fondò la Mahavishnu Orchestra anche guidato dal suo amore per la chitarra di Jimi Hendrix. Si parla proprio di condivisione di spazi e di idee, di etichette che pubblicano lavori jazz e lavori folk e rock senza battere ciglio, di collaborazione attiva già a partire da tempi molto poco sospetti – cfr. Kevin Ayers che, già membro dei Soft Machine, nel 1967 suona il basso in concerto in libera improvvisazione assieme a un gruppo comprendente, tra gli altri, Evan Parker e George Khan. Il caso più eclatante, e relativamente noto ai fan della stagione progressive inglese, è quello dei Centipede, un collettivo gigantesco che pare un who’s who del mondo prog e jazz con gente come Robert Wyatt, Robert Fripp, Elton Dean, Alan Skidmore, Paul Rutherford, Ian MacDonald, con in più un nutrito manipolo di musicisti classici reclutati presso la London School of Music: solo a guardare quale membro ha suonato con quali persone viene il mal di mare. Per sfizio, vi offro solo una manciata di esempi, forse nemmeno tra i più significativi.

  • Innanzitutto, partiamo da Keith Tippett, che dei Centipede è stato il fondatore e ideatore. Probabilmente lo conoscerete per l’ospitata su In the Wake of Poseidon, Lizard e Islands dei King Crimson, ma è stato soprattutto un pianista che ha elaborato una personale via tra il free jazz e il jazz rock, suonando con gente come Louis Moholo e Dudu Pukwana (musicisti free jazz immigrati da Cape Town) e Harold McNair (sassofonista di origine giamaicana). Uno dei suoi primi dischi è dedicato ai Soft Machine (il titolo, Dedicated to You But You Weren’t Listening, è quello di un brano a firma di Wyatt su Volume Two), mentre Frames – inciso dalla sua big band Ark nel 1978 – è un altro caleidoscopio di nomi hot della scena jazz britannica. 
  • Ian Carr è un altro di quei nomi che i jazzofili contano come esponenti del British jazz mentre il pubblico rock conta come nome spurio e, tutto sommato, ancora inquadrabile come “rock” – per quanto ovviamente inteso nella sua declinazione più squisitamente jazzy, più o meno come i Soft Machine. È, notoriamente, il fondatore e principale motore creativo dei Nucleus, ma nasce come jazzista suonando su dischi completamente acustici al fianco di nomi come Neil Ardley, Don Rendell, Joe Harriott, Michael Garrick, e il chitarrista indo-inglese Amancio D’Silva. Anzi, nonostante la sproporzionata fama dei Nucleus rispetto ai lavori in cui è apparso come leader e sideman, è di fatto principalmente un jazzista di formazione.
  • Mongezi Feza, morto a soli trent’anni nel 1975, è stato uno dei membri originali dei Blue Notes. Emigrato in Inghilterra, si unì poi alla Brotherhood of Breath, la big band di Chris McGregor (anche lui emigrato sudafricano) e fino alla sua morte alternò partecipazioni a dischi dei suoi vari colleghi e amici immigrati come lui dal Sud Africa, a collaborazioni con musicisti progressive rock: tra le sue ultime apparizioni, si contano anche il contributo a War (da In Praise of Learning degli Henry Cow) e, ovviamente, l’assolo su Little Red Riding Hood Hit the Road da Rock Bottom di Robert Wyatt.

In questo senso, la scena jazz rock inglese si distingue drasticamente dall’omologa scena jazz fusion americana. Negli Stati Uniti, i primi esperimenti con il jazz elettrico da parte di Miles Davis, Herbie Hancock, Freddie Hubbard, Wayne Shorter e Tony Williams sono di fatto naturali prosecuzioni, per altro molto sofisticate, del linguaggio post-bop e modale che gruppi come il secondo quintetto di Davis andavano sviluppando negli anni Sessanta, in cui vengono iniettate ingenti dosi di funk e soul sul modello proposto da James Brown e da Sly Stone. Lo scopo è dichiaratamente quello di coniare una nuova forma “totale” di musica autenticamente nera e afro-americana, tant’è che nel caso di Miles Davis la sua ammirazione per Jimi Hendrix va intesa come il riconoscimento di un contributo apportato all’idioma black, e non come un qualche interesse per la musica rock in sé – che Davis, in realtà, non era interessato a suonare in alcun modo: il Jazz Book di Joachim Ernst-Berendt ricorda come nel 1970 rifiutò di partecipare al Randall’s Island Festival al fianco di Eric Clapton e Jack Bruce, asserendo, circa testualmente: «I don’t want to be a white man. Rock is a white man’s word». La Mahavishnu Orchestra, dichiaratamente allestita da McLaughlin anche per sfoggiare le influenze dell’R&B e della musica rock con cui era cresciuto, rappresentò il trait d’union tra quel modo primigenio di intendere il jazz elettrico e la sua emanazione più popolare che poi, con una punta di malcelato disprezzo, venne etichettata dapprima jazz fusion e infine smooth jazz per indicare la sua variante più commerciale (e spesso melensa) degli anni Ottanta: per dire, a Chick Corea venne l’idea di fondare i Return to Forever proprio dopo aver assistito a un concerto della Mahavishnu in supporto ai Gentle Giant, come ricorda McLaughlin stesso. Per questo, nonostante retroattivamente anche dischi piuttosto avant-garde come Bitches Brew di Davis e Super Nova di Shorter siano inseriti nel calderone della fusion, quando si pensa al jazz americano si avverte sempre uno scollamento tra un supposto “vero” jazz, di norma acustico, e quello invece dai timbri scintillanti e dalle melodie più dolci, straripante di tastiere ARP, minimoog, sintetizzatori Oberheim, bassi e chitarre elettriche, cui si pensa quando si parla di jazz fusion. Forse anche per questo motivo, agli occhi di certe frange del pubblico pop e rock, il jazz fusion (o il jazz rock, come viene chiamata essenzialmente la stessa musica quando viene suonata da gruppi rock anziché da jazzisti) è considerato talvolta come uno dei generi del jazz più “sinceramente amabili”, talaltre come una sua spuria bastardizzazione artisticamente molto meno rilevante; in entrambi i casi, la prospettiva è che si tratti comunque di una musica che è “meno jazz” rispetto al jazz acustico tradizionalmente inteso. Nel Regno Unito, così come d’altronde in diversi luoghi nell’Europa come la Polonia, la Francia e la Germania (non a caso, gli stati europei che possono vantare le scene jazz più ricche), questa separazione invece non c’è – e del resto non dovrebbe esserci nemmeno parlando di jazz statunitense. Quello inglese è un panorama in cui gli steccati tra il mondo rock e il mondo jazz vengono continuamente scavalcati, e pertanto lo stesso jazz abbraccia una via proteiforme in cui convivono elementi provenienti simultaneamente dal jazz per big band, dal free jazz, dal post-bop, dal jazz modale, ma anche dalla classica contemporanea, dal rock, dalla musica tradizionale sia inglese (si pensi agli echi pastorali nel suono del sax di John Surman in dischi come Upon Reflection) sia estera – quella indiana in particolare. Agli occhi degli stessi protagonisti di quella scena, come Graham Collier, Harry Beckett, Alan Skidmore, Ian Carr, John Surman, Mike Westbrook, Michael Garrick, John Marshall, Keith Tippett, Chris McGregor, non c’è davvero una distinzione di intenti e di metodo tra jazz acustico e jazz elettrico salvo l’aspetto, più che superficiale, che concerne il tipo di strumentazione adottata. E in effetti, viene sinceramente difficile non cogliere la continuità estetica e poetica che unisce dischi come Under Milk Wood di Stan Tracey, Dusk Fire del quintetto di Don Rendell e Ian Carr, Deep Dark Blue Centre, Mosaics e Darius di Graham Collier, Flare di Harry Beckett, e quindi Fourth dei Soft Machine e We’ll Talk About It Later dei Nucleus.

