CHAT PILE – COOL WORLD
Sono al tredicesimo riascolto di Cool World, o comunque in quei dintorni, ma mi sono rotto il cazzo già dalla prima volta. È forse questo il gutturale lamento dell’uomo contemporaneo di cui tutte le testate parlano quando si interfacciano con la musica dei Chat Pile? Capiamo.
Ci siamo lasciati un paio d’anni fa con il fragoroso debutto God’s Country, di cui abbiamo provato a tracciare un profilo ragionato. La band di Oklahoma City si presentava nel 2022 come un competente team di fan del noise rock, con una spiccata preferenza per un periodo d’oro del genere denotato dalla seconda metà degli anni ‘80. Una spiccata preferenza, diciamo, che si esprimeva con l’assalto alla diligenza di tutte quelle sonorità che abbiamo imparato ad amare e che sono state più o meno risucchiate dai gorghi dei tempi, dal naturale susseguirsi degli eventi e delle band. God’s Country era una variegata operazione necromantica, affascinante per la sua forma-bignami e insieme deludente per l’assenza di una contemporaneità, di una buona scrittura, di un progetto di sottofondo, anche di una certa stabilità. Quest’ultima caratteristica è probabilmente uno dei più grandi cambiamenti che è possibile recepire in Cool World, un disco che appare di per sé più programmatico, quadrato attorno a un preciso sottoinsieme di sonorità, coerente. Siamo passati da un ampio ventaglio di omaggi al più ristretto incontro di una manciata di diverse grittiness: rimanendo in questo passatismo a cavallo tra gli ‘80 e i ‘90, i Chat Pile scaraffano le distorsioni dei primi Nirvana, dei Melvins e dei Soundgarden nella stessa brocca di Jesus Lizard, Ed Hall, Distorted Pony, rallentando per strizzare l’occhio a tutta la sfera sludge di cui gli Acid Bath sono forse il prototipo più immediato. Ci sono alcune canzoni che traboccano più da un lato che dall’altro, ma la varianza è così poca che non vale neanche la pena fare nomi: è un gioco a cui potete giocare anche da soli.
Ora. Aver fatto un passo indietro dal voler incidere un pezzo per ogni volto del noise rock di per sé non è una cattiva cosa, anzi. Il problema principale è che lo smussamento e incasellamento del progetto Cool World in quest’unico nucleo tematico si scontra con l’altro abnorme problema della formula Chat Pile: la scrittura lineare e prevedibile, l’obiettivo di sacrificare gli impulsi vitali a favore di questa trueness da gruppo antisistema che di per sé dovrebbe essere abbastanza per giustificare il proprio valore artistico. Questa idea che la musica dei Chat Pile sia la sonorizzazione di un singolo e preciso colpo di spranga, a guardare le recensioni dei nostri colleghi, è un po’ il principale punto di forza del gruppo, una necessità di centrarsi che si pone in contrattacco alla formula sparigliante dei dischi fatti da hook di 15 secondi, vista questa settimana con l’esordio di Greep. Ad ascoltare e riascoltare Cool World, però, anche se si può essere d’accordo con il metodo, è il merito a mancare di qualsivoglia giustificazione che non sia reazionaria e nostalgica. Abbiamo una materia musicale che tutti sanno essere presa di peso da un mondo di quarant’anni fa, una scrittura appositamente claustrofobica, una direzione generale chiara e concisa. Com’è possibile costruire con queste premesse un disco che non suoni terribilmente samey e noioso per tutta la sua durata? Ci vorrebbe un genio, e nessuno dei Chat Pile è evidentemente un genio.
Se in God’s Country la nostalgia plagiatrice era la vera responsabile della sconfitta artistica del gruppo, quest’anno la generale situazione sembra essere caracollata ancora più a fondo in un percorso fatto di rottura di coglioni, giàssentitismo, e quel costante domandarsi: ma perché? Ed è un perché che è indirizzato a diversi attori. A me: perché stai ascoltando I Am Dog Now per la quattordicesima volta invece che attaccare il debutto dei Laughing Hyenas, che ti manca? Alle altre riviste: perché state sbavando sulla costrettissima forma-canzone di Frownland quando quest’anno sono usciti, boh, CORPUS II e Joven Predicador? Ai Chat Pile: perché vi dovete chiudere in sala prove per due anni se il risultato di pezzi come The New World o Milk of Human Kindness si poteva creare in tre mesi?
Purtroppo in un’industria in cui la maggior parte del venduto è ricavato tramite l’aura e quell’aura si costruisce su fatti che sono tutto meno che musicali, siamo un po’ costretti dal fatturato di The Flenser a fare indigestione di questi episodi di mediocrità spinta, anche laddove l’obiettivo che si percepisce è quello di voler andare un po’ controcorrente. E se con God’s Country potevamo almeno aggrapparci ai dogwhistle di scuola Big Black in brani come Slaughterhouse adesso dobbiamo accontentarci del flirt col post-punk di Funny Man, incredibilmente l’unico brano che si fa ricordare in questa specie di copia carbone di Bleach. E qui si genera il finale aperto: va bene che non ci sono le basi per sperare in nulla di meglio di sto disco, ma quanto ancora durerà questa tortura di avere i Chat Pile nelle classifiche di fine anno? Purtroppo prevedo che non sarà una cosa breve. La band è così addomesticata, safe, quadrata e connessa da mettere sempre tutti d’accordo: i suoni li conosciamo da decenni, le casse sparano una musica maschia e digeribile, le connessioni che contano ci sono. Sbagliare, su questi binari, è praticamente impossibile. Fare qualcosa di interessante, anche.
Ci vediamo tra un paio d’anni con la stessa recensione.