In copertina, un collage dell’artwork per Majestic Noise Made in Beautiful Rotten Iran di Sote e di una donna che si taglia i capelli in protesta per la morte di Mahsa Amini e in contrasto con il regime repressivo di Khamenei
Introduzione
Questo articolo è stato ultimato il 27 Novembre 2022, soffre di un inevitabile recentismo e tratta, soprattutto nella sezione finale, di argomenti che oggi sono di attualità, in continuo mutamento. Tutto il materiale è frutto di una ricerca personale su fonti internet, libri, articoli di accademia, interviste, video e registrazioni: purtroppo non siamo un giornale accreditato e non abbiamo né le possibilità di costruire dei reportage né siamo riusciti ad intervistare alcuni dei musicisti che avrebbero potuto darci un colpo d’occhio più ravvicinato a ciò di cui trattiamo.
Fatte le dovute premesse: sulla spinta delle proteste recenti partite da Tehran per la morte della studentessa Mahsa Amini abbiamo deciso di raccogliere in questo longform un bignami della musica persiana moderna, glissando velocemente su tutto il canone tradizionale/classico e concentrandoci sulle scene più interessanti che hanno popolato dal 1979 l’“underground” iraniano, sui loro protagonisti, le loro particolarità e le loro propaggini contemporanee, partendo dal periodo immediatamente prerivoluzionario fino ad arrivare alla scena elettronica sotterranea di Tehran, alla diaspora degli artisti iraniani che si ripete anno dopo anno e al ruolo sociale che sta rivestendo la musica nelle rivolte degli ultimi mesi. A corredo di questa proiezione, tutti i link agli articoli e ai dischi di cui vi parliamo e le nostre pillole di selected discography, che vi possono guidare passo dopo passo ad entrare nelle realtà che vi raccontiamo. Cominciamo.
Prima della rivoluzione islamica
L’Iran ha una storia millenaria, particolarmente complessa, e questo dato si associa bene alla lunghissima tradizione della musica classica persiana, che affonda le sue radici tra il VI e il VII secolo d.C., con testimonianze che risalgono al periodo della dinastia Sasanide. Prima ancora che nel ‘900 la nazione venisse aperta alle ingerenze occidentali la musica classica è stata oggetto di studi, rivisitazioni e cristallizzazioni tramite un folto sistema educazionale che è stato definitivamente standardizzato negli ultimi due secoli. La quadratura di questi stili tradizionali è serratissima: la musica classica persiana si basa su un radif, una collezione di dodici principali categorie modali di scrittura, sette dastgāhs (i modi principali) e cinque āvāzes (i modi secondari), che oltre a dettare l’andamento nell’ambito della teoria musicale impongono anche di trattare in questa o quella categoria determinate tematiche concettuali. Il nucleo tradizionale della musica persiana è largamente accettato e praticato dai vari gruppi etnici che fanno parte dell’attuale Iran ed è facile vedere come la rigorosità del radif abbia contribuito a tracciare una comunanza genetica nella maggior parte dei brani usciti dalla nazione durante le vicende della storia contemporanea: sia che si tratti di musica classica persiana sia che si tratti di canti di protesta o, in altro campo, brani di propaganda per il regime rivoluzionario.
Nel corso del ‘900 l’Iran ha vissuto una serie di doglie storiche non indifferenti, spesso legate a doppio filo con gli avvenimenti che hanno colpito l’Occidente e l’Unione Sovietica. Le prime mutazioni della musica iraniana, i primi sconfinamenti dal canone classico e tradizionale verso sonorità più popolari e leggere sono avvenuti nel corso del regno della dinastia pahlavide, che ha governato autocraticamente sulla nazione dal 1925 fino all’anno della rivoluzione islamica, il 1979. Il mezzo secolo degli shah Pahlavi è stato un periodo drammatico per l’Iran, uno stato che ha avuto in più occasioni dei grandi impulsi verso la democrazia: era così sin dalla rivoluzione costituzionale del 1906, con un passaggio fondamentale nel biennio governato dal democratico Mohammed Mossadeq, poi rovesciato da Stati Uniti e Regno Unito nel corso dell’operazione Ajax del 1953. Oggi siamo abituati a vedere andare spesso a braccetto le istanze autoritarie e un certo arretramento culturale ed economico nelle grande nazioni, ma, nonostante il regime pahlavide si traducesse in un’autocrazia concretamente sostenuta da potenze straniere, l’influsso occidentale ha reso l’Iran aperto, tra gli anni ‘50 e ‘70, ad una grande forma di modernizzazione culturale e sociale – per carità, finita malissimo. Nel campo della musica è a questo cinquantennio che dobbiamo guardare per i musicisti più importanti che l’Iran ha donato alla storia recente: Dariush Eghbali, la splendida Qamar-ol-Moluk Vaziri (prima donna ad aver cantato in pubblico senza indossare un velo, nel 1924!), Mahvash, l’icona pop Googoosh e il Sultan of Jazz, Viguen. Questi sono alcuni dei nomi che hanno puntellato con insistenza il mainstream iraniano nel corso del governo dei Pahlavi. Gli anni ‘60 e ‘70 di Tehran, in particolare, non sono stati poi così dissimili da quelli che abbiamo vissuto in Occidente: la città era un polo globalizzato, molto vicino alle visioni del blocco europeo-statunitense; l’invasione culturale anglofona e l’innovazione in campo radiofonia/televisione cominciavano ad avere delle conseguenze importanti. Già le performance di personaggi illustri come Qamar e Viguen erano chiaramente debitrici tanto del radif e della strumentazione tipica della musica classica persiana quanto dello sprone di matrice occidentale ad alleggerire la propria musica, renderla più orecchiabile. Il doppio filo che legava queste due anime si è notevolmente ispessito nel corso dell’ultimo ventennio della dinastia Pahlavi, con un’interessante avventura nei binari del rock dei grandi musicisti iraniani. È possibile trovare una sfilza di nomi interessanti provenire dalla compilation Pomegranates: Persian Pop, Funk, Folk and Psych of the 60s and 70s, edita nel 2010 per Finders Keepers o ascoltare il folk di Faramarz Aslani o di Pari Zangeneh. Se si ha poco tempo da perdere, d’altra parte, l’elemento più affascinante della generazione prerivoluzionaria è senza dubbio la raccolta Back from the Brink di Kourosh Yaghmaei, una serie di brani registrati tra il 1973 e il 1979 che coprono con sorprendente versatilità e sapienza tutto lo spettro del rock psichedelico: Yaghmaei è stato capace di assemblare una palette di sonorità e dinamiche che prestano gli strumenti della melodia persiana ad una musica che spesso respira come un andante di Morricone e suona come i primi dischi dei Pink Floyd, non a caso uno dei gruppi più ascoltati nell’underground di Tehran.
Nel primo febbraio del 1979, in seguito a numerose rivolte causate dal malgoverno dello shah Mohammad Reza Pahlavi e in particolare dalla Rivoluzione Bianca, Ruhollah Khomeyni sbarcava all’aeroporto di Tehran accolto da migliaia di cittadini festanti di varia ispirazione (marxista, clericale, radicale o genericamente contraria al regime dello shah): era cominciata la Daheye Fajr, la “decade dell’alba”, che segnò gli ultimi dieci giorni della rivoluzione islamica e l’instaurazione del regime dell’Ayatollah come lo conosciamo oggi. Un regime sotto il quale le vicissitudini della musica, insieme con una larga parte dei diritti civili che diamo per scontati, sono ostaggio di un’interpretazione del Corano aspra e, ai nostri occhi, insopportabile.
Soundtrack of the Revolution
Nonostante gli impulsi antiautoritari e democratici che l’Iran ha visto nei decenni facciano della nazione un ottimo esempio della teoria tocquevilliana, la nuova versione sotto Shar’ia della Persia è particolarmente chiusa ed è difficile indagare il campo sondando fonti indipendenti e osservatori affidabili. Tutto ciò che leggerete in questo paragrafo è una mia sinossi di Soundtrack of the Revolution: the Politics of Music in Iran, un testo veramente eccezionale scritto dalla post-doc di Yale Nahid Siamdoust, che invito a recuperare. Siamdoust ha vissuto cinque anni a Tehran per la scrittura del libro e ha raccolto tante testimonianze sullo stato della musica iraniana sotto il regime dell’Ayatollah, trovando il tempo per lanciare un occhio di bue su tanti musicisti che qui sono tutto sommato sconosciuti. Uno dei grandi artisti che ha avuto modo di cavalcare l’ondata insurrezionale della rivoluzione islamica e che è stato pubblicato anche durante gli anni della guerra Iraq-Iran (tra il 1980 e il 1988) è Mohammed-Reza Shajarian, il primo musicista trattato in Soundtrack of the Revolution e uno dei Masters of Persian Music. La storia di Shajarian è molto sfaccettata, negli anni è passato da rivoluzionario a khomeinista, fino ad arrivare alle sue espressioni di solidarietà con l’onda verde iraniana del 2009, che gli sono costate l’esilio dal circuito della musica nazionale. Della voce calda e avvolgente di Shajarian e delle sue versioni nazionalpopolari della musica classica persiana non vanno tralasciati Bidad, Night Silence Desert e soprattutto la sua intensissima versione delle Rabbana (una raccolta di 40 invocazioni del Corano che venivano trasmesse durante il Ramadan).
Nel corso degli anni il rapporto tra il regime rivoluzionario e l’esistenza stessa della musica ha cambiato spesso il proprio volto: a volte la cinghia di controllo verso le pubblicazioni è stata più stretta e altre volte leggermente più lasca, ma giova aprire la sezione con una citazione di un discorso radiofonico di Khomeini mandato in onda all’indomani della rivoluzione, per far capire il livello di sospetto che ha gravato da allora su ogni forma di musica registrata in Iran:
There is no difference between music and opium. Opium brings a sort of apathy and numbness and so does music. If you want your country to be independent, from now on you must transform radio and television into educational instruments – eliminate music.
