Veniamo da una hate week ben congegnata che ci ha fatto molto divertire, in cui abbiamo dato le paste a qualche mostro sacro e ci siamo inimicati varie persone della nostra fanbase. Casualmente (giuro!) avevamo in cantiere un articolo di una simile tematica per questo 2023 appena passato, stavolta con dischi leggermente meno noti, contemporanei (vero) e un tono meno tagliente (falso). Al contrario dei dischi che abbiamo provato a profanare in due parole recentemente e dei dischi che ci mettiamo appositamente a stroncare sul sito, la maggior parte delle uscite di questo lungo elenco sono album che hanno raggiunto una grande fama, un grande successo (soprattutto sulla websfera) e che non è che siano brutti, ma… meh. Meh sembra una cosa poco interessante, ma rappresenta l’85% della nostra attività da ascoltatori, soprattutto quando siamo focalizzati sulla scoperta e sull’ascolto di album usciti quest’anno: per trovarvi la perla dobbiamo mangiare tanta merda. La cosa che ci stupisce non è quanta di questa merda esca nel corso di un anno, ma quanta venga messa nella teca d’onore di testate, zine, youtuber, influencer di cui siamo colleghi mal sopportati.
In questo articolo non troverete una disamina troppo professionale dei nostri giudizi su molti di questi dischi: non possiamo dedicare la stessa attenzione a tutto quello che esce, ci perderemmo lo studio sulle scelte dell’anno o sui nostri approfondimenti. Quando qualcosa non clicca, semplicemente, lo mettiamo da parte. Quindi non incazzatevi troppo per le mie parole: può essere che io non abbia ascoltato bene. Oppure può essere che i vostri orizzonti non considerino altri dischi che stanno uscendo e sono molto più interessanti. Secondo voi è più funzionale che io riascolti queste uscite finché non trovo un modo per farmele piacere, oppure che voi vi teniate aggiornati su quei lidi che sono un po’ meno battuti e su cui noi, nello specifico, vogliamo gettare il nostro occhio di bue? La domanda è retorica, mi rende anche un po’ antipatico, ma sappiamo tutti che la risposta che balena in mente rinnova l’interesse verso ciò che non conosciamo.
Quindi, wrap up: non offendetevi se nella lista c’è qualcosa che vi piace, il mio è un punto di vista, è spesso istintivo, e comunque i dischi li trovo per lo più passabili. Offendetevi se questo articolo non vi serve a niente.
Ma sono sicuro che non sarà così. Have fun!
Sampha – Lahai
Lahai ha la stessa energy di quel Black Messiah di D’Angelo che uscì nel tardissimo 2014 e fece esplodere internet perché erano tutti alla ricerca di un disco da mettere nelle top dell’anno. Un lavoro pulito pulito a tre strade tra il neo-soul, l’R&B contemporaneo e l’elettronica di alta classe, in cui se vuoi trovarci un senso perché hai fretta e l’hai beccato da Travis Scott non ci metti nulla (prodotto bene, c’è molto gusto, suoni a posto). Se invece, come noi, l’obiettivo è quello di indicare i dischi per cui vale la pena mettersi la cuffia e sgranare gli occhi, è la solita illustre perdita di tempo. Neeeext.
McKinley Dixon – Beloved! Paradise! Jazz!?
Quando un disco si definisce jazz rap ci sono due possibilità: o il gruppo caccia una mina stratosferica (anche con approcci differenti) come i Sélébéyone, i Kill the Vultures, Celestaphone, oppure il gruppo ha scoperto gli ottoni (se va bene) o gli asset strumentali degli anni ‘70 (se va male). Diciamo che inserire Jazz nel titolo è un buon indizio di cosa potrebbe succedere, e per quanto io abbia apprezzato il titolo precedente di Dixon (For My Mama…) devo salutare questo best new album con la solita delusione di chi cercava un disco storico e ha trovato il solito patchwork di soul, basi pulite, un’idea di hip hop post-Kendrick Lamar, un’idea di jazz post-Kamasi Washington. Ci sta, ma è un passo indietro.
Mitski – The Land Is Inhospitable and So Are We
Madonna il successo che ha fatto Mitski quest’anno mi fa rosicare. Ma che dico, Mitski mi fa rosicare da quando esiste: una musicista che ha maturato il suo successo giurando lealtà al canone indie rock di Dead Oceans e che recentemente ha svoltato la sua scrittura potendosi permettere quell’approccio intimista che si possono permettere solo le superstar senza passare per assolute mediocri. Avrei altri argomenti se avessi davanti dischi come Laurel Hell oppure Puberty 2, ma su questa roba mi basta veramente dire che palle. Stessi argomenti di quelli che ho portato nella nostra rece su Weyes Blood, mi rendo conto. Però dai, di Lana del Rey ce ne basta e avanza una.
Tutto ciò che è sotto nick Trhä
Allora, a questo signore messicano ho schiaffato un’insufficienza in un disco del 2022 di black metal atmosferico palloso e scontato come quelli che sento da quando ho cominciato a navigare internet, passatimi da ragazzi tendenzialmente con la pelle bianca, i capelli lunghi, sardi. È passato un annetto da quel voto, molte cose sono cambiate nella mia vita, e questa cartola ha fatto altri diciassette album, che ora sono anche taggati come comfy synth, un genere che esiste solo perché esiste YouTube. Merda, piuttosto che recuperare una discografia che sono sicuro al 100% sia tutta uguale, imparo a fare le ceramiche. Ma scusate, che voglia avete?
Parannoul – After the Magic
Le uscite di questo gruppo shoegaze sudcoreano sono come le leggi di bilancio: nel senso che è un argomento che riesce fuori ogni anno, tutti ne parlano, devi conoscere i loro contenuti se vuoi essere aggiornato sull’attualità, fanno assolutamente schifo, sono assolutamente concentrate su temi obsoleti, iniziative inutili, zero complessità e prospettiva. Soprattutto, sono di una noia mortale, pazzesca. Ma la cosa peggiore è che una parte del Paese pensa che siano state tirate su con competenza e che valga la pena dare fiducia, volta per volta, a chi le ha ultimate.
Ana Frango Elétrico – Me chama de gato que eu sou sua
Ragazzu, ma che dico, folks! Io sono il primo dei primi a voler dare un voto altissimo al disco di una tipa brasiliana con le tigrine che si chiama Me chama de gato que eu sou sua, nel senso, pagatemi e lo faccio. Detto questo: cristo che brutto quando tutta l’energia della MPB viene sublimata in quel pop funk da ascensore monodimensionale e senza alcuna identità. Quella punchiness che trasforma tutto quanto in un noioso corrispettivo musicale dell’andare dal punto A al punto B mi sta sul cazzo già quando i generi mi piacciono – per esempio nel contesto coldwave – ma figuratevi quanti sbadigli quando attorno ci sono quelle atmosfere sognanti, i coretti lush, il margarita, la passione, i sandali. Dai Ana Frango Elétrico sono rimasto a casa per ascoltarti, se volevo godermi la vita andavo direttamente al wine bar nella cui filodiffusione sei destinata a passare.
Caroline Polachek – Desire, I Want to Turn Into You
Hard one perché Polachek è nelle grazie di una fetta molto grande e trasversale di popolazione, dai lettori di Pitchfork a quelli di ResidentAdvisor a quelli di BrooklynVegan (a quanto pare). Vado veloce, quindi. Da divoratore seriale di art pop sono preso molto male con le esplosioni di popolarità di Polachek perché mettono in ombra un universo di performer estremamente più competenti e creative per l’unico motivo di venire da una diva che ha fatto la gavetta con le persone giuste. E in classifica devo trovarmi sta cazzo di Shakira vagamente hyper al posto di tutti quei vari act che fanno da pionieri in campi ben più impegnativi, e che se leggete Livore già conoscete. Operazioni diverse? Certo. All my friends are brainwashed by poptimism? Anche. Quando metto il disco in cuffia mi sembra di sentire i titoli di coda di un film del secondo rinascimento disney? Decisamente.
Carly Rae Jepsen – The Loveliest Time
Quanta grande musica avremmo perso se non avessimo dato una seconda possibilità agli artisti che agli inizi facevano cagare? I Talk Talk? Amo i loro dischi post-rock, ma sinceramente li butterei nel camino se volesse dire smettere di assistere ai miti di rinascita nel circuito intellettuale di gente come Carly Rae Jepsen o Harry Styles. Invece ci teniamo sia i Talk Talk che Carly Rae Jepsen, che dal 2015 è diventata una performer synthpop/dance per tutta la famiglia: la figlia di 15 anni che passa la giornata su TikTok e il papà di 45 anni che passa la giornata su Ondarock. Una situazione imbarazzante per entrambi, che quest’anno si rinnova col solito album da Billboard prodotto benissimo, ma con molte meno idee e molto più piattume di dischi della stessa lega come That! Feels good!. L’ennesima perdita di tempo.
Earl Sweatshirt & the Alchemist – Voir Dire
Sono sicuro che ci siano degli ottimi motivi e delle complesse dinamiche per cui alcuni specifici dischi dei soliti artisti hip hop stra famosi siano acclamati e altri vengano più ignorati, e penso che queste dinamiche abbiano tutte il loro luogo d’elezione nei social, nel modo in cui vengono venduti i dischi, passate le canzoni, un po’ per algoritmo un po’ per rizz. Altrimenti non mi spiego come l’ennesimo disco conscious/abstract (tipicamente drumless) salga agli onori della critica al posto di quello che sta due posti più a sinistra o a destra. Un discorso che vale anche per il nuovo di MIKE, ma che in generale è parte di quel più grande fiume di confusione che ha trattato David nel suo articolo Strade Perdute. Non insisterò oltre, è da Some Rap Songs che Earl Sweatshirt replica il suo successo in modo poco creativo e poco memorabile: anche quest’anno siamo davanti alla stessa cosa.
leroy – Grave Robbing
Allora… ho un rapporto ambivalente con l’EDM più spinta e psicotica, tipicamente mi piace e digerisco – quando non ricerco – le cose più hardcore della zona, ma dobbiamo un attimo fare un passo indietro e ammettere che Grave Robbing, pur avendo bucato la bolla del nightcore e dei mashup trash di certe community terminally online, è un cazzo di cringefest che non ha nulla a che vedere né con le versioni “nobili” del mashcore né con le versioni hard delle varie elettroniche decostruite e gommose dell’ultimo lustro. Sia carne che pesce che verdure, uovo, formaggio, pasta, fragole, pesto, pane: uno schifo che ha trovato spazio su Rateyourmusic solo perché pieno di tag interessanti. A sto punto meglio infognarsi con le novità di Halley Labs.
Lamp – Dusk to Dawn
Un disco soft-rock/city pop di un gruppo giapponese nato vent’anni fa. In un mondo perfetto non avrei bisogno di aggiungere altro, ma siccome il redentore è uno stronzo questo modo sbrigativo di buttare Dusk to Dawn nella spazzatura mi costerà qualche fan. Pazienza.
Sofia Kourtesis – Madres
Sono tanto fan dei grandi nomi della deep house e in linea di massima parto sempre con ottimismo (qui abbiamo parlato benino di Fennec e Atobe, recentemente), ma speravo che il background peruviano di Sofia Kourtesis fosse più presente all’interno del suo debutto, soprattutto in un’epoca in cui l’elettronica latin è su uno dei suoi picchi. Se poi ci aggiungete che la cifra timbrica principale del disco è quel microsound spicciolo alla Four Tet/Jon Hopkins potete capire immediatamente come quello che poteva essere un radioso passo avanti per Ninja Tune mi si è rivelato velocemente come la solita operazione commerciale conservatrice. Ascoltabile, ma che spreco.
KNOWER – Knower Forever
Volevo amare Knower Forever e la sua grandeur con tutto me stesso, ero carico a molla. Leggendo i credits c’erano dei presupposti interessantissimi: chissà cosa si inventano con questa strumentazione, questo approccio, questa estetica! E invece nada, il solito mappazzone di synth/funk/fusion con tutto l’arrangiamento costretto su di un’unica direzione, stratificato e obeso come in un pezzo dei Graham Central Station. Roba che sarebbe fuoco per la soundtrack di un Persona, ma che lasciata a se stesso è un grosso sforzo in una direzione che mi sembra un po’ fine a se stessa e che tra tre o quattro anni potremo tranquillamente lasciare a un’intelligenza artificiale generativa.
Lana Del Rey – Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd
Diciamo che non mi ci vorranno fiumi di parole per giustificare questa mia scelta. Non ci siamo mai cagati di pezza Lana da quando ha fatto il botto nel 2012 con Born to Die, e ai tempi i cool kids erano ancora in diritto di schifarla, adesso invece significa assumere una postura da contrarian. Lana Del Rey ha tantissime colpe, ma nel mare della noia che pubblica ci sono sempre quelle due-tre banger che decontestualizzate sono anche carine. Anche Ocean Blvd ne ha, e la complessità di scrittura è forse al suo massimo storico, ma da qui a decidersi a promuovere il disco passano anni luce, citando un allenatore della palestra di Pewter City. Del resto anche i suoi fan non sono fan della sua musica, perché dovremmo esserlo noi?
Paramore – This Is Why
Il tanto atteso “This Is Why” dei Paramore si rivela un sorprendente cambio di rotta nella loro carriera musicale. Se da un lato l’album mostra una chiara deviazione dai loro tratti distintivi pop-punk, dall’altro riesce a catturare un nuovo pubblico con la sua freschezza e innovazione. Tuttavia, nonostante l’accolto positivo da parte della critica, alcuni fan potrebbero rimanere delusi dalla scomparsa delle radici sonore che li hanno resi celebri. La sperimentazione è sempre una scommessa, e in questo caso, “This Is Why” potrebbe essere un viaggio troppo audace per alcuni seguaci nostalgici.
Il disco proprio non l’ho ascoltato e queste righe le ha scritte ChatGPT, ho di meglio da fare.
(Hey, è meglio di molta roba che leggo sulle testate italiane!)
Pinkpantheress – Heaven Knows
Allora, non voglio dire che trovare il successo su TikTok con un singolo di un minuto e mezzo che plagia la prima Gymnopédie sia una brutta partenza per una carriera musicale, ma mi sa che è una brutta partenza. Non voglio neanche dire che le collab con Lil Uzi Vert, Skrillex, Kelela, Ice Spice qualifichino le ambizioni della ragazza, ma, ecco… Heaven Knows è un po’ una merda, che riesce a piacere agli “addetti ai lavori” giusto perché i brani sono riempiti di drum break che fanno un po’ da revival a una musica che andava vent’anni fa. E, da vera macchina per singoli, non hanno nessuna differenza rilevante l’uno dall’altro. Veramente niente di speciale, almeno per adesso.
Jane Remover – Census Designated
Ah, un disco dream pop/shoegaze/alternative fatto da una persona che sembra una fatina in un fienile del New Jersey, come ho fatto a pensare che fosse una buona idea ascoltarlo? Census Designated sembra riemerso, dragato da quell’epoca in cui noise pop, twee, shoegaze andavano di pari passo in quella che, ancora non lo sapevamo, era una dose letale di aesthetic da mezz* scem*. Come è stato aggiornato al 2023 questo atteggiamento, mi chiederete? Chiedetelo a chi ha messo in classifica Jane Remover, che ho già menzionato in questo articolo sotto moniker leroy, perché a parte qualche wink qui e lì all’hyperpop questo disco sembra tirato fuori da una soffitta che avevamo chiuso con grande soddisfazione più di dieci anni fa.
King Krule – Space Heavy
Emanuele mi chiede di parlare di Space Heavy da quando è uscito, ma io non ci sono riuscito perché ho semplicemente molto poco da dire. Ho apprezzato sia The Ooz e Man Alive!, ma si vede subito come nel suo ultimo lavoro la creatività art di King Krule sia stata fagocitata da qualcosa, che sia una sterzata commerciale richiesta dalla pit crew di Matador oppure una scelta più equilibrata di cosa portare in tavola cambia poco. Il risultato è molto più vicino ad un lento trascinarsi neopsichedelico con qualche occasionale tiramento jazz-punk. Ma siamo tanto distanti dai lavori precedenti, e soprattutto come sapete il britpunk non possiamo proprio più ascoltarlo se i dischi non sono davvero belli. Peccato, speriamo si riprenda.
Zach Bryan – Zach Bryan
Dai ma perché è tornata in voga l’estetica rozza country americana? È ironico? È un dogwhistle dell’alt-right? Cosa vuole da me quest’omone con la sigaretta, perché mi capita nei backlog? Dai, Overtime comincia con il letterale inno degli Stati Uniti prima di passare a una cavalcata da E-street band. Mi sento come se ci fosse un revival di Zucchero in Italia, tipo. Cioè ragazzi, questo è uno che è stato nella U.S. Navy, voi vi sentite le sue lagne. Non lo so, io prima farei almeno un controllino al suo hard disk.
Tinashe – BB/ANG3L
Ennesimo disco di R&B poveretto venato di divismo ed elettronica, stavolta sparato nell’empireo dei saputelli perché la sua produzione è stata gestita in larga parte dal leggendario Machinedrum. Machinedrum che, però, ricordiamo, è da Vapor City che non fa niente di rilevante e che in questo progetto poco differisce dalle indicazioni di quel piatto UK bass che caratterizza il lavoro di Tinashe. Come molti di questi album a metà strada tra il club, la camera da letto e il palazzetto BB/ANG3L può andar bene un singolo alla volta, ma ascoltarlo tutto di seguito è una tortura nonostante duri 20 minuti.
Witch – Zango
È tornato il ZAMROCK, quel genere di rock sintetico fortemente sincopato e psichedelico che andava forte nella Zambia degli anni ‘70. Che è una cosa che ci sta: è sempre piacevole risuscitare determinati generi che erano lettera morta, magari tornano nel circo a tre piste dell’industria musicale e si miscelano con qualcos’altro per creare delle novità. La domanda però è: perché questo disco qualunque dei Witch è diventato uno degli album più chiacchierati dell’anno e il disco più famoso della storia dei Witch (in attività già negli anni ‘70, padri fondatori del genere)? La risposta è che è uno strong 8 di Fantano. Recensione in cui peraltro è riuscito a dire “South African” per riferirsi alla regione sud della Zambia e non all’Africa subequatoriale. Vabbè!
Genesis Owusu – Struggler
Ho apprezzato abbastanza il debutto di Genesis Owusu, Smiling With No Teeth, di cui mi piaceva per lo più la produzione carnosa, l’approccio in da face, la costante ricerca dell’hook, dello staccato d’impatto, il flow aggressivo e allo stesso tempo trascurato. Il cambio di rotta su basi e cantato è stato abbastanza tragico, in verità. Mi devo trovare davanti bordate di synth etereo, drumming post-punk di bottega, coretti dagli anni ‘80, spoken word direttamente dagli Sleaford Mods e dei chorus che sembrano un omaggio ai New Order. Scelte di merda che hanno tolto ogni fascino ad un artista che viveva ancora piuttosto al di fuori di certe caselle, che cazzo però.
Amaarae – Fountain Baby
Ed eccomi qui, a spiegarvi per l’ennesima volta perché i dischi di R&B contemporanea che fanno la classifica mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro. Stavolta è un po’ diverso, però. Amaarae mi è piaciuta nel suo debutto (non minimamente ascoltato online) e la sua attività ha una gravitas tutta diversa dagli altri album alt-pop che ho citato qui: del resto viene dalla trap e ha una penna molto più acuta della classica diva da piscina. Purtroppo questa scrittura tagliente subisce nel corso del disco la fatica mentale di doversi continuamente incastrare in un disegno ballabile, sensuale, e queste due anime non coesistono benissimo, facendo spesso disastrare i brani nell’assurda via di mezzo tra un pezzo di Asake e uno di Rico Nasty. Alla lunga non funziona.
Cartwheel – Hotline TNT
Hotline TNT è il classico disco poco rilevante di cui si parla un po’ ovunque perché è uscito come Best New Music di Pitchfork, un purè di shoegaze, crescendocore, noise pop inizio noughties di cui avremmo fatto così tanto a meno, folks. Nulla togliere agli amanti di questo genere (è comunque… ascoltabile), ma per me è assurdo pensare a dei critici/giornalisti che ascoltano un dischetto di questo genere e dicono: questo va in classifica. Sfido a trovare qualcosa di originale in quello che è semplicemente il debutto di una cover band di una cover band di una cover band dei Dinosaur Jr, con dentro più latte e meno cacao.
Pangaea – Changing Channels
Ero molto contento di ascoltare questo blasonato LP tech house spinto come scelta dell’anno da ResidentAdvisor, venivo peraltro da una piacevole scrittura sul concetto di Pangea in campo elettronico/sperimentale e sentivo delle affinità alla base. Invece, neh… Se siete dei frequentatori di RA sarete consapevoli che i loro critici sono spaventosamente hit or miss, Changing Channels è un grosso miss: anche nel contesto bello squadrato della tech house il producer deve ricorrere a sample che ricordano le prove storicamente peggiori di electro-house e juke. Provate ad arrivare a fine disco, se volete una challenge.
Youth Lagoon – Heaven Is a Junkyard
Devo ammetterlo: Heaven Is a Junkyard è uno dei dischi migliori del californiano Youth Lagoon. Che negli anni è riuscito piano piano a passare dalla noiosissima e informe sfera dream pop di Fat Possum a progetti un po’ più compiuti e contestualizzati. Certo, non mi sarà mai comprensibile come possa un cantautore dedicarsi all’americana, e questi trentaquattro minuti durano quanto I maestri cantori di Norimberga, ma almeno stiamo migliorando.
Yaeji – With a Hammer
Quando ho visto questa versione umanoide di Tinkaton sulla pagina di XL ho immediatamente pensato: oh gawd, ecco uno dei dischi art pop che metterò in classifica a fine anno, non vedo l’ora di vedere che sta succedendo. Quello che stava succedendo nelle officine dell’etichetta era un mediocre mashup di R&B e glitch pop in ritardo di una dozzina d’anni, piatto, banale. Certo, un debutto non può essere sempre di fuoco, ma With a Hammer ha raggiunto un livello di culto che non si merita per nessun motivo al mondo. Boring as fuck.
Julie Byrne – The Greater Wings
Sì, l’ennesima cantautrice americana che veleggia in una produzione tra l’acustico e l’evanescente, voce vellutata, testi poetici, una ottima quantità di ambient pop nascosto nelle pieghe del disco. The Greater Wings è il contrario di uno su un milione, la solita Best New Music spinta da Pitchfork dove alla fine della recensione troneggia un banner con un link alla pagina di Rough Trade e il sospetto slogan: All products featured on Pitchfork are independently selected by our editors. However, when you buy something through our retail links, we may earn an affiliate commission. Non è una cosa che succede in tutte le recensioni. Mi sa che dobbiamo pensar male.
Travis Scott – UTOPIA
Classicamente Travis Scott, tanta gente, tanto rumore, titoli da mastodonte, featuring importantissimi, world tour, un bordello di soldi che girano attorno a ogni singola cosa che riguardi l’artista. Un essere umano sommerso dall’hype che rischia ogni volta di diventare l’erede di Kanye West e tritato da collaborazioni, pressione, problemi. Un miracolo che la sua roba sia semplicemente media e tutto sommato irrilevante, perché personaggi di questo tipo rendono nulle le proprie influenze nefaste sulle generazioni successive. Questo è semplicemente perché non c’è nulla che possa influenzare chi lo ascolta, perché tutto quanto è già stato detto pochi o molti anni prima. Magra consolazione, per noi che ce lo troviamo direttamente in coda su spotify dopo aver ascoltato l’ultimo di Danny Brown.
Olivia Rodrigo – GUTS
Ho ascoltato GUTS di Olivia Rodrigo appena uscito e devo dire che qualche pezzo l’ho anche apprezzato (sono io il colpevole di aver messo Lacy in una delle nostre playlist), ma a un certo punto bisogna anche parlare coi fatti: è un’attrice di high school musical alle prese con i suoi primi anni nella industry e probabilmente già fottuta in un percorso che non la porterà da nessuna parte, così come è stato per tutte le altre persone che ho citato nell’esergo del trafiletto su Jepsen. Accontentiamoci di quei due o tre singoletti che ci hanno fatto sorridere, non avremo altro in futuro.
boygenius – the record
In questo anno piagato dalle peggiori sventure ci serviva proprio il supergruppo formato da Julien Baker, Lucy Dacus e Phoebe Bridgers, le Emerson, Lake & Palmer del sonnellino pomeridiano, del giovedì sera con le nuvole che ti fanno pensare che non vorresti essere lì, delle uova quasi scadute, dei calzini spaiati, in generale della potentissima rottura di cazzo. Non è un mistero perché questo trio abbia avuto il successo che ha avuto, così come non è un mistero perché non dovrebbe averlo avuto. Un lungo giro di parole, privo di sostanza e ispirazione, lo ammetto candidamente. Ma nel dubbio, non perdete il vostro tempo.
Kali Uchis – Red Moon in Venus
Mi rendo perfettamente conto che il nostro drill per distinguere un album neo-soul bello da una merda è considerare il livello di lascivia e morbidezza del sound: più si avvicina alla playlist da notte pirotecnica meno ci piace. Questo è perché siamo degli sfigati stratosferici che nessuno ha abituato all’amore, ma il risultato non cambia: Red Moon in Venus ha una scrittura che spesso riesce ad essere anche interessante, ma una produzione e un cantato che sono a dir poco imbarazzanti nella loro inappellabile smoothness. Quelle idee che potevano sbocciare in contesti meno ammiccanti rimangono mezzo d’espressione per un R&B che è tematicamente fermo agli anni ‘70 e musicalmente confuso. Vi lascio, però, con un piccolo trivia: quella che ha fatto le unghie a Kali Uchis in questa copertina è la stessa che le ha fatte a Björk nella cover di Fossora. Un modo molto acrobatico, ma anche molto simpatico, di alzare il ranking di una nostra vecchia recensione.
Yo La Tengo – This Stupid World
Mettere in classifica un disco degli Yo La Tengo nel 2023 è come mettere in classifica un disco di Iggy Pop nel 2003, se ci pensate Iggy quell’anno pubblicò Skull Ring, che non ascolterò mai, flop di critica, immagino una spazzatura isterica di un pre-vecchio in totale declino. Penso che al grande universo del rock alternativo serva un attimo un esame di coscienza su quanto anziani e delusional si possa apparire da fuori nel momento in cui si continuano a spingere nomi di gente alla diciottesima uscita (sì Jacopo, parlo con te). (Ti auguro il meglio amico mio).
Ho dato molta aria alla bocca, lo so. Se volete contribuire, dire la vostra, darci un punto di vista, soprattutto spiegarci perché sbagliamo (la mia cosa preferita) i canali li conoscete tutti. Buon ultimo mese del 2023 a tutt*!