CINDY LEE – DIAMOND JUBILEE

Realistik

2024

Pop ipnagogico, Glam Rock

Ora che ci troviamo stabilmente nel suo mese più inutile discograficamente parlando, possiamo asserire con una qual certa sicurezza che il 2024 è stato un anno pieno di “dischi evento”: oggetti che segnano ritorni inaspettati (Cure, GY!BE) e che precipitano nello spazio dell’industria discografica con una inenarrabile forza tellurica (Kendrick Lamar, Tyler, Charlie XCX), invadendo e occupando persino nicchie solitamente snobbate in maniera quasi molesta (i Blood Incantation).

Allo stesso modo, però, nessuno di questi dischi – forse eccezion fatta per Brat – ha assunto il peso specifico che si confà al titolo di cui si fregia l’oggetto-disco-evento; cioè quello di un prodotto culturale che assume, anche al di fuori dei propri confini mediali, una rilevanza e una risonanza tali da influenzare la società en large. Affidandosi a questa prospettiva è effettivamente difficile individuare dei veri e propri dischi-evento: figurarsi che, confrontandomi col resto della redazione che mi ha snocciolato nomi sicuramente importanti e entrati nell’immaginario collettivo come Oasis, Eminem, Green Day, Kanye West e Kendrick Lamar, per poggiare una pietra di paragone la mia mente era immediatamente risalita addirittura a Nevermind dei Nirvana, e stiamo comunque parlando di un album pubblicato più di trent’anni fa. Questo probabilmente a conferma che, con la frammentazione degli immaginari attraverso internet, è oramai quasi impossibile concettualizzare un disco che sia capace di esercitare il proprio potere magnetico al di là dell’effetto “grande disco” su ogni fascia della popolazione, persino tramite un’esperienza totalmente passiva e oppositiva allo stesso oggetto. O più probabilmente dimostra che me ne fregava molto poco di MTV quando ero adolescente.

Qualcuno potrebbe poi obiettare che personaggi come Beyoncé, Taylor Swift o qualsiasi altra popstar miliardaria di sta ceppa occupi oggi questo ruolo sul trono della influence: ma la sostituzione attuata sposta l’oggetto dell’attenzione non sul disco, quanto sul personaggio. Non esistono dischi-evento di Taylor Swift o Beyoncé semplicemente perché è il loro stesso essere Beyoncé e Taylor Swift a rendere innecessario il palesarsi di un vero e proprio disco-evento all’interno del loro catalogo: anzi, il più delle volte un nuovo disco, come quelli usciti durante quest’anno, viene accolto dalla stampa più generalista con una curiosità inquisitoria e da chi è militante come l’ennesima mungitura di una vacca che sembra, a ogni iterazione, sempre più rinsecchita. Allo stesso modo, sarebbe quantomeno appropriato mettere un punto sui casi Chappell Roan e Sabrina Carpenter, che hanno per qualche mese insidiato le classifiche emergendo funginamente dal nulla. Il problema, qui, riguarda invece la modifica del sopracitato status quo: in che modo brani (che li si consideri belli o no) come Good Luck, Babe!, Espresso et similia riescono a cambiare il modo di pensare delle persone, al di là del modo con cui si rapportano con il brano stesso?

Fortunatamente il 2024 è stato, come tutti gli anni da qui in avanti, un grande anno per la musica indipendente: ce n’è sempre di più, di ogni genere ed è sempre più facile pubblicarla. In questo mare magnum di dischi, dischetti, EP, singoli, compilation, mixtape, cassette, vinili, file digitali, registrazioni di live, materiali d’archivio e chissà cos’altro un singolo oggetto spunta nello sconfinato sottobosco del midstream e dell’underground, come se si trovasse lì per caso: il disco è Diamond Jubilee dei Cindy Lee.

Ora, non sarò io a farvi gli elogi della musica all’interno di questo doppio album: anche perché sarebbero ben pochi. Il pachidermico peso specifico di trentadue tracce spalmate su due ore in cui vengono di volta in volta riesumati gli scheletri del repertorio dei Velvet Underground e dei T-Rex, del rock à la Roy Orbison, del pop psichedelico della British Invasion e di quello ipnagogico di Ariel Pink sfinirebbe chiunque; il fatto che molti di questi pezzi vivano in uno stato di liminale lo-fi sfianca quando non si va a pescare selettivamente tra i pezzi più riusciti, che vivono comunque tra singhiozzi e inciampi vari. Non sarò certo io a dirvi che lo stratagemma di pubblicare il disco unicamente su una pagina GeoCities, dove è possibile scaricarlo gratuitamente o acquistare il vinile, è una mossa alla meglio ingenua – ma non per questo originale – e alla peggio incontrovertibilmente suicida. E però.

Mi sono ritrovato più spesso di quanto mi aspettassi, durante il corso del 2024, a confrontarmi con Diamond Jubilee: non perché lo stessi ascoltando (davvero, quattro o cinque pezzi belli su trentadue non valgono la pena), ma perché puntualmente lo avevo in mente. Avevo seguito interessato il progetto di Patrick Flegel, e anche dopo aver scaricato il disco, ero rimasto colpito dal fatto che la stampa di settore lo definisse un testamento per la band. Ero rimasto ancora più colpito dallo scoprire che, in barba a questa sua natura funerea, i Cindy Lee avevano deciso di imbarcarsi in un tour degli USA per proporre Diamond Jubilee in sede live; e leggevo amaramente, cinicamente che il tour naufragava dopo appena un pugno di date per mancanza di fondi. L’ultima di queste notizie metteva il dito nella piaga non appena volevo dedicare ad essa un paio di secondi di riflessione: se nemmeno una band che aveva fatto di tutto per tagliare i costi (autoprodotto e autodistribuito, senza alcuna percentuale da elargire a compagnie e piattaforme predatorie) e che aveva ricevuto un responso di critica e pubblico così entusiasta riusciva a sopravvivere per più di un mese, come si poteva sperare in una sopravvivenza, su più larga scala, di una fetta gigantesca dell’industria che riesce a malapena a tenere il naso sopra il filo dell’acqua?

Tutto questo, in ogni caso, non mi bastava. Non sentivo un vero motivo per parlare di Diamond Jubilee, non riuscivo a trovare la quadratura del cerchio: mi sembrava che la bella recensione di Ian Cohen apparsa su Stereogum avesse detto un po’ tutto quel che c’era da dire; ma allora perché continuavo a rodermi dentro? È solo all’inizio di questo mese che ho avuto la rivelazione: Diamond Jubilee è un disco-evento.

Chiaro, non sto parlando del fatto che tutti inizieremo ad andare in giro in drag e che i tg nazionali inizieranno a polemizzare sulle nuove generazioni corrotte irrimediabilmente da Wild One o Golden Microphone. Ma è indubbio che i Cindy Lee abbiano centrato in pieno un qual certo zeitgeist, probabilmente in maniera del tutto insperata. È forse perché la narrazione all’interno del disco e al di fuori di esso celebra una marginalità, una otherness che è diventata troppo facile da ignorare o da sfottere, guardandola un po’ insicuri da appropriata distanza? O perché la sua descrizione del passato, a partire dalla copertina con il suo paesaggio industriale fino alla cifra stilistica musicale che permea l’intero disco, ci colpisce con la profondità imprevedibile dell’hauntology? E questa stessa hauntology non si riflette forse nel vedere una band indipendente naufragare all’apice del proprio successo, al suo settimo (!) e ultimo disco?Diamond Jubilee, insomma, colpisce perché sembra raccontare un anno di oblio senza riposo: 365 giorni accartocciati e cestinati tanto rapidamente quanto i precedenti 365, l’ultimo strappo sul calendario prima che parta l’ennesimo giro di giostra. È un disco di addio, sì, ma di addio a un’epoca (politica, musicale, commerciale, quel che volete) che stiamo iniziando a guardare nello specchietto retrovisore e che non riusciamo ancora a mettere a fuoco; e se qualche coraggioso – noi qui a Livore e voi che ci leggete in primis – si permette speranzosamente di guardare invece avanti, il futuro appare come una grigia, incerta massa (come è sempre stato). Il resto rimane abbandonato come la figurina disegnata sulla copertina di Diamond Jubilee, tristemente rassegnata al bordo di una strada verso il nulla. E tutto questo nonostante la musica contenuta all’interno del disco sia, alla fine, soltanto quella di una band così-così che suona brani a volte belli, molto spesso sbagliando. Hai detto niente.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala