Non c’è dubbio che ad inizio anni Ottanta, se c’era un posto negli Stati Uniti per assistere in tempo reale agli sconvolgimenti e alle ibridazioni della musica d’avanguardia, quel posto era New York. I lasciti di punk e disco si mescolavano al dub e alle inflessioni tribali sfruttando tutto il campionario degli strumenti elettronici, mentre la club culture giungeva a maturazione dal punto di vista musicale e sociale di pari passo con l’affermazione della figura del DJ e delle tecniche di mixing; nasceva l’hip-hop, il post-punk abbracciava la danzabilità nel punk-funk, la new-wave si destrutturava nel linguaggio ostico della no wave. Figure come Steve Reich, Thurston Moore, John Zorn e Brian Eno erano in contatto continuo tra loro e da questi scambi nasceva una pluralità di linguaggi che sfondava completamente le barriere tra rock, jazz, elettronica e musica classica contemporanea. Quello era il centro di gravità, insomma, e se volete immergervi nelle forze che dal quel brulichio hanno tracciato la via per buona parte della musica fino ad oggi la lettura dello splendido libro di Tim Lawrence, Life and Death on the New York Dance Floor, 1980–1983, più che consigliata è obbligatoria.
Ma non tutti gli artisti dalle idee non convenzionali potevano stare a New York. Man mano che le onde telluriche di ciò che avveniva nella Grande Mela si riverberavano per tutto il territorio, raggiungevano menti ricettive di giovani creativi che, pur animati da impulsi espressivi non allineati, si trovavano intrappolati nella realtà fin troppo allineata delle cittadine rurali e industriali dell’entroterra. Senza una solida scena musicale che ne veicolasse gli intenti, spesso questi musicisti ricorrevano a strumentazioni di fortuna e tecniche non ortodosse per cercare di creare qualcosa che nel loro ambiente semplicemente non esisteva fino a quel momento. Per tutta l’era pre-internet, questa dinamica ha generato un sottobosco fittissimo di uscite autoprodotte o pubblicate da piccole etichette in ancor più piccole tirature, ad opera di una vastissima fauna di sperimentatori e sperimentatrici che abbracciavano la musica elettronica come mezzo d’espressione autosufficiente ed indipendente. Dai cut-up degli anni Ottanta fino alla sterminata produzione di cassette noise dei Novanta, questa corrente è rimasta lontantissima dai riflettori di pubblico e critica ma ha costituito terreno fertile per generazioni di compositrici e smanettatori in termini di connessioni ed ispirazioni.
La Freedom to Spend è un’etichetta discografica (fondata dall’ex Yellow Swans e agitatore sonoro Pete Swanson) che si pone l’obiettivo di dare nuova luce a questa ricchissima produzione periferica ripubblicandone lavori selezionati, da molto tempo ormai assenti dagli scaffali e dalla memoria. Il lodevole intento ha portato nel 2017 alla riedizione di una perla che luccica di un’energia attraente ed enigmatica: Eye Chant, il primo LP di Michele Mercure. Il motivo per cui vale la pena parlarne, oltre al fatto che si tratta di un disco notevole, è che sembra realizzato da un’artista che ha il dono della preveggenza.
“Capacità di prevedere eventi futuri, o i possibili sviluppi di quelli presenti, e di trarre da questa previsione consiglio”: questa la definizione Treccani. In ogni traccia di Eye Chant ci sono elementi che assoceremmo naturalmente ad espressioni musicali avvenute venti o trent’anni dopo la sua composizione, ed è come se Mercure, sapendolo, si fosse divertita a spargerli qua e là per creare un cortocircuito temporale nella mente di chi ascolta. Difficile parlare di influenza diretta, vista la scarsa distribuzione dell’album al momento della pubblicazione; piuttosto sembra che l’artista avesse già tracciato traiettorie preliminari del possibile, qui presenti in nuce ma talmente ricche di potenzialità da riemergere necessariamente e indipendentemente in lavori successivi. In tal senso, la ripubblicazione non è che l’occasione per ricordare quanto profonde possano essere le radici delle idee i cui frutti vediamo (e ascoltiamo) oggi, e questo disco ucronico rimane come testimonianza vivida della forza di un’intuizione.
Il brano più potente nel veicolare questa illusione è 100% Bridal Illusion. Con quel sintetizzatore a replicare tappeti di note d’organo si potrebbe scambiarlo tranquillamente per un pezzo uscito nel 2020, anno in cui questo strumento ha trovato una inattesa quanto evidente centralità all’interno delle sperimentazioni sonore (Kali Malone, certamente, ma anche gli ultimi album di Sarah Davachi e Anna von Hausswolff, oltre all’apparizione di FUJI||||||||||TA); impressione rafforzata dal lavoro di sequencing che non sarebbe fuori posto in un’uscita della Orange Milk Records. Di una modernità impressionante ciò che avviene a metà brano, quando tutto l’impianto precedente si dissolve divorato da percussioni elettroniche programmate per sovrapporsi e tumultuare convulse insieme a sample vocali di voci bambine e femminili decontestualizzati in un’atmosfera algida. Se qualcuno pensa “deconstructed club” non è fuori strada. Loop di tastiere sullo sfondo cercano di erodere il dominio ritmico, ma è solo il sample di un pianto di bambino che apre la strada al ritorno del tema di sintetizzatore, che a questo punto sembra monolitico. Anno di pubblicazione: 1986. Gasp.
Fanno da contraltare alcuni quadretti meno audaci eppure pregni di stimoli, come le visuali new age di The Intruder e soprattutto In The Air, che nel suo alternarsi fluido di pennellate ambientali ed impennate drammatiche ricorda le produzioni giapponesi del periodo, in cui la musica tradizionale si ibridava leggiadra con l’elettronica. La title-track è un gioco contagioso su un singolo sample vocale, ripetuto con un’ossessività di stampo minimalista che per contrasto ricorda le iterazioni vocali decisamente massimaliste che scandiscono le odierne produzioni bubblegam bass. Altra connessione tra questa scaletta e musica dell’era internettiana risiede in Too Much, che è il brano che porta più evidentemente i segni del proprio tempo: il giro di chitarra sul letto di tastiere gonfie e il ritmo cadenzato parlano evidentemente di anni Ottanta. Eppure…la dilatazione del brano senza un vero sviluppo, le bolle plasticose degli interventi elettronici, l’eco ottundente del sample vocale: è un pezzo vaporwave già fatto e finito.
Il brano più peculiare nel contesto del disco è Proteus and the Marlin, un episodio narrativo sospeso tra sussurri e field recordings di costa marina, unico caso in cui la guida vocale non è campionata. Ed è uno spoken word quello in cui si manifesta la voce di Michele Mecure, raccontando la straniante vicenda di una donna che dorme solo con un marlin blu (un tipo di pesce spada) imbalsamato dal giorno in cui il suo compagno si è lanciato da un ponte credendosi il dio greco Proteo. La narrazione è sfilacciata, parassitata da altri sample sovrapposti e finestre sonore, e alla conclusione lascia la scena come in una rappresentazione teatrale ad un solo di tastiera che, unito ai versi dei gabbiani e ai suoni sospesi, compone una impronosticabile coda dalla forte carica emozionale. Sembra un’espressività connessa a doppio filo con quella di certo cantautorato femminile (da Jenny Hval a Julia Holter) affascinato dall’affidare i propri testi meno immediati all’astrazione di lunghe composizioni musicali dai confini incerti.
Ciliegina sulla torta, il brano che più di tutti risente della rivoluzione portata avanti dai Kraftwerk sulle potenzialità espressive delle macchine, si intitola come il disco che il gruppo tedesco pubblicherà nel 2003: Tour de France. Dalla preveggenza alla chiaroveggenza? Sia come sia, riascoltare oggi Eye Chant significa fare esperienza di un lavoro avanti sui tempi, che nonostante il basso profilo del fai-da-te riesce a veicolare con chiarezza intuizioni potenti. Un disco piccino ma dai grandi poteri, che come nella traccia Dream Clock sembra in grado di giocare con le lancette del tempo attraverso incantesimi di sintetizzatori e manopole.
A distanza di un anno, la RVNG Intl. (etichetta madre della Freedom to Spend) fa uscire la compilation Beside Herself, consentendoci di esplorare più a fondo il campionario di stratagemmi elettronici dell’artista. Si tratta di musica recuperata da fonti ancora più oscure, produzioni domestiche fissate su cassette scambiate poi con altri appassionati. Nonostante questo, si può dire che solo le prime tracce risentano del contesto amatoriale mostrandosi come bozzetti di idee più che sperimentazioni direzionate. Nel grosso di questa compilazione d’archivio troviamo un aspetto finora inedito, o comunque poco evidente, di Michele Mercure: la fascinazione per il cut-up e per il dub applicati a ritmiche e atmosfere vicine alle sonorità industriali.
Siamo in una cornice più fosca rispetto alla lucentezza di Eye Chant; poliritmi e bassi scollati si assemblano su pezzi non di rado fangosi, in cui danzabilità fa rima con inquietudine. In questo sembra davvero di trovarsi di fronte a produzioni rimasticate dalla New York dei primi anni ’80, e alcuni brani si trovano in un terreno a metà tra Cabaret Voltaire e i momenti più sample-heavy di My life in The Bush of Ghosts, con l’aggiunta di una curiosità palpabile nel testare combinazioni di fonti sonore e tecniche di assemblaggio. A Void Dance e De Dunk vivono in ambienti malsani e lo-fi, dove i brevi elementi tematici si diffondono in mezzo ai loop come picchi febbrili. An Accident Waiting to Happen è la più diretta filiazione electro-industrial, con il ritmo martellante a richiamare frenate convulse in mezzo a lamette di synth, un ambiente non dissimile da quello di Jam City su Classical Curves (sample di vetri rotti incluso). Dove invece Mercure si avvicina alle alchimie del duo Eno-Byrne è nella title-track e soprattutto in No More Law in Gotham City, che rappresenta la sua personale Mea Culpa con i sample vocali distorti e sovrapposti in primo piano su un ritmo in crescendo; la differenza fondamentale sta nelle tastiere che si sollevano a metà brano e lo trascinano fuori dall’oscurità con la propria chiarezza espressiva.
Già, le tastiere. Sono proprio quelle il legame indissolubile con Eye Chant e il tratto distintivo della sensibilità melodica di Mercure. Le loro sonorità sono colore e inchiostro dei brani, di cui orientano toni e contrasti. Si veda come esempio il perfetto meccanismo di indentature che anima Dinosaur Dancing, di fatto tutta giocata tra diverse sezioni in cui lo strumento viene impiegato con effetti molto diversi (ora una sospensione malinconica tra le note, ora solo turbinante ed effettato). Ma almeno in un episodio Mercure non si limita a sfruttare al meglio le possibilità dello strumento bensì arriva a piegarle al proprio volere: nella bellissima Antigone tasti e campionamenti si fondono indissolubilmente per creare un ambiente marino molto più sofisticato di quello di Proteus and the Marlin, con sciabordii e scrosci acquei che cedono il passo a suoni elettronici di profondità oceaniche prima di dissolversi in un’astrazione senza luce.
Del resto la scaletta non è certo avara di sorprese: c’è la rilassatezza contemplativa di Time Piece, tra folk e progressive electronic pastorale; o il dispiegarsi di un luminoso tema di filigrana orientale su Night Music, a confermare che i sentori asiatici di In the Air non erano affatto casuali. La compilation fa insomma un ottimo lavoro nel mostrare le molte facce di una mente ricettiva agli stimoli del proprio tempo e capace di sintetizzarli in espressioni creative che mantengono la propria forza visionaria anche a distanza di decenni. Un invito ad esplorare con rinnovata curiosità il lavoro di Mercure e soprattutto un promemoria di quanti piccoli tesori ci sono da scoprire tra le note a margine della storia della musica.