PAN DAIJING – TISSUES
Pan Daijing è un’artista peculiare, per cui considerare solo la produzione strettamente musicale sarebbe un approccio riduttivo. Più che nelle registrazioni in studio, l’apprezzamento pieno della sua potenza espressiva si può ritrovare nelle performance dal vivo che uniscono danza, musica e video nella definizione di contesti non lineari e, anzi, apertamente confrontazionali in cui l’impatto sui sensi spinge a liberare le emozioni del pubblico e dell’artista stessa. Certo non è facile attraverso un’esperienza mono-mediale come l’ascolto di un disco evocare la potenza dell’intreccio sonoro, recitativo e visuale degli spettacoli. In questo senso la musica di Pan Daijing si è sempre ritrovata in una zona liminale tra due mondi, riproducendo il percorso di un’artista che ha plasmato la propria ispirazione nell’underground delle scene noise di Pechino e San Francisco ma che trova come ambiente elettivo per esprimersi l’intellighenzia upper-class di gallerie d’arte moderna e spazi espositivi. Che fosse in grado di maneggiare con competenza la materia sonora post-industriale era chiaro fin da Sex & Disease del 2015, prima dell’approdo su PAN e del riconoscimento internazionale. Ma limitandosi alla discografia, non era affatto immediato distinguerla dalle tante incarnazioni artistiche che coniugano velleità d’avanguardia e traduzioni quasi accademiche del white noise (inteso come uso del rumore di matrice occidentale): parliamo delle (non poche) produzioni musicali rumorose dal discreto hype che rimangono incastrate in una zona anemica in cui la forza sovversiva dell’agitazione sonora si irrigidisce in strutture semi-concettuali post-moderne, uscendone depotenziata. In bilico tra tentazioni power noise e primitivismo elettroacustico, fino a poco tempo fa la musica ostica di Pan Daijing stava su un filo sottile in cui i punti di interesse rischiavano di essere soffocati nel rumore di fondo. Già l’anno scorso, però, l’artista cinese era riuscita ad esprimere un linguaggio più personale ed intrigante nell’intimismo rumorista di Jade 玉观音 ; ora con Tissues fa un ulteriore passo in avanti in termini di maturità e ambizione, mostrando ulteriori sfumature della propria creatività.
Tissues nasce come la performance più impegnativa a cui Pan Daijing si sia dedicata, un’opera con libretto scritto in cinese antico e moderno in cui collabora con un cast di dodici persone tra danzatrici e cantanti. Il disco che ne prende il nome cerca di trasporre in un’ora di ascolto il nucleo musicale dell’opera, tra strumentazione elettronica e parti vocali. Per quanto detto prima, poteva facilmente trattarsi del caso in cui il divario tra potenza multimediale dello spettacolo e resa in musica sarebbe stato più grande; invece è in grado di dare all’artista tutta un’altra dimensione, grazie al felice incontro tra le maglie più ampie di questa specifica incarnazione espressiva e una piena maturità compositiva. Perché, diciamolo: si possono immaginare e tentare tutti i crossover stilistici del mondo, ma ciò che fa la differenza tra la fuffa e la creatività è la chiarezza d’intenti e la padronanza del metodo. Qui Pan Daijing è in controllo come non mai di tutte le possibilità che la sua musica può offrire. Pur rimanendo nel contesto di un’elettronica dai connotati industriali e dalle frequenze destabilizzanti, riesce a dare una tridimensionalità al proprio lavoro con i sintetizzatori che la aggancia all’influenza dichiarata dei Coil e alla loro potenza esoterica. Quello stile si ritrova qui in un approccio più sparso, che gioca con la ripetizione cercando il sottile piacere della tortura più che l’aggressione aurale: le note e i suoni vengono dilatati e sfilacciati, creando nebulose di particelle taglienti alimentate dalla sottile ma onnipresente energia del rumore. In questo sicuramente l’artista è favorita da una materia che non la vede all’opera su singoli brani ma la proietta su un canovaccio più ampio, che dà continuità e respiro alle sonorità elettroniche. Si può dire che, lavorando di sottrazione, Pan Daijing trova l’espressione più ispirata della desolazione inquieta di cui è ammantata la propria musica.
La componente vocale è invece croce e delizia. È vero che si creano spesso momenti in cui musica e voce si allacciano perfettamente, con la ricorsività pervasiva della prima che esalta il canto alternato tra austerità e giocosità dei fonemi: in A Raving Still non si può rimanere indifferentə a come il pathos della voce si staglia sull’emotività livida dei toni di grigio sonori, mentre in A Tender Accent rimane sempre viva la curiosità di esplorare come l’alternanza di voci (ora gutturali e raccolte, ora guizzanti e sollecite) si muove tra le frequenze elettroniche virulente e decadenti. Altrove, però, sembra che la musica si faccia quasi da parte per lasciare spazio a performance vocali che non riescono a dare la stessa ricchezza di sfumature al proprio ripetersi: così l’espressione si fa ieratica e ci sono momenti di stagnazione all’ascolto, soprattutto in A Found Lament. Ovviamente questa è una interpretazione giocoforza limitata nel ricevere la componente audio separata dall’apparato scenico e narrativo di ciò che accadrebbe sul palco in quel momento e che potrebbe dare un contesto più calzante ai momenti di sospensione e centralità della voce. Anche in questi passaggi (comunque minoritari) non si percepisce però noia, quanto una vaga frustrazione nel sentire il discorso musicale di Pan Daijing con il freno a mano tirato proprio durante la sua incarnazione più compiuta; l’altra faccia della medaglia è la facilità con cui ci si immerge nuovamente nel suo mondo non appena le frequenze tornano ad alzarsi. Alla fine dell’ascolto di Tissues c’è la netta sensazione che da lei ci si possa aspettare ancora di più. Intanto non possiamo che lodare una tensione creativa mai doma che ci ricorda con chiarezza che no, Pan Daijing non è solo parte del mucchio.
“It’s a very long journey, […] you have to practice your craft, you have to be smart, be humble, do a lot of things. It could take years. Maybe one day you get there, but I believe there’s a way to get there, and it is not to change who you are.”
Pan Daijing intervistata alla Red Bull Academy, 2018