Con tutte queste dovute premesse, possiamo finalmente concentrarci sul caso dei Soft Machine. A rileggere i loro inizi e la loro formazione, sembra quasi che i Softs siano finiti per appartenere al mondo del pop rock psichedelico per mero accidente, visto quanto tutti i loro membri storici – prima ancora di formare i Wilde Flowers – siano appassionati prima di tutto alla musica classica e al jazz in ogni sua manifestazione (da Art Blakey e Thelonious Monk a John Coltrane e Charles Mingus, fino a Cecil Taylor e Ornette Coleman), piuttosto che al rock. L’unico periodo in cui sembrano appartenere pienamente alla scena psichedelica londinese è il paio d’anni che passano tra la loro formazione nel 1966 e la pubblicazione di The Soft Machine nell’ottobre 1968, non a caso gli anni in cui Kevin Ayers rappresenta il compositore principale per i Softs: è lui a dare quel taglio obliquo e patafisico, così legato all’umorismo beatnik e surrealista e alla musica della British Invasion, al suono dei Soft Machine dell’esordio. Ma già dopo due tour negli Stati Uniti (uno nella primavera 1968 a supporto della Jimi Hendrix Experience e un altro nell’estate, inframezzati soltanto dalle sedute di registrazione per il disco verso metà aprile) il gruppo è collassato sotto le fatiche e le nevrosi della vita da rock star: perfino il bon vivant Ayers, completamente esaurito dopo un primo tour passato a scopare e a ubriacarsi in continuazione, cerca di sopravvivere ai ritmi infernali della seconda tournée rifugiandosi in uno stile di vita ascetico e in diete macrobiotiche, per poi vendere il basso e fuggire a Ibiza facendo perdere le proprie tracce appena ne ha l’occasione. Per Ratledge, oltre alle medesima difficoltà di Ayers nel sopportare la vita in tour, ci sono anche attriti musicali e caratteriali nei confronti di personalità eccentriche ed esibizioniste come quelle di Ayers stesso e di Wyatt, sia sul palco che fuori; per di più, non è granché interessato alla musica rock americana in sé, trovandola limitata tecnicamente, creativamente o, nel caso peggiore, in entrambi i reparti, con le sole eccezioni notevoli della Jimi Hendrix Experience, delle Mothers of Invention di Frank Zappa, e degli Spirit. Anche lui, appena finito il tour, ne approfitta per lasciare gli Stati Uniti e tornare a Londra per studiare composizione e ampliare la formazione classica che aveva già maturato mentre portava a termine gli studi universitari a Oxford. Wyatt, invece, decide di rimanere in America facendosi ospitare da Hendrix e da Eric Burdon, cogliendo l’occasione di suonare anche con jazzisti come Miroslav Vitous, Larry Coryell, Jeremy Steig. La scelta di rimettere in piedi i Soft Machine, a questo punto ufficialmente sciolti, non è di nessuno di loro: è della Probe, l’etichetta che ha in carico la pubblicazione dell’esordio che ancora non è nemmeno uscito ufficialmente, che è entusiasta del loro lavoro e chiede loro un secondo disco con annesso tour promozionale. Quando al posto di un Ayers completamente irrintracciabile viene chiamato Hugh Hopper a ricoprire il ruolo di bassista, la metamorfosi dei Soft Machine in un gruppo jazz è già in uno stato molto più avanzato di quello che si possa pensare e di quanto la critica rock non abbia mai avuto voglia di sottolineare: le ultime composizioni con cui Wyatt contribuirà al repertorio dei Soft Machine, vale a dire Rivmic Melodies (che occuperà il lato A di Volume Two) e ovviamente Moon in June, risalgono sostanzialmente al periodo di attività statunitense di Wyatt, e vengono già registrate su demo tra l’ottobre e il novembre 1968. La Cuneiform ha reso disponibile questo materiale nel 2013 con il titolo ‘68, e consiglio di recuperarlo; non aspettatevi però grosse sorprese da Moon in June, visto che i dieci minuti registrati nelle demo originali vengono saldati a dieci minuti risalenti a una sessione del trio a completo della primavera del 1969, restituendo pertanto sostanzialmente la stessa versione che conosciamo e amiamo da Third. Piuttosto, è illuminante la versione embrionale di Rivmic Melodies: è impressionante come l’assenza di organo, basso e fiati, e la presenza al loro posto di improvvisazioni vocali in scat singing ispirate dall’enunciazione ostinata dell’alfabeto, di assoli di batteria e di anarchiche elucubrazioni per pianoforte free jazz, gettino un ponte già rivolto all’avant-garde dadaista e surreale di The End of an Ear. Dall’altra parte, non è difficile scorgere in brani come Chelsa i germi della poetica che affiorerà pienamente su Rock Bottom.

Per questo, è pacifico sostenere che i Soft Machine Mk II siano fin dal principio una creatura principalmente in mano a Hopper e Ratledge. Sono loro quelli più interessati a confrontarsi più apertamente con il jazz, con forme e strutture più accademiche, con manipolazioni di nastri e con line up più estese, e sono sempre loro quelli con l’ambizione di lavorare con metriche più complesse, non condividendo la fascinazione di Wyatt per i 4/4 e il suo modo molto quadrato di scandire primo e terzo quarto sul rullante. D’altro canto, Wyatt stesso sopporta malvolentieri la direzione più jazz che Hopper e Ratledge vogliono intraprendere – con grossa sorpresa di entrambi, visto l’amore per il jazz condiviso da tutti e tre – e perfino il fatto che non sappia leggere il pentagramma viene utilizzato in chiave emancipante per sfuggire al controllo che organista e bassista stanno imponendo sulla band. Negli anni, Wyatt si esprimerà piuttosto aspramente sulla musica che i Softs andavano realizzando: questa per esempio è la sua opinione come presentata nella biografia autorizzata Different Every Time a opera di Marcus O’Dair.

To me, fusion jazz was the worst of both worlds. It was rock rhythms, played in a rather effete way, with noodling, very complicated solos on top.

Dal punto di vista umano, le cose vanno ancora peggio. Hopper e Ratledge, al contrario di Wyatt, sono ben poco estroversi, istrionici o disordinati, né tantomeno sono accaniti bevitori; addirittura, sulla traduzione italiana di Wrong Movements, Hopper viene immortalato con una frase ben poco ambigua riferendosi ai motivi che avrebbero portato poi al licenziamento di Wyatt dai Soft Machine.

Robert era il contrario di Mike e me: estroverso, esibizionista, disordinato, incline a parlare per aforismi e a pronunciare frasi a effetto (probabilmente anche Oscar Wilde sarebbe diventato irritante, dopo dieci anni di lavoro gomito a gomito).

Se Volume Two suona quindi ancora come un parto pienamente inserito nella stagione psichedelica britannica non si deve perciò a un’influenza più marcata di Wyatt nel processo di scrittura ed elaborazione del materiale, quanto al fatto che le sedute di registrazione si tengono immediatamente dopo che i Soft Machine sono tornati a essere un gruppo: per dare delle date di riferimento, basti pensare che Hopper raggiunge Wyatt il 21 dicembre 1968, e Volume Two viene registrato tra il febbraio e il marzo del 1969. Per di più, il lavoro sull’album viene portato a termine piuttosto in fretta esclusivamente per adempiere agli obblighi contrattuali con la Probe, visto che i Softs non hanno l’ambizione di rimanere insieme ancora per molto. Anche per questo la Rivmic Melodies scritta dal solo Wyatt negli Stati Uniti viene riadattata quasi integralmente, con la sola cesura delle parti più out there che vengono rimpiazzate con pezzi di jazz rock scritti a sei mani come Hibou, Anemone and Bear e Out of Tunes: ma, di nuovo, non è un caso che di tutta Rivmic Melodies l’unica parte riproposta nei concerti sia proprio Hibou, Anemone and Bear. L’utilizzo di diversi escamotage tecnici e promozionali, infine, potenzia i legami tra il rock più psichedelico e freak e la musica di Volume Two. Ratledge consiglia a Hopper di distorcere il basso come Paul McCartney su Rubber Soul per essere all’altezza del volume sonoro del suo organo Lowrey estremamente distorto, a sua volta ottenuto emulando la chitarra elettrica di Jimi Hendrix; la Probe, invece, suggerisce ai Softs di suddividere le tracce del disco in tanti micro-segmenti ognuno con il proprio titolo demenziale e assurdo, alla maniera di Absolutely Free di Zappa. Ma ad ascoltare Esther’s Nose Job, la composizione di Ratledge che occupa il secondo lato del vinile, già si percepisce tutto il suono dei Soft Machine che verranno: il dissonante interplay tra i mulinelli di organo e le evoluzioni del basso elettrico su Fire Engine Passing with Bells Clanging è già quello che si sentirà in apertura a Facelift su Third, mentre gli arrangiamenti di sassofono tenore e soprano a opera di Brian Hopper già tradiscono l’intenzione di muoversi verso un linguaggio più propriamente jazzistico. Ascoltare l’evoluzione di Esther’s Nose Job nell’arco dei mesi e dei concerti dei Soft Machine, in particolare, è un buon termometro per fotografare i vari istanti del processo di trasformazione in un gruppo jazz: se la versione su Volume Two è ancora a tutti gli effetti un brano di rock psichedelico, per quanto fortemente compromesso con il jazz, sulle Peel Sessions del novembre 1969 cominciano ad apparire diverse escrescenze (come l’assolo di sax contralto sul finale) che lo trasfigureranno poi in quel classico pienamente inserito nel mondo del jazz inglese anni Settanta che si può ascoltare su Backwards (registrato nel maggio 1970, subito dopo la pubblicazione di Third) o ancora meglio su Grides (registrato nell’ottobre 1970). 

La vocazione per il jazz è tale che la scrittura di nuovo materiale è immediatamente castrata dal formato in trio, che si rivela semplicemente inadeguato a sostenere la complessità armonica e timbrica che le parti congeniate da Ratledge, Hopper e Wyatt stanno progressivamente conquistando. Per qualche mese a partire dall’autunno 1969 i Soft Machine diventano un settetto, ampliandosi con un’intera sezione di fiati: Elton Dean al sax contralto, Mark Charig alla cornetta, Nick Evans al trombone, Lyn Dobson al sax tenore/soprano e flauto. Anche qui la scelta dei nuovi elementi è fortemente indicativa di qual è la propensione stilistica naturale della nuova incarnazione dei Softs, visto che sono praticamente tutti membri del gruppo di Keith Tippett. L’esperienza di Charig ed Evans è ancora più tortuosa: per dare un’idea del loro stile poliglotta tra jazz e musica popular, può venire d’aiuto ricordare che nell’arco degli anni Settanta entrambi potranno vantare collaborazioni con i King Crimson (su Lizard e, nel caso di Charig, anche Islands e Red), nel frattempo suonando anche con la Brotherhood of Breath, con John Surman, con la London Jazz Composer’s Orchestra, più tardi anche sui dischi da leader di Louis Moholo. Soltanto quella di Dobson, che invece non proviene dal Keith Tippett Group ed è solo un amico di Evans, è una formazione più propriamente rhythm & blues, avendo lui suonato prevalentemente in band blues rock come quelle di Manfred Mann e Keef Hartley (anche se suona pure con il gruppo di free jazz e improvvisazione radicale The People’s Band): sarà forse per questo che Richard Williams, recensendo sul Melody Maker una performance dei Soft Machine a Croydon nel 1970, individuerà proprio in Dobson l’anello debole dell’ensemble (salvo parzialmente ritrattare commentando la pubblicazione integrale di quello stesso concerto tramite Cuneiform, con il titolo Noisette).

