CONTAINER BELLO

IL PIÙ BEL DISCO JAZZ DEL 2019

QUINSIN NACHOFF’S FLUX – PATH OF TOTALITY

Whirlwind

2019

Avant-Jazz

Di origine canadese ma ormai sistematosi in pianta stabile nella costa est degli Stati Uniti, il sassofonista Quinsin Nachoff è un esempio paradigmatico di compositore che, pur insinuandosi nella scena jazz (in particolar modo in quella avant-garde di New York), si muove in realtà tra una pletora di stili di cui il jazz è soltanto una delle possibili fonti da cui attingere. Nachoff non ha mai tentato di celare in alcun modo la sua passione per i suoni della musica classica contemporanea, fin dal suo esordio registrato per trio jazz e quartetto d’archi (Magic Numbers, Songlines Recordings, 2006) in cui una sintassi essenzialmente post-hard bop (nello stile di Nachoff, che suona sia il sassofono soprano che quello tenore, si odono echi tanto di Sonny Rollins quanto di Wayne Shorter) collideva con la musica da camera europea, coniugando gli esperimenti della scena jazz West Coast degli anni Cinquanta con le orchestrazioni di Ravel e Debussy. Da allora questa doppia sensibilità si è dipanata in diversi lavori su commissione, che andavano da concerti per violino a orchestrazioni per big band, mentre nei suoi dischi emergeva anche un apprezzamento per funk, jazz elettrico e musica rock (vedasi, per esempio, il lavoro con il gruppo FoMo).

SEPARATORE

Dei suoi innumerevoli progetti, i Flux sono uno degli ultimi in ordine cronologico. Varati nel 2016 come quartetto senza basso con un cast d’eccezione (David Binney al sassofono contralto, Matt Mitchell al pianoforte e alle tastiere, e Kenny Wollesen alla batteria e a percussioni di sua invenzione – le Wollesonic percussions, appunto), i Flux si sono recentemente arricchiti di un secondo batterista (Nate Wood) e con questa nuova formazione hanno pubblicato quest’anno il loro secondo album Path of Totality, edito dalla Whirlwind Recordings all’inizio di febbraio. Secondo lo stesso Nachoff, l’ispirazione primigenia per questo nuovo lavoro è provenuta dall’eclissi totale di luna del 2017, che Nachoff ha ammantato di metafore estetiche e politiche («That event became a dramatic, natural metaphor for the band’s evolutionary creative process, plus a reminder (especially amidst current political and environmental discord) of light’s assured emanation from and triumph over transitory darkness.»). Più concretamente, Path of Totality è un profondo studio sull’implementazione di schemi matematici in composizioni dal respiro essenzialmente contemporaneo, nelle quali ai musicisti è conferita la libertà di improvvisare entro un determinato set di parametri determinato a priori. I sei pezzi dell’album – tutti a firma del solo Nachoff – trovano il proprio nucleo in un’idea fondamentale che viene poi scandagliata approfonditamente tramite lunghi assoli e improvvisazioni collettive dai diversi musicisti (quasi ogni brano viene eseguito da una formazione diversa, spesso vedendo la partecipazione di numerosi ospiti): i punti di contatto con l’ultimo capolavoro di Mitchell, A Pouting Grimace, sono molteplici, anche se musicalmente in Path of Totality è molto più connaturata l’influenza della musica colta del Novecento e le sue derive elettroniche e minimaliste.

L’ispirazione per questi nuclei fondamentali può provenire dalle fonti più disparate. Su Bounce, per esempio, il quartetto (Kenny Wollesen non partecipa al pezzo) cerca di riprodurre il moto di una palla che rimbalza, osservato tramite software di analisi matematica (i cui dati sono stati resi in musica anche grazie alla consultazione del fisico Stephen Morris, dell’Università di Toronto). Dapprima i Flux  emulano l’andamento della palla con uno sviluppo ritmico e melodico scomposto che coniuga groove rock a poliritmi urbani influenzati dall’M-base; progressivamente però l’improvvisazione si sfilaccia e viene proiettata in direzioni quasi cosmiche dagli acquerelli elettronici del Prophet 6 di Mitchell, e infine le linee sinuose dei sassofoni si schiantano contro un organo da teatro del 1924 (suonato dall’ospite Jason Barnsley). Orbital Resonances, forse il momento più classicamente jazz di tutto Path of Totality, musica le orbite intersecanti di due pianeti: il doppio intreccio dei due sassofoni e delle due batterie, raccolte intorno al pianoforte che fa da collante, ne mima il moto di rivoluzione. In questi due brani vi è l’evidente influenza del metodo compositivo di Iannis Xenakis, e della sua musica basata su fenomeni fisici e matematici. Sulla splendida Toy Piano Meditation vi è invece una doppia celebrazione dell’opera e del pensiero di John Cage: da un lato, i Flux ripartono direttamente da materiale sonoro proveniente dalla suite per pianoforte giocattolo del compositore americano composta nel 1948; dall’altro, il lavoro di percussioni ad opera di Mark Duggan (qui, come ospite, suona vibrafono, glockenspiel, marimba, crotales e campane tibetane) e l’estatico sviluppo della composizione tramite lente metamorfosi di un tema di cinque note suggeriscono l’influenza del gamelan, omaggiando così la fascinazione di Cage per le filosofie orientali. Nella furiosa e violenta composizione per big band March Macabre il tema è invece squisitamente politico. Al quartetto di Nachoff, Binney, Mitchell e Wollesen si aggiungono questa volta Carl Maraghi (sassofono baritono e clarinetto basso), Dan Urness e Matt Holman (trombe), Ryan Keberle e Alan Ferber (tromboni): le minacciose orchestrazioni dell’ensemble esprimono il senso di agitazione e inquietudine di questi tempi turbolenti, implementando un ampio spettro di timbri grazie all’utilizzo di diversi tipi di tastiere e percussioni (che suggeriscono il passo di marcia imposto da un governo totalitario). Il finale in solitaria di Orlando Hernandéz – dove si sente solo il ritmo delle sue scarpe mentre balla una tap dance – assume infine il significato del trionfo della libertà individuale sulla ferrea rigidità del regime: per Nachoff l’idea vorrebbe forse essere quella di chiudere in una luce ottimista il brano più oscuro del disco, ma all’ascolto il suono dei suoi passi appare più sinistro che luminoso.

