JULIA HOLTER – SOMETHING IN THE ROOM SHE MOVES
Ricordo ancora quando Julia Holter è apparsa sulle scene una dozzina di anni fa, quasi di soppiatto, con quella doppietta Tragedy / Ekstasis che con una versione sfilacciata e amorfa di cantautorato femminile artsy fortemente contaminato da pretese intellettuali (e il concept sull’Ippolito di Euripide, e gli studi classici, e il porco di dio) ha attirato l’attenzione di buona parte della critica di settore. I riferimenti erano effettivamente poco ortodossi per una esordiente cantautrice degli early 2010s: si spaziava dai Kraftwerk più androidi fino alla Laurie Anderson più futuristica, senza mancare tanto per gradire l’influenza di John Cage strombazzata da mezza stampa all’epoca dell’uscita di Tragedy (soltanto perché la Holter l’ha menzionato in riferimento alle sue prime esperienze poetico-musicali come Cookbook; il fatto che di quel retaggio al momento del debutto ufficiale non fosse rimasto più nulla ovviamente era poco funzionale alla narrazione, e quindi è stato deliberatamente occultato dalle cronache). Tuttavia, anche in questa fase embrionale più avant-garde, la scrittura di Holter è sempre stata molto più lineare ed elementare, quasi prevedibile, di quanto l’adozione di sonorità cibernetiche, atmosfere sparse, mezzi espressivi tipici della sound poetry di Robert Ashley potesse far sembrare a una lettura più superficiale. Holter è, prima di tutto, un’erede della tradizione cantautorale più funambolica e quirky delle varie Kate Bush e Björk, con una discreta fascinazione per un gusto baroque per l’orchestrazione che ripesca pure dal pop rock dei Beatles e dal folk di Judee Sill: la sua dimensione naturale è quella di un cantautorato pop fatto di arrangiamenti densi, linee melodiche morbide, e una preferenza per timbri e atmosfere soffuse, oniriche, degne di una Julee Cruise. Non è un caso che Loud City Song, il lavoro in cui Holter è rimasta più fedele alla propria vocazione, sia ad oggi da considerare il suo miglior disco. (Quando invece ha spinto di più sul lato Weyes Blood della faccenda, su Have You in My Wilderness, Holter ha tirato fuori delle belle coventrizzazioni di coglioni.)
Vista la sua predisposizione a un formato più song-based, la prospettiva di Holter alla musica “sofisticata”, “elaborata” e “sperimentale” – sublimata in ogni suo aspetto su quella mazzata insostenibile di Aviary – è particolarmente goffo, perché abita una terra di nessuno che in un mondo più giusto non dovrebbe trovare i favori di alcun tipo di ascoltatore. Il senso melodico viene disgregato in rivoli di suono che galleggiano nell’etere di arrangiamenti impalpabili, perdendo l’impatto rigoglioso e orecchiabile del pop; ma al contempo la scrittura rimane ancorata su sentieri molto addomesticati, con le sezioni di una normale canzone pop che semplicemente vengono dilatate in lenti crescendo che coinvolgono bordoni, scintillanti tastiere synth pop, dolorosi (per l’ascoltatore) climax di archi e contrabbassi jazz che offrono una versione della musica totale, oltre ogni genere, a uso e consumo di chi oltre al pop rock non ha mai ascoltato altro. È musica poverissima di qualsiasi forma di contenuto, che non colpisce la pancia con qualche hook azzeccato né tantomeno ha nulla di stimolante da offrire dal punto di vista intellettuale – nemmeno una miserevole masturbazione cerebrale del tipo «vediamo verso che territori inesplorati si spingerà a questo punto?», perché nell’opera di Holter, di ricerca, vi è solo l’aspetto più epidermico.