Questa line up è instabile e dura soltanto pochi mesi, visto che i Soft Machine non hanno né le fonti di sostentamento adeguate per sostenere i costi e le attrezzature per sette persone, né tantomeno l’esperienza necessaria per gestire il volume sonoro di un settetto: a dicembre lasciano Evans e Charig, nel marzo 1970 è quindi la volta di Dobson. Rimane però Elton Dean, che in questa fase della carriera dei Soft Machine ha un ruolo predominante nel confermare la nuova direzione stilistica del quartetto – il che, collateralmente, favorisce e sembra confermare la diffusione dell’immagine molto distorta di un gruppo in cui un solo membro, Wyatt, è ostracizzato e messo alle strette dagli altri tre in combutta tra di loro. Sulla biografia Different Every Time, lo stesso Marcus O’Dair si oppone a questa prospettiva molto monodimensionale, e cita una frase di Ratledge che aiuta a inquadrare meglio il rapporto problematico che intercorre tra Wyatt e gli altri membri dei Softs.

Although the so-called conspiracy between Hugh, myself and Elton covered a lot of actual differences between us, we had sufficient similarity to define ourselves against Robert.

Fatto sta che, quando Third viene pubblicato nel giugno del 1970, a testimoniare il passato rock dei Soft Machine e l’impronta che Wyatt ha impresso sulla loro musica c’è la sola Moon in June, che peraltro è stata completamente ultimata più di un anno prima: Facelift è opera di Hopper, mentre Slightly All the Time e Out-Bloody-Rageous sono scritte da Ratledge (con contributi sulla prima da parte di Hopper, che contribuisce con il tema di Noisette che appare sul finale). Il fatto che la critica rock, quasi all’unanimità, consideri Moon in June come il capolavoro di Third non dipende da meriti intrinseci del pezzo – o, viceversa, da vizi degli altri tre – quanto dal fatto che è l’unico pezzo propriamente rock. Oltre a questo, qualche occasionale e superficiale punto di contatto con le frange più sperimentali del genere si possono ancora rintracciare soltanto in Facelift, per via del montaggio di diverse registrazioni live che presentano ancora evidenti segni dell’operazione di saldatura (effetti sonori ben udibili nei punti di giuntura, cambi di umore e sonorità ex abrupto, perfino variazioni rilevanti di fedeltà sonora e volume) che traccia facili parallelismi con robe come Miss Fortune dei Faust, Makeshift Swahili dei This Heat e, soprattutto, la King Kong delle Mothers of Inventions – a questo punto dell’evoluzione del gruppo il riferimento più azzeccato, perlomeno dal lato popular dello spettro musicale. Per il resto, le distorsioni dissonanti dell’organo, l’interplay tanto ispido dei due sax (questi concerti risalgono ai mesi in cui Dobson è ancora nel gruppo) e l’utilizzo di tape loop e manipolazione di nastri sul finale richiamano con decisione certe emanazioni del free jazz di scuola ESP-Disk’ tipo Explosions di Bob James.

Sui due brani a firma di Ratledge, soprattutto, i Soft Machine hanno ormai assorbito la lezione del jazz americano in maniera tanto efficace da apparire come un gruppo di avant-jazz che suona con strumentazione elettrica. L’utilizzo estensivo dell’improvvisazione, l’interazione tra organo, fiati e basso elettrico che reinterpreta i call & response della tradizione afro-americana, l’armonia di stampo modale e la complessa articolazione metrica – con tanto di aksak e sfasamenti ritmici e temporali – avvicinano il modus operandi creativo dei Soft Machine di Third a quello di Miles Davis, John Coltrane e Charles Mingus; d’altra parte, l’inflessione del sax di Dean (particolarmente parkeriana sul contralto, simile a quella di Wayne Shorter invece sul saxello) e dell’organo di Ratledge tradiscono un’influenza delle recenti derive del post-bop e del free jazz. Ratledge in particolare si distingue per il modo in cui reinventa il compito della tastiera nel jazz e nel rock: da un lato, il timbro acidulo del suo organo Lowrey costituisce, insieme al batterismo straripante e pirotecnico di Wyatt, l’elemento più accostabile all’irruenza della musica rock; dall’altro, lo svolgimento torrenziale dei suoi assoli (eseguiti rigorosamente in legato, per celare le ingenti dosi di feedback che l’uso del fuzz provocava tra una nota e l’altra) ha più a che vedere con il pianismo di Cecil Taylor. Del resto, anche il suo approccio ai compiti ritmici, con vamp sull’Hohner pianet alternati a melodie più tenui sul pianoforte, trova un riferimento ben esplicito nel mondo del jazz – ovvero Herbie Hancock. Nell’insieme, è corretto interpretare Third come uno dei primi grandi capolavori della scena jazz britannica: ascoltando le linee del flauto e del clarinetto basso di Jimmy Hastings contrappuntate dal sax contralto su Slightly All the Time, o lo sfondo lacustre dipinto da Dean e dal trombone di Nick Evans sopra il vamping di Ratledge su Out-Bloody-Rageous, viene sinceramente difficile non cogliere le affinità con gli arrangiamenti di una Go West di Harry Beckett o di una Danish Blue di Graham Collier (quest’ultima peraltro completamente acustica, a riprova della comune poetica condivisa nella scena, a prescindere dal tipo di strumentazione adottata).

