QUINSIN NACHOFF – PIVOTAL ARC
Di Quinsin Nachoff ne avevamo già parlato abbondantemente, quando aveva dato alle stampe con il suo ensemble Flux l’eccellente Path of Totality (che avevamo inserito immediatamente anche nella nostra selezione dei cento dischi degli anni Dieci). Già allora, non si era mancato di rimarcare la forte attrazione che i suoni, le forme, le tecniche e l’estetica della musica accademica contemporanea hanno sempre esercitato sulla creatività del sassofonista canadese, e che anche in quel disco si mostrava dichiaratamente con perfino un lungo omaggio alla Suite per pianoforte giocattolo di John Cage.
Path of Totality rimaneva, comunque, un album di musica essenzialmente jazz, per quanto d’avanguardia e contaminato esso potesse essere. Per il suo nuovo full-length, pubblicato a inizi agosto dalla stessa Whirlwind Recordings che aveva licenziato Path of Totality, Nachoff ha compiuto invece un passo ulteriore, realizzando un album in cui i rapporti di forza tra jazz e classica contemporanea vengono completamente ribaltati – anche se curiosamente Pivotal Arc deve il suo titolo proprio al singolo brano che, per esplicite mire di Quinsin Nachoff, è maggiormente legato a forme più tradizionalmente jazz. («It […] served as a piece on the album that was less musically demanding for the ensemble and had more familiar reference points in terms of harmony, melody and orchestration.») Incastonato alla fine della scaletta, Pivotal Arc è un bellissimo componimento (tutta la musica dell’album, come specifica Nachoff stesso, è «fully notated», anche se in occasione di alcuni assoli strumentali è concessa una certa libertà improvvisativa agli esecutori) di circa un quarto d’ora stilisticamente influenzato dai più importanti esperimenti in ambito di scrittura di musica jazz per orchestra di tutto il Novecento americano. L’influenza delle suite più ambiziose di Duke Ellington è netta e dichiarata, anche se i legami con il Charles Mingus più affascinato dalla musica accademica europea (cfr. Let My Children Hear Music), e perfino con il Wynton Marsalis più grandioso di Blood on the Fields e soprattutto All Rise, non vanno sottovalutati. I riferimenti a quest’ultimo sono probabilmente i più giustificati per via di una certa urgenza espressiva, che nell’opera di Marsalis derivava da un riottoso moto di orgogliosa riappropriazione della storia e della cultura nera afro-americana e che qui invece è dovuta a una profonda preoccupazione per i diversi (ma sempre più o meno apocalittici) scenari cui il cambiamento climatico, e soprattutto l’azione intrapresa collettivamente dall’umanità per affrontarlo, può condurre. Lo stesso titolo Pivotal Arc si riferisce alla criticità del momento e ai possibili cammini che si possono percorrere per fronteggiare una tale crisi.
Anche per questo, lo sviluppo del brano segue una (non perfettamente simmetrica) forma ad arco, i cui estremi sono rappresentati dai due spettrali assoli di basso (suonato con l’archetto) di Mark Helias; nel mezzo, un lungo soliloquio orchestrale, su cui svettano le percussioni di Satoshi Takeishi (che nella prima metà del pezzo impone spesso la propria egemonia sull’ensemble) e il lungo, splendido assolo di sax tenore di Nachoff, sostenuto dagli eccellenti contributi al vibrafono di Michael Davidson.
Per l’oltre restante ora di durata, Pivotal Arc è invece occupata da due esotici esperimenti di scrittura contemporanea venata subliminalmente di suggestioni jazz – nella pronuncia ritmica, negli assoli dei fiati, nelle concessioni all’improvvisazione del singolo. Il meno interessante di questi, nonché quello più apertamente accademico nell’impostazione, è probabilmente il Quartetto per archi, composizione pensata per ed eseguita dal Molinari String Quartet senza nessun altro accompagnamento: ognuno dei quattro movimenti del Quartetto è pensato come una sorta di concerto per uno dei quattro elementi del Molinari String Quartet, ma proprio per questo (o forse per una semplice mancanza di dimestichezza da parte di Nachoff nel gestire le forme del quartetto classico) la scrittura appare poco scorrevole e l’esecuzione algida e austera. Non si tratta di molto più di una marginale aggiunta alla tradizione del quartetto per archi modernista dalla marcata influenza della Seconda Scuola Viennese e di Ruth Crawford Seeger.
Estremamente più interessante è invece il Concerto per violino posto in apertura del disco, che ne rappresenta con ogni probabilità il vertice creativo (per non dire direttamente uno dei vertici della musica del 2020). Concepito a partire dalla fine del 2013, e dedicato alla violinista Nathalie Bonin (violinista dal curriculum prestigioso e nutritissimo, già collaboratrice di Nachoff su Magic Numbers del 2006), è proprio questo concerto – ancor più di Pivotal Arc – a mostrare dettagliatamente la pluralità di linguaggi che Nachoff intende adottare nella sua scrittura, e la naturalezza e l’entusiasmo con cui essi confluiscono l’uno nell’altro. Nell’arco dei tre movimenti del concerto, la cui durata tocca complessivamente i tre quarti d’ora, la poetica di Nachoff abbraccia non soltanto la musica accademica del Novecento (di nuovo la Seconda Scuola Viennese, privata però dell’espressionismo tragico di Schoenberg quanto dell’astrattismo indecifrabile di Webern, ma anche Bartók, Stravinskij e Ligeti) e il jazz di Ellington, ma anche Astor Piazzolla (è una sorta di tango cubista quello che detta le coordinate estetiche del primo movimento, e di conseguenza dell’intero Concerto) e la musica folk europea, in particolar modo quella orientale e balcanica (com’è reso evidente dall’intricato intreccio di ritmi sul terzo movimento).
È una composizione divertita e divertente, che esplora con curiosità tutte le possibilità di una scrittura tanto poliglotta, interpretata con acume e intelligenza da tutti i membri dell’ensemble per tutta la sua durata. Ciononostante, com’è prevedibile che sia, il suo successo si deve prima di tutto alla magistrale prova come solista di Nathalie Bonin. Come rimarca lei stessa, le sue parti per il Concerto sono impegnative sia dal punto di vista squisitamente tecnico, sia per il modo in cui le è richiesto di destreggiarsi tra parti scritte e improvvisate (vedasi la cadenza che collega il secondo al terzo movimento, che utilizza materiale pre-composto come base di partenza per l’assolo del violino); eppure, ancora più dell’incredibile precisione esecutiva, ciò che più impressiona della sua performance sono la disinvoltura e la sensibilità con cui la Bonin interpreta tutte le diverse anime stilistiche e umorali del Concerto. Nelle sue frasi si percepisce nitidamente tanto la musica popolare ungherese rimaneggiata da Béla Bartók, quanto il violino jazz di Ray Nance, quanto il lirismo romantico di Alban Berg: un’esibizione magnifica, che nei dieci minuti del languido secondo movimento trova forse il suo momento più luminoso, e che ascrive il Concerto di Nachoff tra gli episodi salienti di quest’anno. Non perdetevelo assolutamente.