THE NECKS – BLEED

Northern Spy

2024

Ambient, Avant-garde Jazz

La prima volta che ascoltai i Necks ringraziai me stesso di aver sempre rinviato quel momento. Questo non perché la loro fosse musica brutta, anzi, in quel periodo della mia vita colpiva le mie corde particolarmente bene – così bene che partendo da Sex iniziai a macinare la discografia dei tre australiani, fino a ritrovarmi però in un vicolo cieco. Chiariamoci: la timbrica era sempre accattivante e la tecnica cristallina, ma a lungo andare andò per me svanendo quella novità e freschezza che mi aveva colpito; quella commistione straordinariamente sensata che univa il jazz a minimalismo, ripetitività kraut, accenni drone, iniziava a diventare meno allettante dopo ogni disco, pur con tutte le derive ambient e destrutturate che occasionalmente divergevano dalla consueta cifra stilistica (Aether, Vertigo). Non che sia veramente una colpa, d’altronde il trio è in giro dall’87, la fatigue è comprensibile. È che il caso dei Necks è strano, perché è quello di una musica istantaneamente riconoscibile nonostante tutto, cosa normalmente da intendersi come un pregio, ma che in mancanza di rinnovamento o messa in discussione di se stessa rischia di suscitare indifferenza. E anche se non si può dire che questi fattori siano mancati, forse a peccare qui è stata la prolificità del gruppo, quasi eccessivo nel regalarci dischi a cadenza bi/triennale che sembravano segnarne sempre meno incisivamente il cammino.

Da Unfold a Travel, non contando le comunque interessanti collaborazioni con gli Underworld, sono almeno sette anni e quattro album che possiamo sentirci relativamente tranquilli nel parlare di “solito disco dei Necks”. Questi quattro lavori sono tutti pregevoli, a tratti anche molto belli, ma spesso manca loro la scintilla della novità, quella luce che entra dentro facendoti innamorare, o quanto meno alzare il sopracciglio. E forse i nostri, che scemi non sono, se ne sono accorti.

Bleed è in questo senso un disco atipico per il gruppo, e non perché consti di un’unica traccia da quarantadue minuti, aspetto oramai familiare. Piuttosto, la novità sta nella sostituzione della densità sonora tipica del trio con una musica di silenzi, cristallizzata in una stasi generale sulla quale note e strumenti vengono centellinati senza aver paura di lasciarli cadere nel vuoto degli spazi negativi. Se è vero che gli australiani non sono nuovi a divagazioni e avventure fuori porta, inedita è invece una virata così drastica, soprattutto per le sfide che porta con sé sul piano della costruzione dei pezzi (o in questo caso, del pezzo).

Di silenzio in musica si parla da secoli, e il ventaglio di correnti e generi che ne hanno sfruttato le peculiarità è ampiamente percepibile qui dentro: il piano in apertura, a evocare armonicamente un impressionismo scarnificato, lascia progressivamente spazio al fantasma di Morton Feldman, permettendogli di infestare la traccia dopo i primi dieci minuti. Allo stesso modo, ecco spuntare tra le (solite) campane a vento le timide chitarre di Mark Hollis e dei suoi Talk Talk, assieme ad accenni di tastiere e idiofoni che scompongono l’ossessività di Steve Reich e al subdolo avanzare di cavernose percussioni, d’istinto rimandanti ai lavori più ritmici di John Luther Adams. È una musica di frammenti quella di questo album, che riesce controintuitivamente a valorizzare le usuali sonorità acquatiche dei Necks non solo dosandole con il contagocce, ma soprattutto mettendole in contrasto tra loro non avendo paura di farle coesistere con dissonanze e anomalie armoniche. Nei momenti migliori e più ispirati, Bleed ricorda una landa ghiacciata, piatta, sulla quale il più piccolo dei dettagli può risvegliare l’attenzione in maniere inaspettate – le note basse di un pianoforte affogato nel riverbero / una roccia sporgente vista con la coda dell’occhio, un contrabbasso minaccioso che appare dal nulla / l’impronta di un animale che potrebbe essere non lontano da noi. 

I problemi però abbondano, e prevedibilmente si trovano sul lato strutturale. L’impressione generale è che tutte queste istanze sonore siano legate tra loro in maniera davvero troppo flebile, a volte dando l’impressione di essere buttate nella mischia senza un reale motivo a giustificarne la presenza. L’atmosfera ricreata è interessante, ma permane un precario senso di direzionalità, trovante uno sbocco solo negli ultimi tre minuti con il primo vero innesto melodico della traccia, portata finalmente per mano verso una meta dal pianoforte di Chris Abrahams. Leggendo online si nota come sia proprio questo il momento che più viene citato da critica e pubblico, e se da un lato è ragionevole che l’unico tentativo di dare una forma a questo agglomerato sia ciò che maggiormente rimane impresso nell’ascoltatore, dall’altro è preoccupante constatare come i trentanove minuti precedenti restino indietro a guardare senza aver detto molto. Bleed è semplicemente troppo lungo per creare un senso di organicità attorno alle sue trovate. Sarebbero bastati anche solo dieci minuti in meno per delineare un percorso e valorizzare in toto l’azzardo che il trio ha compiuto, ma il fatto che ciò non accada lascia questo lavoro a metà tra lo sfondo e l’attenzione, musica non propriamente ignorabile e al contempo senza il mordente necessario per catturare. 

Nel complesso, accogliamo Bleed nel nostro 2024 con riserve e qualche rimpianto, ma rallegrati dal fatto che i Necks sembrino avere ancora voglia di dire qualcosa, pur balbettando.

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Lorenzo Dell'Anna
Lorenzo Dell'Anna