C’è però da fare un appunto sulla forma delle composizioni di Ratledge e Hopper, che è poi ciò che ancora lega i Soft Machine di Third al mondo del progressive rock: nonostante le lunghe sezioni solistiche improvvisate, entrambi hanno uno stile compositivo basato in maniera fondamentale sulla scrittura delle parti strumentali. La struttura dei loro brani è sempre articolata in diversi segmenti notati su spartito secondo l’uso tradizionale della cultura occidentale, con l’esposizione di melodie prefissate che vengono poi elaborate per il tramite di complessi processi di variazione sul tema e simmetrie interne: è una strategia particolarmente evidente nella struttura ad arco di Out-Bloody-Rageous, dove perfino il mulinello d’organo di matrice rileyana in apertura è un’imitazione retrograda del riff di basso portante. A questo punto della storia del jazz, l’integrazione di sezioni improvvisate all’interno di architetture compositive rigide non è di certo una novità assoluta: pure molti dei riferimenti jazzistici offerti qui sopra per meglio inquadrare la musica dei Softs, come Cecil Taylor, Charles Mingus e Graham Collier, utilizzavano una via ibrida tra composizione e improvvisazione. Ma per Ratledge e Hopper è particolarmente importante la possibilità di annotare e provare la propria musica, e sarà proprio quando i Soft Machine arriveranno a includere musicisti che operano principalmente nell’ambito completamente improvvisato che anche Hopper e Ratledge saranno scontenti della direzione del gruppo. Sulle pagine di Gong, nel 1976, Ratledge avrà modo di essere molto tranchant a riguardo.

I never felt part of that English jazz scene, and the more we included those kind of players in the band, the more difference I felt between me and them, mainly because writing was very important to me, and jazz at the time was very improvised and anti-writing.

Tra le ultime sedute di registrazione di Third e quelle di Fourth passano pochi mesi – quest’ultimo viene inciso integralmente tra l’ottobre e il novembre del 1970, anche se viene pubblicato soltanto a febbraio dell’anno successivo: giusto il tempo che serve a Wyatt per smaltire l’amara delusione maturata con le sessioni per Third suonando in giro per l’Europa con i Whole World di Kevin Ayers e incidendo il suo primo disco solista, The End of an Ear.

Ero così depresso dopo l’incisione di Third. Io mi ero immerso nei pezzi di Mike e Hugh e avevo cercato di dare il massimo, mentre loro odiavano Moon in June, tanto che si erano rifiutati di partecipare alla registrazione e mi era toccato fare tutto io, a parte un breve assolo di organo accompagnato dal basso. Mi sentivo solo ed escluso. 

Anche per questo, Fourth è essenzialmente la prosecuzione naturale del linguaggio sviluppato su Third, diretto con ancora più decisione verso le sonorità del jazz britannico. Lo dimostra anche lo stuolo dei numerosi ospiti presenti per l’occasione: ai soliti Nick Evans, Mark Charig e Jimmy Hastings che già hanno incrociato le vicende dei Softs, si aggiungono Roy Babbington e Alan Skidmore. Il primo è un contrabbassista che lavora già da anni a stretto contatto con l’ala più jazz della scena di Canterbury, avendo suonato con i Delivery di Carol Grimes, con i Just Us di Elton Dean e su Dedicated to You But You Weren’t Listening di Keith Tippett: rimarrà sempre invischiato principalmente con il filone del jazz rock, suonando perlopiù con Soft Machine e Nucleus, ma a partire dagli anni Ottanta si farà anche notare in qualche gruppo di Stan Tracey, il decano del jazz britannico moderno. Il secondo, invece, è un gigante del free jazz inglese: emerso dalla scena blues rock tra le fila dei Bluesbreakers di John Mayall, ha costruito il grosso della sua carriera suonando su dischi incendiari di nomi altrettanto altisonanti della scena avant-jazz britannica come Mike Westbrook, Harry Beckett, Graham Collier e John Surman – per citare solo quelli più ingombranti e importanti. È lui il sax tenore che si contende la scena solistica con il contralto di Dean e con l’organo di Ratledge sulla splendida Teeth, il tour de force di nove minuti con cui i Soft Machine arrivano a sfiorare il massimalismo sonoro da big band cui avevano anelato nella loro incarnazione in settetto, sfoderando una front line composta di doppio sassofono e clarinetto basso e sfruttando la combinazione basso elettrico/contrabbasso nelle frequenze gravi. Alla densità e ricchezza timbrica offerta da una strumentazione così vasta si accompagnano quindi un’impalcatura metrica indecifrabile, giocata tutta su continui squilibri ritmici e su una concezione molto elastica del tempo musicale, e un interplay sfrontato e sofisticatissimo tra i vari musicisti – particolarmente impressionanti sono i fraseggi serpentini all’unisono di fiati e tastiere. Più che mai, la scrittura di Ratledge su questo pezzo è paragonabile a quella di compositori jazz come Mingus o, al solito, Collier, per i loro ensemble allargati: è uno show tra i più complessi e spettacolari mai allestiti dai Softs in tutta la loro discografia. Lo stesso titolo è derivato direttamente dall’imprecazione di sorpresa e sconcerto che, secondo Roy Babbington, gli altri membri del gruppo avrebbero tirato alla prima lettura dello spartito: «Hell’s teeth!».

Per il resto, però, Fourth rappresenta soprattutto la consacrazione delle eccezionali doti come compositore di Hugh Hopper, che firma due brani per oltre metà del minutaggio di tutto l’album. Quello più celebrato, solitamente, è Virtually, che è in effetti anche quello musicalmente più zeppo di avvenimenti e più eclettico stilisticamente: si passa per una dinamica reinterpretazione del post-bop elettrico sulla scia del Miles Davis di Stuff e del Wayne Shorter di Super Nova (Virtually Pt. 1 e 2), si assistono a bizzarre digressioni verso una strampalata forma di jazz da camera d’avanguardia, con parti di contrabbasso suonate con l’archetto, volatili intrecci di sax tenore e contralto, tape loop e acquerelli di piano elettrico (Virtually Pt. 3), e infine si giunge a una ricapitolazione più atmosferica e simil-ambientale dei temi esposti, alla maniera del Davis di In a Silent Way (Virtually Pt. 4). Trovo però leggermente più interessante Kings and Queens: è un brano molto più semplice, dal minutaggio contenuto e giocato per tutta la sua durata sullo stesso groove ritmico scandito da una semplice pulsazione ternaria. La magistrale prova di Wyatt – che, anche da separato in casa, ha continuato a offrire delle prestazioni magnifiche alla batteria fino alla fine della sua storia con i Soft Machine – e le struggenti evoluzioni al saxello di Dean, puntellate da cornetta, trombone e organo, trasfigurano però quello che sembrerebbe essere un jazz rock molto quadrato in una fumosa parentesi di onirica malinconia, avvolta in una fosca luce rossastra. Un brano unico in tutto il repertorio dei Soft Machine. 

Il fatto che Wyatt non partecipi alla fase di scrittura di questo album è stato spesso usato per spiegare una qualche supposta inferiorità di ispirazione e creatività, ma come già detto Wyatt non contribuiva attivamente alla composizione di nuova musica per i Soft Machine da prima che questi si riformassero per pubblicare Volume Two, e a guardare agli esordi del gruppo la situazione non cambia particolarmente, visto che The Soft Machine era principalmente opera di Ayers. Addirittura, se si torna indietro fino ai Wilde Flowers, si nota come la stragrande maggioranza delle composizioni fosse firmata da Hugh Hopper, comprese I Should Have Known, Memories, When I Don’t Want You (divenute tutte parte del primissimo canzoniere dei Soft Machine) e anche Have You Ever Been Green (integrata poi in Rivmic Melodies su Volume Two); i contributi di Wyatt, Ayers e soprattutto Brian Hopper (è sua Hope for Happiness, il brano che apre il debutto) erano invece più sporadici. È lecito non apprezzare per mille motivi la musica dei Soft Machine dopo Third, così come è altrettanto lecito preferire per mille motivi la poetica di Wyatt a quella degli altri membri dei Softs (io – come probabilmente si sarà già notato – ho un debole in particolare per Ratledge); ma che Wyatt fosse il principale o più ispirato artefice della musica dei Soft Machine e che per questo dopo Third la band non sia più stata capace di registrare lavori dello stesso calibro dei primi tre album è semplicemente una falsità, un’invenzione fabbricata da una critica rock ingiustificabilmente ignorante e pigra che vive di cliché rimasticati.

Wyatt abbandona i Soft Machine verso la fine dell’estate del 1971, quando ormai la loro statura come gruppo jazz è stata definitivamente consacrata da un tour americano durato per tre settimane di luglio. Se non viene difficile pensare che un paio di volte abbiano suonato in apertura a Miles Davis in persona, potrà apparire più sorprendente invece scoprire che le prime date del tour tenutesi a New York hanno impressionato nientemeno che Ornette Coleman, che organizza addirittura alcune feste in onore dei Soft Machine – se gradite, qua c’è un minuto di intervista a Elton Dean dove ricorda brevemente il primo incontro con lui. D’altronde l’approccio performativo dei Softs di questo periodo presenta diversi punti di contatto con quello che Coleman sta mostrando più o meno contemporaneamente su dischi come Science Fiction e Broken Shadows: per esempio, entrambi rielaborano nuovo materiale melodico a partire da quello di composizioni precedenti già consolidate nei rispettivi repertori, ed entrambi richiamano i temi principali durante l’atto improvvisativo per offrire un salvagente all’ascoltatore, per permettergli di districarsi al meglio all’interno delle convolute successioni di varie improvvisazioni strumentali. La differenza sostanziale sta ancora nel fatto che Ratledge e Hopper sono innanzitutto compositori prima che improvvisatori, il che si riflette di conseguenza sulla musica dei Soft Machine; ma la situazione prende una piega leggermente diversa negli ultimi mesi del 1971. Come sostituto per Wyatt, Elton Dean propone il batterista del suo quartetto Just Us nonché grande amico Phil Howard, ai tempi in forze anche nel Keith Tippett Group. Lo stile alla batteria di Howard ha molto a che vedere con quello di strumentisti jazz in tutto e per tutto come Tony Williams, per via di una concezione molto libera (e di ispirazione squisitamente afro-americana) della pulsazione ritmica; oltretutto, Howard preferisce suonare sui piatti anziché sul rullante e sui tom come invece faceva Wyatt, il che amplia la gamma di colori e dinamiche del suo suono, contemporaneamente rendendo ulteriormente elastica e implicita la scansione metrica nei brani. Il suo coinvolgimento nel gruppo è anche una strategia di Dean allo scopo di dirottare la musica dei Soft Machine verso il free jazz e l’improvvisazione più radicale: lui stesso descrive la sintonia creativa con Howard con queste parole.

On stage Phil and I would take the music into new areas of freedom, perhaps a bit beyond what Mike and Hugh could handle. Phil wouldn’t exactly play the time signatures as such, they might just be implied, a pulse beneath ever increasing layers of rhythm, an astonishing drummer.

E a giudicare dall’ascolto di Drop, un concerto del 1971 riesumato dagli archivi nel 2009, non si riesce davvero a dargli torto. È un set comprendente, oltre a molti dei brani che finiranno successivamente sul quinto disco dei Soft Machine, anche Slightly All the Time e Out-Bloody-Rageous da Third: l’esplosivo supporto ritmico offerto da Howard, straripante e ossessivo come se il suo unico obiettivo fosse decorare ogni secondo del tempo a sua disposizione con qualsiasi pezzo della batteria, è pienamente in linea con le prestazioni di altri musicisti radicali della scena jazz europea come Han Bennink. Questa magnifica testimonianza della sua straordinaria presenza live è il più grande lascito di questa formazione – o perlomeno, il più grande tra quelli al momento disponibili al pubblico.

Howard fa in tempo a registrare soltanto tre brani in studio con i Softs prima che Hopper e Ratledge, ormai padroni dei Soft Machine, ordinino a Dean di riferirgli che è troppo anarchico per i loro gusti e che non può rimanere con loro. Un atteggiamento antipatico che, oltre alla bocciatura della proposta di Dean, sottintende anche un prepotente diritto di anzianità dei due membri fondatori esercitato senza troppe remore su un collega percepito ancora come “junior”: questo trattamento, unito ai pochissimi soldi che entrano nelle casse dei Softs, convincerà Dean a lasciare i Soft Machine l’anno successivo alla fine delle sessioni di registrazione del nuovo disco. Poco sorprendentemente, in questi tre pezzi – che vengono pubblicati sul lato A di Fifth quando Dean ha già abbandonato il progetto da un paio di mesi – è l’interplay tra Dean e Howard a rubare la scena: in particolare su All White, se non fosse per l’ostinato riff di basso che scandisce il ritmo e per il comping su piano elettrico di un Ratledge insolitamente discreto, si potrebbero scambiare le interazioni tra le evoluzioni free form del sax con la furibonda ragnatela ritmica intessuta dalla batteria per quelle di un Ornette Coleman con Ed Blackwell. Gli altri due brani non sono altrettanto out there, ma il fatto che Ratledge limiti molti dei suoi compiti agli ormai caratteristici turbinii minimalisti, offrendo un assolo soltanto su Drop, la dice lunga su quanto questa formazione corra a due velocità verso il mondo del free jazz di scuola britannica esemplificato da musicisti come Mike Osborne – e su quanto tale svolta metta a disagio sia Ratledge che Hopper.

