STABSCOTCH – PRISON JAR
Degli Stabscotch, per motivi che quasi certamente esulano dal razionale e finiscono nel pregiudizievole, ho una bassissima stima intellettuale. Ai miei occhi un troppo vasto numero di dati – dalla scelta estetica delle copertine, alle dichiarazioni nelle interviste, passando per decisioni tutto sommato insignificanti come quella di distribuire l’album a nome Faux Shaman disseminandolo in luoghi sperduti dell’America, specificandone solo le coordinate su Bandcamp – tradisce un intelletto tutto sommato piuttosto miserabile, specialmente per quanto riguarda il bassista e cantante Tyler Blensdorf. Con tutto che gli Stabscotch contano comunque nel loro palmares uno dei dischi di musica rock più originali e creativi dello scorso decennio (Uncanny Valley, che infatti abbiamo pure inserito nella nostra selezione degli anni Dieci) e un discreto nugolo di uscite corollarie di qualità (l’EP 7 Is a Cycle, ma anche i vari progetti collaterali di Blensdorf come il già citato Faux Shaman e Dizayga).
Quest’anno gli Stabscotch sono tornati con Prison Jar, disco che già dalla copertina kitsch e abbagliante fa presagire l’orrore. D’altra parte, le interviste a Blensdorf l’avevano preannunciato fin dai tempi di Drama Dragon, l’EP che con 7 Is the Cycle aveva composto l’album Twilight Dawn e di cui rappresentava nettamente la metà meno interessante: se Uncanny Valley e 7 Is a Cycle convogliavano, a detta di Blensdorf, l’energia della “magia nera” (dio bastardo…), Drama Dragon e il suo successore – appunto, Prison Jar – sarebbero stati pervasi da quella della “magia bianca”. Che cazzo significhi tutto questo, ovviamente, è un esercizio proposto al lettore, visto che se in Uncanny Valley e 7 Is a Cycle la musica era effettivamente circondata di un’aura torbida e oscura – l’aura di un’entità malvagia dissotterrata dopo secoli di oblio –, in Drama Dragon e ancor peggio in Prison Jar non sembra esserci nulla che faccia pensare a un qualsiasi remoto concetto di “magia bianca” mai concepito da essere umano. Il suono (tremendo) di qualche synth svolazzante, l’interpretazione vocale più corale e occasionalmente più mansueta (e talvolta pure effettata, come su Hyper Xtal Immolation) e il tono fintissimo dei fiati (tra cui si erge con prepotenza l’EWI, che riporta alla mente immagini catastrofiche di muzak anni Ottanta) possono ogni tanto dare l’illusione di una musica più cristallina, soft e meno dilaniante; ma a livello spirituale, non si percepisce una differenza sensibile tra l’estetica di Prison Jar e quella dei lavori precedenti.
La vera linea di demarcazione è invece stilistica e musicale, visto che il suono di matrice essenzialmente rock – per quanto sconquassato, storto, sabotato da mille tendenze centrifughe – che aveva fatto la fortuna degli Stabscotch in passato viene qua sovvertito con un molto più radicale utilizzo dell’elettronica. È però un’elettronica assurda e insensata, che ha poco a che vedere con il noise che serpeggiava su Uncanny Valley e che porta invece la musica verso il surrealismo schizofrenico degli Hella o dei, boh, Melt-Banana. Solo raramente si riconosce il peculiare stile di noise rock minaccioso e obliquamente progressivo dei passati lavori (e non a caso sono le uniche situazioni in cui si respira almeno parzialmente quella brillantezza, vedasi Facebook Aliens), perché tutto viene cannibalizzato in questo frullatore idiota di strutture non-sense e suonini stupidissimi, dove trame di sintetizzatori in odor di Nintendocore e parentesi smooth jazz degne dei peggiori Spyro Gyra non hanno il tempo di venire enunciate decentemente che vengono immediatamente prese in custodia per essere trascinate in deliranti territori pattoniani. Non si coglie alcuna visione o alcuna capacità suggestiva nella musica di Prison Jar, tutto accade in un turbinio technicolor di timbriche strampalate e ci si trascina in fondo senza mai trovare risposta alla domanda «sì ok, ma perché?». La title track, in questo senso, è la perfetta cristallizzazione della missione degli Stabscotch del 2022: sei minuti e mezzo di vocine distorte, operistiche, ruggiti, pulsazioni techno, deflagrazioni noise rock, skronk di sassofono, spiragli di manipolazioni elettroniche, in cui tutto cambia nell’arco di poche manciate di secondi senza coesione e senza genuina vena narrativa. Fingere che una roba così incoerente e messa insieme senza criterio sia una nobile espressione sperimentale del rock contemporaneo, che magari incarna lo Zeitgeist oppure che rappresenta il correlativo oggettivo del gigante flusso di informazioni da cui veniamo bombardati ogni giorno, è disonesto, in primo luogo verso se stessi. Questo è semplicemente rock con l’ADHD che può al più suscitare stupore infantile, senza nulla di sostanzioso da offrire a chi cerca qualcosa che scavi anche solo leggermente sotto la superficie del “wow il pezzo è cambiato di nuovo?!”.