E anche se sarebbe piuttosto scorretto inquadrare il nuovo Something in the Room She Moves come un proseguo del sentiero segnato da Aviary – non lo è – questa natura erratica, priva di direzione, completamente votata all’accumulo stratificato di trovate sonore che pur nella loro stratificazione suonano esili e discrete, è ancora un punto nevralgico dell’estetica di Holter. Secondo le note del press-kit questa volta Holter avrebbe votato le proprie energie a un suono più materico e corporeo rispetto alle velate allucinazioni dei dischi precedenti, ma la realtà è che, cercando di convogliare l’idea di un «world that’s fluid-sounding, waterlike, evoking the body’s internal sound world» la musica di Something in the Room She Moves appare ancora fragilissima: l’album è dedicato alla figlia, nata durante la pandemia, ed è scontato inferire che le scelte di produzione e arrangiamento per questo disco vogliano convogliare l’idea di un ascolto ovattato, filtrato dalla placenta e dal liquido amniotico.
Something in the Room She Moves è l’album di un’autrice che ha deciso di tornare alla direzione più esplicitamente pop di Have You in My Wilderness, ma che è ancora segnata da velleità che si sforzano di apparire artsy a tutti i costi senza poterselo permettere se non in occasionali, sporadiche situazioni. Il più delle volte Holter si limita a danzare sopra questo abisso di mediocrità in cui le melodie sono bloccate in un coito interrotto provocato da tenui arrangiamenti in punta di cazzo e da una scrittura amorfa, resa ulteriormente indigesta da un impianto ritmico così sottinteso e subliminale che spesso rinuncia del tutto a scandire esplicitamente una pulsione metrica, che sembra esistere al solo scopo di occupare la durata di un normale brano pop. Sia in pezzi relativamente barocchi e floridi come Spinning e Evening Mood, sia in numeri più dimessi e ridotti come Materia, Who Brings Me, o il numero progressive electronic di Ocean (con il clarinetto del jazzista Chris Speed che viene dissezionato e manipolato fino a renderne il timbro quasi indistinguibile dai bordoni di tastiere), Something in the Room She Moves procede come una sequenza di eventi sonori assemblati in fila rinunciando a qualsiasi dimensione narrativa, a un filo logico che legittimi questi brani come qualcosa di più di una sfilata di flauti, sassofoni, bassi, tastiere, volteggi vocali assemblati professionalmente. L’unica eccezione a questo modus operandi è il numero a cappella di Meyou, sei minuti di esperimenti vocali per coro di quattro voci che nel deformare in maniera ipnotica la linea melodica principale richiama il precedente illustre di Meredith Monk: un vero peccato che l’effetto novelty si esaurisca in meno della metà della durata.
Il vero punto di forza di Something in the Room She Moves va ricercato soltanto nella cura certosina dei suoni, che nella loro tridimensionalità e rotondità riescono anche a cortocircuitare la realizzazione di essere alle prese con una delle scritture più vacue in ambito art pop, in taluni casi addirittura riuscendo a nobilitare un materiale tanto evanescente. Le più luminose manifestazioni di questo fenomeno si hanno con l’iniziale Sun Girl, con la title track e con Talking to the Whisper, che con il loro felice impasto di legni, sintetizzatori Yamaha CS-60, bassi fretless e contrabbassi che si muovono dalle parti dello sparso jazz-noir di Loud City Song, suggeriscono facili parallelismi con la Joni Mitchell di Hejira, il David Sylvian di Brilliant Trees (ma anche di Tin Drum), pure la dichiarata influenza di Robert Wyatt di Rock Bottom e della Canterbury più dolce. Ma una produzione, un missaggio e un’equalizzazione professionali – pur a questo livello di eccellenza – non possono nascondere la mancanza di carattere e di nerbo di composizioni tanto sciape e inconsistenti: che dispiacere vedere che agli occhi degli addetti ai lavori basta disfare il baricentro melodico di una canzone e utilizzare sapientemente il riverbero per leggere sofisticazione in un fallimentare tentativo di scrivere un disco pop.