Per il secondo lato di Fifth, che comunque comprende alcune composizioni già collaudate durante la permanenza di Howard, viene chiamato invece John Marshall, che peraltro è il primo batterista che i Softs avevano considerato come sostituto di Wyatt dopo il suo licenziamento. Come Howard, Marshall ha uno stile più riconoscibilmente jazzistico di Wyatt – avendo maturato esperienza in gruppi come quelli di Graham Collier e di Neil Ardley, nei Nucleus di Ian Carr, nell’orchestra di Mike Westbrook – ma al contempo è molto poco propenso a deviazioni rispetto alle partiture: in questo forse si riconosce la professionalità esercitata in veste di session man per Jack Bruce e Bill Fay. Di conseguenza, la sua presenza avvia un processo di ritorno all’ordine dopo le scorribande avant-garde di Third, Fourth e della line up con Howard, il che porterà i Soft Machine progressivamente ad addolcire la loro musica per tornare a toccare infine le sonorità mansuete della Canterbury più gentile in stile National Health e Hatfield & the North. Dalla Pigling Band che viene incisa su disco ci si potrebbe addirittura aspettare che emerga la voce di Wyatt da un momento all’altro, visto l’andamento giocondo e il passo ritmico enunciato con ordine e chiarezza in pieno stile progressive, con tanto di finale incalzante che sembra voler sfociare nella 10:30 Returns to Bedroom di Volume Two. Quando si confronta questa versione in studio con la controparte live da Drop si rimane sorpresi da quanto l’esecuzione così più astratta e sopra le righe di un singolo elemento – cioè Phil Howard – possa trasformare uno dei brani più soffici del periodo jazz dei Soft Machine in una roba degna di Sunny Murray.

Soltanto a questo punto della loro carriera i Soft Machine entrano davvero in una fase riconoscibile come jazz fusion in senso stretto. Ovviamente, gioca un ruolo fondamentale il fatto che per sostituire un improvvisatore come Elton Dean viene scelto Karl Jenkins, un multistrumentista di educazione classica che ha condiviso molte delle esperienze jazzistiche del batterista John Marshall, tra cui quella nei Nucleus, e che è molto più a suo agio con una musica più dolce e meno nerboruta, caratterizzata da un afflato estetizzante di matrice europea e da una dimensione contemplativa ispirata invece a certe musiche orientali: a voler cercare di fare riferimenti nell’ambito jazzistico si potrebbero nominare Eberhard Weber, Jan Garbarek e diversi musicisti della ECM, ma il fatto è che l’estetica di Jenkins è molto più bianca e accademica. C’entra però anche il fatto che il trio di Ratledge, Jenkins e Marshall è a questo punto allineato alla ricerca di un suono scintillante e magniloquente, molto più composto e ragionato e meno eccentrico – il che, in realtà, sembra essere una direzione condivisa da molti dei nomi storici del jazz inglese del periodo: è evidente il cambio di passo anche nelle discografie di pionieri come Michael Garrick in Troppo (1974) e Graham Collier in Darius (1974), o anche nell’attività di un trombettista come il canadese Kenny Wheeler, che dopo aver partecipato a molti degli esperimenti più esplosivi della scena britannica incide un album pienamente inserito nel filone arcadico del jazz ECM come Gnu High nel 1975.

Il primo vinile di Six, che immortala varie esibizioni in concerto dell’autunno 1972, si muove esattamente in linea con questo Zeitgeist. Prendete questa versione di All White, e confrontatela con l’edizione in studio del disco precedente: il batterismo di Marshall, così più ruvido e materico rispetto a quello di Howard, e il tono dell’oboe di Jenkins, molto più levigato rispetto a quello invece più ispido di Dean, trasformano una caustica sessione di improvvisazione libera in un brano di morigerato progressive/jazz rock; soltanto l’accompagnamento ritmico di Hopper e Ratledge, sostanzialmente uguale a quello su Fifth, aiuta a identificare i due pezzi come esecuzioni diverse della stessa composizione. Su Between ed E.P.V. gli eterei sfarfallii dei sintetizzatori testimoniano una musicalità cauta sempre più vicina alla sobrietà dei Return to Forever, solo occasionalmente irrobustita da qualche versione sbiancata del groove jazz funk di A Tribute to Jack Johnson, o da qualche numero più impetuoso come Riff e Lefty (entrambe, non a caso, dominate dall’organo di Ratledge, anche se scritte da Jenkins). Le composizioni di gran lunga più eccentriche, esotiche e creative sono le quattro che occupano il secondo vinile, che essendo incise in studio non risentono del fatto che nessuno dei musicisti coinvolti è ormai più a suo agio con la dimensione concertistica e improvvisativa. La Soft Weed Factor di Jenkins, in particolare, è un esercizio in minimalismo ostinato nello stile di John Adams completamente affrancato dall’universo jazz; le due composizioni a opera di Ratledge perseguono un’estetica molto simile, ma mantengono ancora la sua caratteristica prospettiva più jazzata all’elaborazione degli arrangiamenti e delle parti di pianoforte. L’unico singulto sperimentale si ode solo con la 1983 di Hugh Hopper, una tetra composizione per organo distorto e tape loop che rappresenta il suo ultimo contributo compositivo alla causa dei Softs prima che la nuova direzione stilistica lo stanchi definitivamente: senza nemmeno una forte amicizia con gli altri membri dei Soft Machine che possa trattenerlo ulteriormente abbandonerà il gruppo nel maggio del 1973, pochi mesi dopo l’uscita nei negozi di Six, per dedicarsi a una carriera solistica per lui più stimolante dove sondare territori inesplorati a cavallo tra avant-rock, musica d’avanguardia per nastri ed elettronica, e jazz.