Queste poche righe, piuttosto dirette, si aggiungono a un compendio di fatwa e leggi temporanee che di fatto rendevano la quasi totalità della musica (ad eccezione di alcuni generi accettabili per il regime) definitivamente haram, proibita secondo la Shar’ia. La storia della musica contemporanea persiana è quindi segnata dagli anni ‘80 da un grandissimo scontro con l’autorità della guida suprema, che nel corso dei decenni (nella figura prima di Khomeini, poi di Khamenei) ha deciso con delle “linee tracciate sulla sabbia” – per usare la metafora di Siamdoust – cosa fosse lecito trasmettere e cosa no. Questo pugno di ferro nei confronti dell’arte più praticata dall’essere umano ha avuto due importanti conseguenze sul piano culturale e sociale, che vale la pena toccare. In primo luogo: è dai tempi della rivoluzione islamica che prosegue una vastissima diaspora di nativi iraniani verso nazioni che possano garantire più libertà e che siano più tolleranti nei confronti dei passatempi haram, diaspora in cui è coinvolta una grande rappresentanza di musicisti, con comunità iraniane come quella losangelina (ribattezzata addirittura Tehrangeles) e quella londinese che sin dagli anni ‘70 fanno un po’ da sponda d’esportazione per lo zeitgeist che arriva poi in seconda battuta a Tehran. In secondo luogo: al di là degli artisti mainstream, apolitici, alleati o acritici del regime dell’Ayatollah, si è creata negli anni una patina culturale solo vagamente tollerata dalle alte cariche iraniane, che passa sotto il nome di underground e che rappresenta tutti quei musicisti che incidono copie senza il placet dei ministeri della cultura persiani. Questi artisti sono spesso così popolari da venire ascoltati più di quei quattro performer in croce che fanno parte del mainstream. Il particolare humus musicale dell’Iran postrivoluzionario viene anche chiamato da Siamdoust aboveground, per la sua duplice natura popolare e sotterranea, una dicitura che ci sentiamo di far nostra.
L’aboveground si è sempre sviluppato in concomitanza con l’assunzione nelle case degli iraniani di nuovi strumenti tecnologici, prima con la tv via cavo che ha concesso di spaziare oltre i canali nazionali, in seguito soprattutto con l’apertura dei canali online, che hanno coperto tutta la Persia di un formicaio di forum, social board e cyber café dove è stato possibile scambiarsi le sensation non-così-sotterranee negli anni in cui il regime è stato più leggero con il circolare della musica haram. Oltre ai download e all’ascolto degli artisti d’oltreoceano (sia che fossero emigrati iraniani sia che fossero Michael Jackson e Madonna), di questi anni (‘90-’00) sono il magazine online TehranAvenue, che teneva concorsi e archivi di brani registrati nell’aboveground iraniano e Zirzamin (che in persiano vuol dire, in effetti, underground): di questi due siti trovate una cache del primo risalente ai primi anni 2000 qui e la versione attuale del secondo qui, oggi un canale instagram/telegram che condivide notizie sull’attuale situazione del Paese all’indomani della morte di Mahsa Amini. In questa macchia culturale sulla tunica della guida suprema si sono mossi i passi del pop/rock iraniano degli anni ‘90 e 2000, particolarmente ispirato dalle ondate del genere provenienti dall’Occidente, con un abbondante decennio di ritardo. I musicisti del pop tehraniano si sono sempre mossi a mezza via tra l’underground e la ricerca disperata della pubblicazione mainstream dai mezzi statali, con una conseguente sclerotizzazione e burocratizzazione del processo creativo, che portava i popsinger ad aspettare anni e modificare i propri lavori dozzine di volte prima di avere un semaforo verde dai ministeri competenti. I nomi più importanti sono sicuramente quelli di Khashayar Etemadi, il primo musicista pop pubblicato in ambito mainstream – e stiamo parlando del 1997 – e quello di Alireza Assar, una star degli anni ‘00 che è riuscita a coniugare il folk da setar persiano con una musica leggera di impostazione che qui definiremmo sanremese (anni ‘60), con tanto di filarmonica all’accompagnamento e fisicata da tenore. Nel campo del rock, genere che non è mai stato digerito dall’Islamic Republic of Iran Broadcasting e in generale giudicato haram e immorale, abbiamo esempi molto più interessanti, spesso dedicati a esperimenti fusion/prog, spesso in contrasto ben più diretto con l’autoritarismo di Khamenei. Delle decine di personalità del rock che popolavano l’aboveground tehranese vale citare gli O-Hum, band fusion di grande ingenuità, ma responsabile del primo live underground di Tehran (nel 2001) e approfondire la grande figura di Mohsen Namjoo, che è stato definito dal Guardian “il Bob Dylan iraniano” e che in realtà è una figura poliedrica tanto nella storia quanto nel prodotto musicale. Namjoo è sempre stato operativo in Iran, per questo non ha mai potuto confrontarsi apertamente con il regime di Khamenei, ma tutte quelle implicature nel discorso musicale e nei testi che sfioravano la critica verso l’autorità – e di cui non si è mai scaricato – hanno fatto sì che il rocker si incontrasse a più riprese con le milizie del basij, arrivando a due passi dal carcere più volte e venendo costretto infine all’esilio nel 2008, in seguito all’uscita di Toranj, il suo album più bello e contestato. Nel corso del disco, infatti, Namjoo si permette di cantare dei passi del Corano senza recitarli, abbastanza per meritarsi la disistima di una larga fetta della popolazione conservatrice. Toranj dalla nostra prospettiva è un disco art/blues rock, con dei bassi rotondi che ricordano il miglior Waters e delle escursioni di fusion assurdista che valgono tutto l’ascolto del disco: provare per credere.
Se per Nahmjoo sono i giorni dell’esilio quelli in cui è finalmente possibile sfogarsi e criticare apertamente il regime (soprattutto nei numerosi live che ha tenuto nelle capitali dell’Occidente), negli anni a cavallo tra i Noughties e i ‘10s l’underground di Tehran ha visto lo sviluppo secco e improbabile di una scena hip hop non molto al passo coi tempi dal punto di vista musicale, ma incredibilmente libera da censure nei confronti del regime rivoluzionario. Il genere si chiama Rap-e Farsi, si attesta su generi specifici (lo street rap, il conscious, il rap d’amore, il rap commerciale e il rap di diaspora) ed è popolato di artisti della terza generazione iraniana, quei ragazzi e quelle ragazze che, nati dopo il ‘79, non conoscono l’Iran prerivoluzionario. Esiste un database incredibilmente aggiornato della scena hip hop iraniana in onda su PARSIHIPHOP, con tanto di classifiche, podcast e diss archive. Di tutta questa larga masnada nata grazie alla diffusione di internet – e finalmente rappresentata anche da musicisti non esiliati o in diaspora – ci sentiamo di consigliarvi Mojaz, un disco hardcore del 2020 inciso dal padrino dell’hip hop persiano, Hichkas e Shayan, un mix di varie hit che hanno fatto parte dell’”old school” di Tehran.
Nel corso del 2009, in seguito alla sospetta vittoria alle elezioni presidenziali di Mahmoud Ahmadinejad (seconda carica dello stato, sempre in coda a Khamenei), l’Iran ha visto l’insorgere di decine di migliaia di persone in sostegno al candidato favorito dall’opinione pubblica, Mir-Hossein Mousavi e con esso la nascita del Movimento Verde iraniano, che si è abbattuto in quei mesi con un’estrema compattezza contro tutto quanto il regime rivoluzionario. Se la rivoluzione verde è stata una call to action importante per molti dei musicisti esiliati o in diaspora (come avevamo citato prima per l’icona nazionale Shajarian), la risposta operata dalla guida suprema e dal basij è stata di un’asprezza tale da far perdere lo slancio della protesta: oggi il bilancio delle perdite del Movimento Verde è a 72 morti, innumerevoli feriti, più di 4000 arresti. Negli anni ‘10, in seguito a questi fatti, la repressione culturale e mediatica del regime rivoluzionario è solo peggiorata, lasciando spazio d’espressione solo a chi è abbastanza bravo da non uscire dall’underground, a chi comprensibilmente fugge verso paesi più accomodanti verso gli artisti che fanno denuncia e a chi decide di sottostare all’interpretazione kafkiana e radicale della Shar’ia dell’Islamic Republic of Iran Broadcasting. Se, quindi, dalla distanza, l’ultimo decennio ha visto un continuo fiorire di artisti di ascendenza iraniana che sono spuntati qui e lì negli happening più hip di tutto il midstream, per chi rimane a Tehran c’è una via privilegiata per lanciare la propria body music di protesta senza essere captati come haram: eliminare i testi, concentrarsi sui suoni.
Zitto e spingi
Stando alle ricerche di Tristan Bath per Bandcamp, l’anno in cui l’underground iraniano dà luce ad una scena elettronica/sperimentale è il 2013, un’annata posteriore alla stretta conseguente alla rivoluzione verde, in cui però è avvenuta l’elezione alla seconda carica dello stato di Hassan Rouhani, un presidente relativamente riformista/centrista, il cui governo ha leggermente allargato le maglie della censura mediatica e artistica interna al Paese. Grazie alla diffusione su larga scala dei nuovi formati di internet, riuscire a produrre musica nel sottoterra di Tehran è diventato sempre più realistico, e le incisioni provenienti dall’Iran si sono poste, con la complicità del nuovo mezzo privilegiato di comunicazione, in grande continuità con le proposte della websfera, con alcune leggerezze ma anche tantissimi spunti sonori unici. È il caso sicuramente di Ata Ebtekar, in arte Sote, dal cui lavoro prendiamo in prestito il titolo di quest’articolo. Ebtekar ha una formazione mista iraniano-statunitense, con doppia cittadinanza e pubblicazioni sotto Warp nel curriculum: dal 2014 è stazionato nuovamente in Iran e da lì fa un po’ da primo cittadino dell’elettronica sperimentale contemporanea. Della sua discografia i lavori più interessanti sono senza dubbio Hardcore Sounds From Tehran, una pigna di techno industriale pubblicata nel 2016, Sacred Horror in Design, che unisce in un disegno terribile la musica tradizionale persiana suonata con setar e santour dai collaboratori e gli svisi elettroacustici di Sote (in un esperimento non dissimile da quello di Takada di quest’anno) e Majestic Noise Made in Beautiful Rotten Iran, sicuramente il lavoro più crudo del terzetto, uno studio massimalista e sintetico di elettronica progressiva, sporca e sincera. Ata Ebtekar è anche il fondatore della virtuosa etichetta Zabte Sote, divisione della Opal che si occupa di promuovere artisti dell’underground sperimentale iraniano: di tutto il roster Zabte Sote vale la pena citare almeno i lavori di Pouya Ehsaei e l’eccellente raccolta Girih, che fa la somma di tutti gli artisti di sound art persiana che sono riusciti a farsi spazio alla corte di Sote. Ascolto obbligatorio.
Un altro degli artisti che è sicuramente riuscito a bucare la bolla dell’underground persiano arrivando fino agli altari di Pitchfork e The Wire è Siavash Amini, attivo online dal 2014 e persino curatore di un festival di arte sperimentale a Tehran, il SETFest. Amini pubblica per Opal e Hallow Ground e tende spesso a perdersi nei meandri di quel drone poco dinamico di cui ne hai sentito un disco e sei a posto. La sua discografia è bella carica: noi vi consigliamo a limitarvi al disco uscito questo settembre, Songs for Sad Poets, e al suo predecessore del 2020, All Lanes of Lilac Evening, entrambi molto interessanti e con palette sonore molto diverse (Songs è il to-go se cercate una dark ambient rumorosa e deprimente, Lilac spinge su frequenze più gentili e presenta dinamiche più lussuose). Siavash Amini è anche stato patron di una grande compilation del 2016 che ha raccolto vari act della musica sperimentale iraniana, Absence: un ottima introduzione per chi non si vuole limitare ai musicisti che sono arrivati alle orecchie occidentali ed è interessato a scavare ancora più a fondo tra gli artisti dell’underground iraniano.
Vale la pena citare anche: il lavoro di Nesa Azadikhah, una DJ con le mani in pasta nelle destinazioni più morbide della tech house, di cui consigliamo di ascoltare la soundtrack composta per Iran#Nofilter, una webserie dedicata ai fotografi che nel corso degli anni ‘10 hanno catturato su camera le difficoltà della più giovane generazione di cittadini iraniani; i field recordings misterici di Saba Alizadeh, figlio di uno dei Masters of Persian Music, che nel 2019 è arrivato online con Scattered Memories e ha avuto un importante seguito tutt’ora attivo. Ultimi ma non ultimi, tra le realtà che hanno spinto l’underground elettronico iraniano dall’interno è d’obbligo dare l’onore delle armi alla Kopi Records, che dal 2016 spara uscite di techno sperimentale di ottima fattura (in particolare i lavori di ArtSaves) e la realtà di DeephouseTehran, sito di podcast, recensioni e rec con una qualità media sicuramente più bassa, ma con una presa sull’aboveground iraniano molto più solida. Trovate la maggior parte delle news sulla loro pagina Instagram, attualmente impegnata a sostenere le rivolte.
È dai tempi della rivoluzione islamica che fuori dai confini persiani una folta comunità di musicisti e più genericamente cittadini iraniani è in diaspora nelle grandi città dell’Occidente. Gli esperimenti di commistione di chi riesce ad emigrare dall’Iran sono tra i più esaltanti a livello meramente musicale, a testimoniare quanto una volta abbandonate le catene della repressione molti degli artisti che provengono dall’Iran incoraggiano dei moti creativi che solo raramente troviamo in chi non si porta dietro quel bagaglio culturale e quelle cicatrici. La performer olandese-iraniana Sevdaliza è forse l’esempio più famoso (nella nostra nicchia) in tempi recenti: prima per Ison (2017) e poi soprattutto per Shabrang (2020), una bomba di trip hop torbido, perfettamente allineato con le più grandi personalità dell’art pop contemporaneo e consigliatissimo dalla nostra redazione – probabilmente uno dei lavori più affascinanti e di facile accesso citati in questo articolo. Sevdaliza è ampiamente coperta da tutte le testate più blasonate e popular della stampa musicale, quindi ne avrete certamente sentito parlare – e per questo motivo è una delle prime artiste raggiunte dai giornali in tempi recenti per un commento ai fatti dell’attualità persiana: trovate una buona intervista a questo riguardo sulle pagine di Billboard.
La sfera dell’elettronica alternativa, dell’IDM, del glitch, è particolarmente esplorata dai musicisti che sono emigrati da Tehran negli ultimi anni: un esempio è il duo 9T Antiope, attualmente stanziato a Parigi, che incide dal 2014 una musica astratta, compilata tra l’ambient pop più glitchy e i suoi filamenti elettroacustici. Isthmus era uno dei dischi individuati da Tristan Bath sul suo Bandcamp Daily, e in effetti è molto interessante: una surreale architettura sonora in quattro portate dal dinamismo sorprendente, eclettico e saporito. Se aprite con Isthmus e siete interessati alle acrobazie dei 9T Antiope vi consigliamo di approfondire con gli altri due dischi della trilogia, Nocebo e Placebo, due prodotti densi, macabri, che tradiscono la provenienza del duo ammiccando dalla Francia ai lavori di Sote e di Absence. Passando dall’altro lato della Manica: Londra ospita una vibrante comunità iraniana, dalla quale emerge con prepotenza la figura di Ashkan Kooshanejad, in musica Ash Koosha, un artista multidisciplinare e jack of all trades nel campo delle tecnologie innovative: è il CEO di Auxuman e Oorbit, compagnie tech che rispettivamente si occupano di creare musicisti virtuali con l’intelligenza artificiale e costruire infrastrutture in cloud computing per progetti di metaverso. È anche, insieme ai compagni della sua ex band Take It Easy Hospital, uno dei protagonisti del famoso docufilm No One Knows About Persian Cats, che tratta dell’underground iraniano dei Noughties, è stato proiettato a Cannes, ed è senza dubbio una visione consigliata, nonché una delle fonti di questo articolo. Un curriculum impressionante, che in musica si traduce (come sempre, in questi casi), in un semplice bastimento di IDM/Glitch di scuola Autechre che più si procede con gli anni più si avvicina agli anti-beat della deconstructed club. Se siete interessati alla faccenda vi consigliamo GUUD (2015), I AKA I (2016) e il più recente BLUUD (2020); se poi il genere vi appassiona c’è una marea di materiale di Ash Koosha da recuperare, scritto e musicato: in bocca al lupo.
Di pari passo con la spinta glitch di stanza europea va anche il lavoro della dj-violinista iraniana-newyorchese Sadaf, con un singolo LP edito nel 2019 per Blueberry, probabilmente uno dei dischi provenienti dall’Iran più apprezzati della storia da tutta la nostra redazione: History of Heat. Forse di tutti gli artisti nati su suolo persiano è Sadaf colei che riesce a miscelare con più perizia e fascino le tecniche dell’elettronica algida e decostruita e il suo lignaggio iraniano. Laddove Sote simula una indiscutibile frustrazione unendo la musica classica persiana al suo vasto campionario di rumori industriali e botte da orbi, Sadaf fa un’operazione molto più sottile, ugualmente centrata: l’eredità del radif appare diafana, tramite le regolari aperture del canto di Sadaf e i tremolanti attacchi di violino (che simulano con una certa nonchalance i kamanche della tradizione), mentre l’intero discorso sonoro è in costante spargimento e disintegrazione. La materia musicale che ne risulta è un’amalgama di freeness sulle cui direttive principali è impossibile puntare il dito, vagamente ballabile, vagamente dark, nettamente surreale: recuperate l’album. Se, invece, le eco del kamanche non sono abbastanza e siete qui per scoprire gli ultimi esperimenti fusion a cui è stato sottoposto il radif basta tornare in Francia e dare un orecchio al lavoro combinato di Léonore Boulanger e Maam-Li Merati e al loro esperimento La maison d’amour. Il disco è una raccolta di tre dastgāh suonati da Merati e cantati in duo: fin qui non siamo particolarmente distanti dalla musica di Shajarian (se non per la produzione molto più curata e per la presenza della voce femminile di Boulanger), ma la magia haram avviene nei side B (brani 4-10) e D (brani 15-18) dell’album, con l’incursione improvvisa dell’harmonium e dell’organo acustico di Matthieu Ferrandez. Il panorama timbrico cambia completamente e strania non poco, soprattutto negli attacchi di organo acustico, strumento privilegiato nella liturgia cattolica, totalmente fuori posto nel contesto del dastgāh. Proprio per questo, sommamente affascinante.
È incredibile pensare ai dolori e alle fatiche che Namjoo ha dovuto sostenere per la sua versione cantata di una piccola parte del Corano quando rivediamo una decina d’anni dopo l’esperimento fusion tenutosi a Parigi che decontestualizza con grande nonchalance la modalità dei dastgah che incide. D’altro canto va anche detto che in seguito alla diffusione di internet e in seguito ai movimenti del 2009 la società civile iraniana, che in musica si esprime in quell’aboveground che ha saputo accogliere persino una scena hip hop, ha preso una piega definitivamente più liberale e insofferente verso il regime rivoluzionario. Anno dopo anno il braccio di ferro tra la stretta repressiva della guida suprema e le pulsioni concrete di una società pronta a determinati passaggi culturali è diventato più rilevante nella sfera pubblica mainstream e in quella alternativa di Tehran – e per ogni concessione sui diritti civili che l’Ayatollah ha scelto di ignorare sono montate una rabbia e una frustrazione più grandi, che hanno avuto negli ultimissimi tempi una voce molto forte in tutti quei musicisti che hanno fatto parte dell’aboveground e del mainstream persiano e che sono attualmente in diaspora. Infine, è arrivato l’autunno del 2022.
Zan, Zendegi, Azadi
Il 16 Settembre 2022 una donna iraniana di 22 anni è morta in un ospedale a Tehran in circostanze sospette: il suo nome era Mahsa Amini. Amini era arrivata nella capitale per visitare il fratello qualche giorno prima, ed era stata arrestata e trasferita in custodia alla polizia morale della capitale a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo. La polizia doveva tenere ad Amini un corso sull’hijab dalla durata di un’ora, ma chi aveva in carico la donna ha scelto di proseguire per la via della brutalità e della tortura, arrivando a calcare troppo la mano e mandando la ragazza in coma, fino alla sua morte, sopraggiunta il 16 Settembre. Così come per il movimento verde del 2009 il video di Neda Agha-Soltan, uccisa durante la repressione, divenne il carburante principale per montare la rabbia del popolo iraniano, la morte di Amini ha esaurito completamente la pazienza della società civile persiana – la stessa che vive in quel limbo aboveground da decenni – e ha dato il via ad una serie di proteste e insurrezioni su tutto il territorio iraniano come non se ne vedevano probabilmente dai tempi della rivoluzione islamica. Ancora più che nel 2009, le proteste conseguenti alla morte di Mahsa Amini sembrano un’onda anomala di indignazione e furia, che qui e lì sembra fare addirittura sperare nelle possibilità di un regime change e della fine dell’attuale forma di governo autocratica iraniana. In tutto il mondo i gesti di bruciare il proprio hijab e tagliarsi i capelli in pubblico sono diventati un simbolo molto potente della vicinanza alla società civile iraniana che sta continuando a rivoltarsi nonostante la repressione stia colpendo molti dei manifestanti con forza. Stando ai dati della ONG di Iran Human Rights aggiornati al 22 novembre, attualmente il numero dei morti si aggira intorno ai 420 e si sta avvicinando giorno dopo giorno al pesantissimo numero di vittime delle proteste antigovernative del 2019-2020. Gli slogan che si passano di bocca in bocca esprimono un malessere diffuso sia a livello socioeconomico sia a livello di diritti civili, con l’onnipresente “Morte al Dittatore” che fa da filo comune delle manifestazioni. Il connotato specificamente culturale di queste proteste, che promuove la libertà delle donne sotto la Shar’ia e la possibilità di autodeterminazione femminile, ha fatto sì che le proteste di questo autunno finissero sotto i riflettori della comunità internazionale, complice anche il flood di informazioni sullo stato delle cose che ci arrivano dai social tra un blackout e l’altro della rete internet. Non sta certo a noi farvi un reportage sull’attuale situazione a Tehran, ma vi possiamo consigliare un paio di fonti per allinearvi, in caso non le aveste già consultate: questa puntata di Globo (il podcast del Post dedicato agli esteri), la timeline degli eventi curata da Wikipedia e questa data view del Guardian. Per analisi più approfondite sarà necessario attendere il finale di queste rivolte (sappiamo chi tifare), ma per quello che ci riguarda possiamo spendere due parole su come il mondo della musica collegato all’Iran abbia reagito.
We are standing by the people of Iran who are risking their lives for freedom. In a climate where the Iranian regime is creating a toxic environment to spread fear and prevent Iranian people from raising their voice, we want to thank all of the artists who have responded to this invite and offered their mixes and, more importantly, their names in the name of freedom. These are the voices the Islamic Republic wishes to silence. These are the voices that used to be sung in private and are now shouting together in a fog of tear gas, in the middle of fire. These are the voices that lead Iran to freedom. #womenlifefreedom”
Avevamo parlato qualche paragrafo fa di Pouya Ehsai come pupillo della label Zabte Sote. Nelle settimane successive alla morte di Amini e allo scoppio delle proteste Ehsai ha curato un progetto, il Sonic Liberation Front, che ha mandato in broadcast su NTS una splendida raccolta di brani incisi da donne e persone NB iraniane che è stata battezzata, senza troppi fronzoli: Azadi, libertà. Il materiale coperto nei 60 e passa minuti di broadcast è veramente SUPER, si porta dietro un’espressività costante e sofferta e soprattutto non teme il confronto con qualsiasi strumento compositivo, creando in questo modo un’ora variegata di arte a sostegno delle proteste che non si limita agli anthem ma sfrutta tutto il potenziale presente nel DNA degli artisti e delle artiste che si sono occupate di elettronica sperimentale sia in Iran che in diaspora: l’ascolto è consigliatissimo, il broadcast lo trovate qui, non confondetelo con Azadi Va, un altro mixtape in supporto alle proteste edito da Copycow (degno, ma imparagonabile). Nonostante sia distante anni luce dalla musica che spingiamo mi sento comunque in obbligo di citare anche il callout dell’Ardawahisht Kollective, una realtà che unisce vari act del metal più atmosferico e funerario (gli Urnscent, i Forelunar, i Désespéré…), che all’indomani della morte di Amini ha rilasciato un album dedicato alle donne iraniane a targa Forelunar con una dichiarazione d’intenti abbastanza chiara:
“Beloved and a Thousand Seraphim” is dedicated to all brave women of Iran who have paid and are still paying the hefty price of liberty with their lives. It’s a romantic remembrance of Mahsa, Nika, Sarina, Mehrshad and all those beautiful souls who perished in the inhumane savagery of the fanatic scourge in my motherland. […]
For Woman.
For Life.
For Freedom.
For Persia.
Come solito in questi grandi movimenti di massa è al di fuori dell’underground che però avvengono le grandi situazioni che poi passeranno alla storia. Baraye, un brano pubblicato dal popsinger Shervin Hajipour è diventato virale durante i primi giorni delle proteste raggiungendo i 40 milioni di visualizzazioni in 48 ore – diventando de facto l’inno delle proteste del 2022, al punto che alcuni dei fan di Hajipour si augurano che diventi l’inno nazionale iraniano in seguito al desiderato rovesciamento del regime di Khamenei. Il brano, dal punto di vista musicale, è una placida e struggente ballata basata sul refrain “Baraye”, che in iraniano esprime le proposizioni finali e che cita tutti i valori per cui stanno lottando gli iraniani in questi mesi: For breaking the taboo of kissing in public / For our sisters, mine and yours / For a change in the minds of the fanatics / For father’s shame for empty pockets / For the longing for a normal life (trad. en. dalla pagina wiki del brano). La viralità del brano è costata l’arresto ad Hajipour, cui ha conseguito un immediato cambio di tono derivante senza dubbio dalle minacce mosse al cantante dalle forze di repressione del regime. Una sorte simile a quella di Baraye è toccata alla versione di Bella Ciao cantata da Yashgin Kiyani, che stando ad alcuni osservatori è stata presa come inno non canonico specificamente femminista, dedicato alle donne oppresse del territorio persiano – e in misura minore ad Hashtadia, un singolo drill/street ben più aggressivo di Shahin Najafi. Il sostrato del rap stradaiolo e conscious proveniente dall’underground iraniano è stato senza dubbio uno dei primi luoghi culturali dai quali è stata gettata benzina sul fuoco sulle proteste successive alla morte di Mahsa Amini, e il regime ha scelto di concentrare i propri impulsi repressivi anche sulle singole figure che sono emerse dalla scena in aperta critica con l’Ayatollah Khamenei. È il caso del rapper di Tehran Toomaj Salehi e dell’artista curdo Saman Yasin, entrambi arrestati dal regime in seguito alle proteste ed entrambi sotto il pericolo concreto di una condanna a morte per lesa maestà verso il regime rivoluzionario, blasfemia, e quant’altro. Salehi e Yasin sono solo una goccia nel mare degli oltre 14.000 arresti e delle migliaia di episodi di violenza e repressione avvenuti nel corso delle rivolte – che comunque, nonostante la stretta della guida suprema, non accennano a fermarsi.
Nel suo articolo Songs for Freedom edito su Reset, la studentessa Arghawan Farsi evidenzia come il filo rosso della musica sia una dominante della sfera pubblica che sta attualmente manifestando in piazza contro il regime rivoluzionario. A partire da Baraye e passando dal revival del pop/rock prerivoluzionario che sta fiorendo nell’aboveground, Farsi arriva a chiudere il suo articolo con la breve storia di Nika Shakarami e Sarina Esmail Zadeh, ragazze di 17 e 16 anni che sono state uccise nelle ultime settimane per aver cantato tra la folla Zan, Zendegi, Azadi: Donna, Vita, Libertà. Delle due ragazze la prima è morta in seguito alle torture operate dalle forze di polizia che l’hanno arrestata, la seconda per sei proiettili sparati dai basij durante le proteste. Potete rivedere Nika Shakarami in questo video, mentre canta Solthane Ghalba, una delle canzoni più famose del pop persiano prerivoluzionario. Sarina Esmail Zadeh compare invece in questo video, mentre canta Take Me to the Church di Hozier. Due testimonianze devastanti di quanto la concreta realtà dei giovani iraniani sia distante dalla distopica applicazione in campo culturale, morale e civile della Shar’ia propugnata dal governo di Khamenei.
Conclusione
Se dobbiamo prendere atto di quanto la musica sia stata un motore ausiliare di tanti ricorsi della storia dell’umanità possiamo fare due conti: questa copertura sonora che sta accompagnando le grandi proteste degli ultimi mesi in Iran non può che dare l’indizio di un’ulteriore pulsazione verso la libertà e contro la repressione che il governo centrale sta cercando di arginare con gli stessi metodi da più di un decennio. Noi non abbiamo le competenze per tirare le somme sugli sviluppi che succederanno alle attuali sommosse, ma possiamo chiudere questo lungo volo d’uccello con un’osservazione che a questo punto sembra quasi scontata: la musica che filtra dalla società civile iraniana è da tutt’altra parte rispetto al suo sistema di leggi e di potere, ne è testimonianza la continua diaspora di artisti e la creatività incontrollata che carbura ogniqualvolta i paletti del mainstream saltano. La musica è solo uno dei tanti aspetti della cultura e della mediatica di un Paese, ma la quantità delle proteste e le informazioni che arrivano a noi occidentali sembrano tutte puntare nella stessa direzione: forse non succederà oggi, forse non succederà domani, ma il popolo iraniano è pronto a secolarizzarsi. Come tutti, noi continueremo a seguire le proteste di questi mesi, a sperare che le conseguenze di questo periodo siano le migliori possibili per le donne iraniane e in generale per il popolo persiano, a supportare la causa in cuor nostro. In campo musicale siamo sicuri che, qualora le rivolte dovessero portare a un concreto cambiamento nella postura autocratica del governo di Tehran, l’Iran sarà il polo di aggregazione culturale più vivo di tutto il Medio Oriente. Non ci resta che aspettare che l’onda imbrigliata dalle donne iraniane si abbatta sulla spiaggia e sperare in un nuovo corso della storia del Paese, che possa finalmente cantare i suoi valori senza il timore della forca: Zan, Zendegi, Azadi.