SQUID – O MONOLITH
Nel 2021, l’esordio degli Squid è stato per noi uno dei pochi lavori ascrivibili alla scena del nuovo brit-punk inglese che abbia effettivamente meritato le parole e le attenzioni riservategli da stampa e (una certa fetta di) pubblico – tanto da meritarsi una menzione tra i migliori dischi dell’anno secondo noi. In maniera concettualmente non dissimile dal nuovo corso dei black midi – ma armati di uno stile e di una palette timbrica molto diversi – il loro Bright Green Field ha ampliato lo spettro sonoro bazzicato con maggior frequenza dai più prevedibili epigoni del post-punk revival arrivando a coniare una interpretazione più obliqua e progressiva del genere. Per una volta, la musica andava oltre i soliti Wire e Talking Heads traendo ispirazione anche dal post-rock di scuola Tortoise e Moonshake, dal krautrock in stile Can, dall’indie rock più stralunato degli anni Novanta, assorbendone pure gli elementi più curiosi ed esotici – e.g., l’ingerenza ritmica del dub e del funk nelle pulsazioni del basso, le inflessioni jazzy tanto nelle armonie di chitarre quanto nelle parti di batteria, le occasionali folate elettroniche, eccetera eccetera. L’approccio, però, era quello tipicamente British di tutta una scuola di art pop/rock che va dagli XTC e dai Radiohead (forse i riferimenti più ovvi e ingombranti dell’intera operazione) per chiudersi con i These New Puritans di Hidden. Per tutti questi motivi, O Monolith era forse l’unico disco del panorama art/post-punk revival inglese annunciato per il 2023 di cui ci importasse qualcosa: lo spazio di manovra per elaborare e limare la poetica di Bright Green Field era ampio, e nella musica di quel debutto già si scorgevano diverse tracce di un’ulteriore brillantezza non ancora consapevolmente padroneggiata (come sulla bellissima Narrator).
E se c’è una cosa che non si può imputare a O Monolith è proprio il non aver tentato di andare oltre quanto fatto su Bright Green Field, cercando di esplorare alcuni dei molteplici sentieri che si diramavano a partire da quel disco. Che sia per il suo esplicito anelito spirituale, o per l’influenza dell’ambiente più rurale in cui è stato concepito e registrato, è innegabile che O Monolith possieda una natura meno nevrotica e metropolitana rispetto al suo predecessore: su questo secondo album, la musica degli Squid appare più assorta e meno angolosa, taglia i ponti con molti spigoli post-punk della loro musica e si getta caparbiamente in un art rock dalle sonorità più dilatate ed eteree. L’utilizzo di tappeti di sintetizzatori e tastiere, già ampiamente collaudato su Bright Green Field, diventa più preminente; il ruolo dei fiati si fa più decisivo e in primo piano tanto nel delineare la melodia dei brani quanto nell’impostarne l’atmosfera e l’umore, in questo senso espandendo i compiti che già svolgevano su pezzi come Documentary Filmmaker e The Flyover sull’esordio. Da più parti è stata sottolineata una più pervasiva ispirazione di matrice radioheadiana (epoca Kid A e Amnesiac) rispetto all’esordio, e a ragione; ma il percorso evolutivo degli Squid di O Monolith non può nemmeno prescindere da quel filone di rock cameristico, rarefatto e sofisticato, che dai Talk Talk di Spirit of Eden e Laughing Stock passa per i Bark Psychosis e arriva fino ai These New Puritans (questa volta, però, quelli di Field of Reeds). Non c’è bisogno di essere un fine detective per rintracciare questa rete di riferimenti: tra interviste e playlist, gli Squid sono molto trasparenti e onesti a riguardo.
Tuttavia, di O Monolith si possono lodare soltanto le buone intenzioni, perché in questa nuova veste più evanescente e ariosa la musica degli Squid suona molto più anemica e priva di nerbo di quanto non facesse su Bright Green Field. Aggiungendo poi il fatto che la struttura dei brani non è esattamente originalissima – anzi, spesso si appiattisce sui binari più abusati del crescendo-core del nuovo millennio – il risultato è un pugno di pezzi che, quando si allontanano dalle radici più angolari del sound del gruppo, sembrano galleggiare in un limbo sonoro in cui non accade niente di rilevante. Siphon Song è forse quella che più manifestamente si dipana secondo i dettami del post-rock dei primi Duemila e dei Radiohead dello stesso periodo (con tutti i difetti che ne conseguono), visto il suo lento accumularsi di arpeggi di chitarra, cori melensi e turbinii elettronici: non solo il suo sviluppo è frustrante nella sua prevedibilità, ma il decorso del suo spegnimento (lento esattamente quanto lo è stato il raggiungimento del climax) contribuisce a dare la percezione di un brano molto più uneventful di quanto non sia in realtà. After the Flash, invece, parte dapprima come un annacquato duetto vocale tra Ollie Judge e l’ospite Martha Skye Murphy, reggendosi unicamente su un ostinato groove in 5/4; nella seconda metà, separata dalla prima solo da un breve interludio elettronico, la presenza di Murphy viene soppiantata nuovamente dal progressivo addensarsi di una nebula di fiati, idiofoni e arpe, senza che di fatto il pezzo evolva in alcun modo. Soltanto Devil’s Den sembra distinguersi parzialmente in positivo, perlomeno perché la deflagrazione finale esibisce sia una struttura un po’ più elaborata, sia un profluvio timbrico (tanto nella performance vocale, quanto in quella strumentale – in particolar modo per quanto concerne la chitarra) che fa quasi pensare a cosa sarebbe successo se il nuovo corso degli Stabscotch fosse stato perseguito con maggiore criterio e intelligenza. È comunque una cavalcata che dura soltanto un minuto, per di più posta alla fine di una sezione lunga il doppio in cui non si è udito niente se non il solito arpeggio di chitarra in loop e qualche tromba a fare capolino qua e là, occasionalmente quanto timidamente.
Come se non bastasse, anche i numeri più affini al post-punk di matrice Bright Green Field suonano molto più deboli rispetto all’esordio, anche per via di una scelta dei suoni del disco troppo sbilanciata in favore delle tracce più contemplative, nel tentativo di esaltare la rotondità di arrangiamenti tanto stratificati eppure delicati. Forse il più massacrato in questo senso è proprio il singolo di lancio Swing (in a Dream), che si apre con un tema di sintetizzatore in 7/8 che sfuma sul finale in un 6/8: è di fatto una versione vagamente più artsy, influenzata dal jazz rock e dall’art rock inglese, del loro caratteristico suono post-punk, ma i timbri appaiono così slavati e deboli che il pezzo viene percepito come una roba non troppo distante dagli Smile di Thom Yorke. Nonostante tutto, però, è evidente che sia ancora questo lo stile che gli Squid padroneggiano al meglio, e alla fine sono proprio brani come The Blades e The Green Light a svettare sul resto di O Monolith. Rimane tuttavia la netta percezione che il nuovo corso degli Squid sia ancora arenato in una dimensione prettamente sperimentale e piuttosto contraddittoria: magari è una prima prova tecnica per la pubblicazione di un disco più a fuoco, magari è il primo segnale che abbiamo già perso gli Squid. Sicuramente, però, O Monolith non è un lavoro riuscito.