By 1972 Soft Machine had become a rather ordinary British jazz-rock outfit. Not enough quirks or weirdness! I was very influenced by Uncle Meat and Hot Rats-period Zappa, but that whole jazz-rock territory subsequently became very devalued. For me, the best stuff was a mixture of real weirdness and good writing. Zappa was a great writer. But what you ended up with was lots of good technical players who didn’t have that weirdness that could lift it.

Inutile dire che l’abbandono del penultimo elemento fondatore piegherà, di lì a poco, anche Ratledge stesso.

To be the only original member is horrible: this probably is the main reason for quitting and losing interest in it. When people want to identify you with an entity called Soft Machine and to consider you responsible for what’s happening, your first reaction is to get away.

A conferma dell’alveo culturale in cui si muovono i Soft Machine, e di come stampa e pubblico recepiscono la loro musica, Six si qualifica comunque al primo posto nella classifica degli album jazz inglesi del Jazz Poll redatto da Melody Maker, nel 1973. Un riconoscimento simile toccherà anche a Seven, uscito alla fine dello stesso anno e che si qualificherà terzo nell’omologa classifica nel 1974; ma a questo punto della storia i Softs sono infine giunti al mondo del progressive rock comunemente inteso dopo aver attraversato anni di scorribande tra post-bop elettrico, jazz rock modale e free jazz. Sia Seven che il successivo Bundles del 1975 – l’ultimo che vedrà Ratledge come membro effettivo dei Soft Machine – sembrano anzi molto più rappresentativi di quel tipo di jazz rock soffice e rotondo in stile Caravan e Hatfield & the North con cui solitamente si identifica il suono della scena di Canterbury, il che non è tanto un giudizio di valore quanto piuttosto un’osservazione neutra sull’estetica esibita da questi dischi. Le partiture sono suonate in maniera più precisa e meno ondivaga, il ruolo dell’improvvisazione è ormai marginale, e anche le atmosfere hanno più a che vedere con l’umore pastorale e fatato di una Nine Feet Underground (da In the Land of the Grey and Pink) o di una Six Ate (dall’omonimo dei Camel); soprattutto, però, è la pulsazione metrica dettata dalla base ritmica la vera discriminante che separa l’inflessione riconoscibilmente jazz di album come Third, Fourth e Fifth da quella più ordinata e inquadrata di Seven e Bundles. Se poi aggiungiamo che su quest’ultimo si può addirittura ascoltare la chitarra di Allan Holdsworth, sia elettrica che acustica a dodici corde, le assonanze con il progressive rock – pur filtrate dall’ovvia influenza jazzistica della Mahavishnu Orchestra e di John McLaughlin – aumentano considerevolmente. Per fornire maggiore contesto: è la prima volta che un chitarrista entra tra le fila dei Soft Machine dal 1968. Ai tempi si trattava nientemeno che di Andy Summers dei Police, che si era unito alle date del loro tour americano per un brevissimo periodo prima di venire licenziato malamente da un Ayers irremovibile sulla scelta di non volere chitarre dentro il gruppo. Tempora mutantur.

È soltanto in questi album che i Soft Machine – quelli che sono esistiti da Volume Two in avanti, perlomeno – attuano per davvero un drastico cambio di rotta rispetto al percorso di evoluzione stilistica dimostrato fino a quel momento. Dopo aver rappresentato per diversi anni uno dei fari di punta della scena britannica, dopo essersi perfettamente inseriti nel contesto del jazz inglese e aver suonato musica del tutto paragonabile per creatività ed elaborazione formale ai maggiori jazzisti coevi del Regno Unito – facendo perfino scuola all’interno dell’ambiente – i Soft Machine hanno cominciato a suonare progressive rock compiendo lo stesso errore che Ratledge, nel 1969, imputava a jazzisti come Don Ellis e Gary Burton, quando hanno preso a flirtare con la musica pop e rock.

In a peculiar way they [Don Ellis and Gary Burton] tend to lose something. Whereas pop groups going into jazz don’t. Jazz groups going into pop tend to misconstrue what the actual excitement about pop is. They tend to simplify their structures, but what makes pop is the sound. The excitement of the sound is something- which somebody like Don Ellis hasn’t got, nor Gary Burton. 

Senza l’apporto di Hopper, e con un Ratledge disincantato dal mondo del musicbiz e disinteressato a continuare a scrivere musica dopo l’arrivo nel gruppo di un nuovo musicista capace di assolvere a questo compito (Karl Jenkins), la cifra estetica del gruppo è ormai mutata in qualcosa di molto differente – e, personalmente, anche molto meno interessante. Anche per questo, fatico a riconoscere come parte integrante dell’epopea dei Soft Machine la “fase Jenkins” iniziata con Seven, visto che negli anni è arrivata a produrre anche roba lontanissima dal quid primigenio del gruppo – si parla di cose che vanno oltre il semplice progressive rock privo di guizzi di Softs e pervengono a intere registrazioni di library music e perfino a singoli elettronici di matrice berlinese con ingerenze disco, di cui non me ne può fregare di meno.

Tutto sommato, è anzi quasi un miracolo che i Soft Machine – una band che, a giudicare dalle parole di ogni suo membro, non si è divertita praticamente mai a suonare assieme in tutta la sua storia – sia riuscita a creare tutto questo. In solo una manciata di anni, tra il 1968 e il 1973, i Soft Machine hanno inciso una mole di musica impressionante per quantità e qualità, che comprende non solo i lavori in studio più noti come Third, Fourth e Six, ma anche uno sterminato numero di live d’archivio egualmente fondamentali per capirne la ricerca estetica nell’ambito jazz e improvvisato (come Noisette, Grides, le sessioni per la BBC, Drop). Il loro repertorio costituisce, nel complesso, una delle produzioni artistiche più alte dell’intera stagione jazz britannica degli anni Sessanta e Settanta. A prescindere da tutti i conflitti umani, le divergenze creative, l’insoddisfazione generale, le royalty non ricevute, che hanno fatto da sfondo a ogni momento della loro esistenza.

In the four years when I was in the band, Mike[Ratledge] was unhappy. There was a short period after Elton [Dean] joined when Mike seemed to enjoy playing live with him, but it didn’t last long… He just wasn’t at the right place being in this band. Which doesn’t mean we didn’t play some excellent music together – conflictual situations sometimes generate interesting things.

(Hugh Hopper)

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia