ANTELOPER – PINK DOLPHINS
Se avete seguito un po’ da vicino il jazz che piace degli ultimi anni, il nome di Jaimie Branch non vi sarà nuovo: i due episodi di Fly or Die, pubblicati dalla International Anthem nel 2017 e nel 2019 rispettivamente, sono stati ricoperti di elogi ovunque – e per una volta tanto queste lodi sono meritate. Sono entrambi lavori originali e creativi in cui Branch ha coniato una nuova espressione di musica improvvisata ben consapevole di alcune delle declinazioni più estreme e riduzioniste – e, in fin dei conti, meno jazz – del free jazz (d’altronde, ha studiato anche con Axel Dörner, che spesso ha collaborato con gente come Otomo Yoshihide), mantenendo però quelle istanze più nerborute del nu jazz e della “fusion” contemporanea che la International Anthem ha saputo fotografare in questi ultimi anni. E quindi: forti ingerenze elettroniche, passo ritmico urbano mutuato dall’hip hop, umori e timbri cangianti, un approccio in your face che, Branch giura, deriva dal punk. Il tutto perseguendo però una poetica sfilacciata che ha molto del Miles Davis elettrico, tanto nel modo in un certo senso essenziale con cui Branch suona la tromba – sparendo dalle scene per lunghi minuti, dando la possibilità alle note di prendersi il proprio tempo, giocando con silenzi, pause, spazi – quanto nel modo in cui sfrutta tecniche di cut & paste in studio per modificare e riassemblare le proprie improvvisazioni.
Dall’altra parte, Jason Nazary è un nome molto più a uso e consumo degli addetti ai lavori. Qualcuno potrà forse ricordarlo come il batterista degli insopportabili Little Women, o in altre collaborazioni con Darius Jones, o in qualche altro progetto di jazz rumorosissimo, cacofonico, e in definitiva noiosissimo tipo i Bloor – in ogni caso, se non conoscete nulla di questi progetti, non c’è niente che sia particolarmente meritevole di essere recuperato. Il suo principale contributo musicale è da cercarsi negli Anteloper, un progetto in duo varato proprio con Jaimie Branch qualche anno fa. La loro prima testimonianza in studio si è avuta nel 2018 con Kudu, un disco che pur indicando diverse strade perseguibili ancora non sembrava sicuro di quale intraprendere definitivamente. La componente astratta e quella elettronica dei due Fly or Die venivano esacerbate in un suono che sembrava proiettato verso le derive più artistoidi e criptiche dell’EAI, con improvvisazioni disturbate da glitch e beep di varia natura. I momenti interessanti, quando non brillanti, c’erano anche, ma nel complesso il disco si ricorda come un ascolto estenuante e faticoso.
Da allora gli Anteloper hanno fatto uscire un EP (Tour Beats Vol. 1, del 2020), ma è soltanto quest’anno che il duo Branch/Nazary ha dato un effettivo seguito a Kudu, intitolato Pink Dolphins. Le sonorità degli Anteloper si sono fatte ora più eccitanti e materiche, con un utilizzo dell’elettronica che ha adesso molto più a che fare con le produzioni di J Dilla e simili – roba dall’impatto più immediato e tiroso, nonostante i poliritmi impestati e gli accartocciamenti ritmici in cui indulge Nazary. E pure la componente jazz, forse grazie anche alla mano esperta del solito Jeff Parker (che partecipa, oltre che in veste di produttore, suonando chitarra, tastiere e percussioni assortite), si affranca da quell’astrattismo solipsistico in cui sembrava intrappolato Kudu per giungere a un suono caleidoscopico e vitale che, pur lontano dall’essere completamente di facile presa, appare più accessibile e intelligibile. La musica di Pink Dolphins abita la stessa dimensione del Live-Evil – vale a dire: un jazz elettrico dalla sempre pronunciata fisicità, mutuata da un pool di musiche nere che va dal funk al blues al soul, realizzato tramite un maniacale lavoro di collage e manipolazione di improvvisazioni acustiche, che vengono tagliuzzate, spezzate, editate e riassemblate per seguire la visione musicale di Parker. Il paragone con Teo Macero che la stampa continua a ripetere non sarà originalissimo, ma per una volta è effettivamente azzeccato.
Pink Dolphins si dipana quindi in brani di nu jazz elettrico ed elettrizzante che, occasionalmente, non hanno paura di evadere completamente dagli steccati della musica jazz per finire in una sorta di rivisitazione fusion dei primissimi Autechre, tra acquerelli IDM ed evanescenti impressioni psichedeliche. Addirittura, dopo due pezzi come Inia e Delfin Rosado, in cui si respira anche l’influenza dell’Africa Centrale (grazie alla mbira di Chad Taylor), gli Anteloper si mostrano capaci di elargire al proprio pubblico perfino una sorta di ballata soulful futuristica come Earthlings, dove per la prima volta si può apprezzare Branch in veste di cantante: la sua voce parla il vocabolario del blues e dell’r&b nero più tradizionale, ma il loop di quattro battute che fa da scheletro al beat del pezzo, dominato da un fraseggio burrelliano della chitarra di Parker e da un ipnotico giro di basso, sembra trasportare Earthlings in direzione Squarepusher e Amon Tobin. Le tentazioni più sperimentali di Kudu riemergono con prepotenza soltanto nel quarto d’ora conclusivo di One Living Genus, ma a questo punto siamo molto più ben disposti ad abbandonarci al lento accumularsi di loop percussivi e folate di sintetizzatori, aspettando il climax dell’improvvisazione negli assoli di tromba che duettano con le melodie lisergiche delle tastiere.
Ora, Pink Dolphins non è certo un disco che ha ridefinito da zero la sintassi del jazz elettrico e del nu jazz. Ciò nonostante, con questo album gli Anteloper hanno prodotto un lavoro curatissimo e fantasioso dal punto di vista dell’esecuzione, della scelta dei timbri, dell’organizzazione del materiale tematico, capace di offrire delle sonorità con pochi termini di paragone nell’attuale panorama della musica improvvisata. La International Anthem si dimostra ancora una volta etichetta attenta e sensibile alle nuove tendenze della musica nera più contaminata – quelle che, pur lontane dalle derive più modaiole della scena londinese, non hanno paura di compromettersi con i gusti più popolari del proprio pubblico. Quando nel prossimo futuro si guarderà in retrospettiva al jazz di questi anni, la International Anthem ricoprirà un posto d’onore – e la conquista di questo ruolo di prestigio passa anche per lavori come Pink Dolphins.