Path of Totality è un album eccentrico, straripante di soluzioni, tecniche e arrangiamenti fantasiosi, animato da un umore che non ha molti termini di paragone con altri dischi jazz contemporanei. E se le composizioni sono creative e intellettualmente stimolanti, il merito risiede non solo nell’eccellente scrittura di Quinsin Nachoff, ma anche e soprattutto nell’incredibile interpretazione dei musicisti. Nonostante David Binney si sia ormai affrancato dai principi M-base con cui è emerso oltre venti anni fa dalla scena avant-jazz americana, su questo disco sembra ritornare a quello stile fatto di linee frenetiche e complesse nel solco di Steve Coleman, anche se l’influenza più lirica di Wayne Shorter è sempre profondamente radicata nel suo suono (il commovente assolo che chiude Toy Piano Meditation è particolarmente esemplare in questo senso). In lui, Nachoff trova un partner eccellente: quando non sono impegnati nell’elucubrazione dei loro assoli, i due illustrano i temi – spesso angolari, complessi e intricati ritmicamente, composti di brevi segmenti melodici che si muovono continuamente in out – all’unisono, per poi sfasare leggermente le due voci in modo da creare lieve straniamento nell’ascoltatore. L’interplay tra i due sax, e tra i due sax e la base ritmica, è assolutamente degno di nota.

SEPARATORE

Ma in mezzo a tutto questo, come al solito da quasi dieci anni a questa parte, a rifulgere di luce propria è Matt Mitchell, che su Path of Totality dà ulteriore conferma di essere tra i più innovativi e importanti pianisti del nuovo millennio. Il suo versatile pianismo e la sua sperimentazione continua con timbri e sonorità di diversi strumenti (non solo il Prophet 6, ma anche l’organo a pompa su March Macabre e il clavicembalo, il sintetizzatore modulare e il Novachord su Splatter, dove rievoca il puntillismo di Olivier Messiaen) giocano spesso un ruolo determinante nell’economia dei brani, con vertice indiscutibile nella Toy Piano Meditation dove trasfigura ciò che dovrebbe essere il suo assolo in, di fatto, una vera e propria sonata per pianoforte jazz. Soprattutto, questo disco è l’occasione per Mitchell di mostrare pienamente la sua padronanza di idiomi  esterni al mondo jazzistico – che comunque erano già molto evidenti nei suoi lavori da leader. Per quanto la sua pronuncia ritmica non possa prescindere da giganti come Keith Jarrett, Andrew Hill, Cecil Taylor e Anthony Davis, la sua esecuzione su Path of Totality traccia dei legami ben definiti con i grandi innovatori europei del pianoforte modernista (in particolare con l’opera trascendentale di Kaikhosru Sorabji e con lo stile dissonante e percussivo di Béla Bartók, seppur vi siano echi anche del romanticismo più ardito di Charles-Valentin Alkan e di Ferruccio Busoni) e con l’avanguardia americana (Charles Ives per il poliglottismo, John Cage e soprattutto Morton Feldman per l’uso di dinamiche pianissime e sonorità più sparse). Questo pulviscolo di influenze però non è più (sempre che lo sia mai stato) adeguato a descrivere lo stile di Mitchell: ormai lui suona solo come se stesso, e il suo personalissimo linguaggio si pone come nuova pietra di paragone per i futuri pianisti del panorama avant-garde. La sua performance da sola basterebbe a giustificare l’ascolto di un disco che, in ogni caso, si colloca fin da adesso come uno dei dischi più importanti dell’anno, inserendosi in quel nugolo di lavori dei vari Steve Coleman, Steve Lehman, Rudresh Mahanthappa, Matt Mitchell e Tyshawn Sorey che sta definendo il suono attuale dell’underground sperimentale americano.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia