VAMPIRE WEEKEND – ONLY GOD WAS ABOVE US
Negli anni della giovinezza (sigh) ho ascoltato spesso Contra dei Vampire Weekend: si tratta di un buon album che, al netto di qualche sdolcinatezza, unisce con successo un certo indie rock nervosetto di ascendenza post-punk (penso ai primi Feelies) con ritmelodie di Centroamerica e Centrafrica e qualche pennellata di elettronica pastosa. È invecchiato piuttosto bene e ancora oggi mantiene inalterato quel senso di leggerezza fresco come una brezza marina, di gioie e sofferenze vissute senza troppi pensieri. Da allora ho perso di vista i Vampire Weekend, così mi è sembrato che il generale plauso riservato a quest’ultimo Only God Was Above Us fosse l’occasione giusta per andare a controllare come stanno oggi.
L’iniziale Ice Cream Piano sembra dirmi: in discreta forma. Le carezze delle parti più lente preparano armonicamente impennate energiche inattese, in un saliscendi di interventi che svettano al momento giusto, con un legame magnetico sugli umori del brano. Purtroppo il resto dell’album si impegna a smentire questa prima impressione, restituendo invece l’idea di un gruppo che fatica a riprodurre la brillantezza d’altri tempi. L’attuale versione dei Vampire Weekend rinuncia in gran parte all’agilità angolare dei ganci melodici e ai profumi d’oltreconfine per abbracciare un barocchismo strumentale, all’occorrenza ricamato di rumore, con cui riempire le strutture dei pezzi. Sulla carta non è necessariamente un brutto piano, ma nella pratica deve fare i conti con un songwriting che cala in ispirazione e si fa prevedibile, schiacciato verso interpretazioni misurate da adult pop sia nell’interpretazione vocale che nei testi. L’onere di smuovere le acque viene allora riversato maggiormente sulle spalle (non particolarmente robuste) dei musicisti, esitando in sovraccarichi evidenti. Si moltiplicano gli assoli, prima rarissimi, come scappatoia forzata a sezioni particolarmente incartate; molte parti di piano e tastiere sembrano andare per proprio conto e suonano distaccate rispetto al resto del gruppo, come se dovessero distrarre dal nucleo del brano invece di contribuire a costruirlo; infine, allo scopo di mantenere una certa espressività quirky, viene preso l’accorgimento di comprimere su toni alti la resa di violini, tastiere e chitarre, con esiti talvolta caricaturali (vedi Capricorn e Gen-X Cops). A Bologna qualche anno fa c’era un musicista ambulante che “suonava” lunghe strisce sottili di metallo e vetro spandendo frequenze taglienti per le vie; ecco, il suono di riferimento sembra il suo.
Una situazione di risorse artistiche abbastanza scarse come questa dovrebbe consigliare di fare economia e concentrarsi sulle intuizioni realmente valide, ma i Vampire Weekend non sono dell’idea e tendono anzi a prolungare pezzi che hanno già detto tutto: Connect e The Surfer, che non sarebbero neanche malaccio, durano cinque minuti ma sembrano non finire mai, con le sezioni finali che rimasticano idee melodiche senza particolare ispirazione. Quando il gruppo non cerca di strafare, l’album restituisce un’anima cantautorale dalle parti di Elliott Smith unita all’ampio respiro dei tardi Beatles e, voglio dire, c’è di peggio al mondo; ma per uno spiacevole contrappasso, sembra che ogni buona idea debba poi essere bilanciata da scelte discutibili. Ad esempio, quanto ci sta bene il contrappunto corale all’inizio di Mary Boone? E perché poi deve essere macellato da un ingombrante ritmo trip-hop che pare uscito da una radio commerciale dei primi anni 2000? Lungo tutto il corso di Only God Was Above Us si percepisce il desiderio (magari autentico) di cogliere l’amalgama tra efficacia pop sbarazzina e consapevolezza colta, ma la produzione gonfia e scivolosa finisce per sgambettarlo più spesso di quanto non lo sostenga; gli altri vizi di forma e contenuto evidenziati fin qui completano il sabotaggio. Non so quanto sia voluto il richiamo a Holiday nel sommesso giro di tastiera su Connect, ma sarebbe un comprensibile sospiro nostalgico di fronte a un qui e ora che permette al disco di chiudersi con la lagna indifendibile di Hope: le ripetute invocazioni ad arrendersi contenute nel debole testo antigovernativo, unite alla stanchezza dei bignami strumentali, suonano ironicamente molto convincenti.
Se mi chiedo perché un disco imbolsito come questo sia stato accolto con grande favore un po’ dappertutto, mi viene da rispondere: per la sua capacità di dare sicurezza. Ascoltandolo si può sognare un mondo dove il futuro ha l’aspetto familiare del passato, il compromesso è un segno di maturità e basta cambiare vestito per stare al passo con i tempi; sensazioni effettivamente piacevoli, prima di risvegliarsi di soprassalto in una stanza buia. Alla fine, la recensione per questo album l’avevano già scritta gli stessi Vampire Weekend anni fa:
When I was seventeen, I had wrists like steel
And I felt complete
And now my body fades behind a brass charade,
And I’m obsolete
[…] But still I crave that sound