LIVORE PARLA: bela E LAURÉN MARIA

Si parla spesso, e con buone motivazioni, della desertificazione del panorama musicale alternativo in Italia. Noi non ci sottraiamo a queste considerazioni, ma proprio perché le riteniamo fondate sentiamo il desiderio (al confine con la necessità) di venire a contatto con le realtà che mantengono vivo un modo partecipato, diretto, appassionato e sostenibile di fare esperienza della musica: da parte di chi la fa, di chi la ascolta, di chi organizza. In passato, Jacopo ha dedicato interviste e racconti a due festival longevi che animano la scena bolognese: RoBOt e AngelicA. Se avessimo le risorse, probabilmente vedreste un camper col logo di Livore (o più realisticamente noi con lo zaino in spalla) girare per la penisola alla ricerca di tutti i contesti dove fiorisce il connubio tra visioni artistiche coraggiose e radicamento sul territorio. Anche se non si gira l’Italia per concerti, però, è facile incontrare una contraddizione in bella vista: Roma. Capitale nazionale, terza città più popolosa d’Europa, forziere profondissimo di cultura ma con una scena musicale sottodimensionata; anche a detta di musicistǝ e addettǝ ai lavori, Roma soffre di una carenza di spazi per la musica dal vivo acuita nell’ultimo decennio da un domino di sgomberi e chiusure, che giocoforza provoca una contrazione del giro di artistǝ e del pubblico partecipante. Noi allora siamo andati proprio a Roma a far visita a un posto che insiste e resiste, il Trenta Formiche, in occasione della serata che celebrava il sesto anniversario di Klang (che avevamo già incrociato qui). In scaletta, prima del DJ set di Chantssss, le esibizioni di Laurén Maria e bela – rispettivamente da Germania e Corea del Sud – a disegnare punti d’accesso per esplorazioni  elettroniche ibride e vivide. Abbiamo approfittato dell’abbondanza di ospitalità e gentilezza trovate in via del Mandrione per organizzare una chiacchierata con lǝ artistǝ prima dei loro concerti: ne è nata una conversazione che ha aperto molte finestre, dal rapporto tra mainstream e underground al multiculturalismo in musica, passando per riflessioni su piattaforme digitali e questioni di classe. Trovate la registrazione della talk in inglese qui sotto, seguita dalla trascrizione del dialogo in traduzione italiana.

R: Buonasera a tuttǝ. Prima che inizino i concerti, abbiamo intenzione di aggiungere qualcos’altro da ascoltare: una conversazione con le artiste che si esibiranno qui stasera. Noi siamo Roberto e David di Livore, una webzine che si occupa di critica musicale; so che suona sempre male dirlo così… ma in sostanza si tratta di un progetto fondato sulla passione per la musica come forma d’arte, strumento di espressione e ricerca di prospettive, nel mondo e in noi stessǝ. Come prima cosa, ci teniamo a ringraziare Trentaformiche e Klang per ospitarci stasera, le artiste per condividere il loro tempo con noi e tuttǝ voi che siete qui ad ascoltarci.

D: Molto del lavoro che facciamo nella nostra attività su Livore è incentrato sul presentare una visione d’insieme sulla musica contemporanea, qualcosa che sia differente: ad esempio trattando temi di cui normalmente non si parla, o approfondendo discorsi musicali che altrove sono affrontati superficialmente – se non proprio con dei copia-e-incolla dai presskit. Ci piace immergerci in questi argomenti e conoscere la prospettiva delle persone direttamente coinvolte. Iniziamo da questo: nel panorama attuale e per come funzionano i suoi meccanismi, la musica è onnipresente. Chiunque può ascoltarla dal proprio smartphone, in streaming, avendo accesso a una quantità incommensurabile di musica. Tuttavia ci sembra che questo non abbia portato ad allargare gli orizzonti, almeno a livello del mainstream; anzi, all’opposto, si sono trovati dei modi per ingegnerizzare la musica in modo da renderla il più possibile commercializzabile e facile da consumare. Entrambǝ voi siete artistǝ che fanno musica non commerciale e, secondo noi, con un approccio radicale rispetto alla natura della musica: ritenete di avere abbastanza spazio per esprimervi, ci sono spazi dove potete esprimervi liberamente? Oppure vi sembra che il peso di queste dinamiche, degli algoritmi, abbia un effetto oppressivo nei vostri confronti?

LM: In tutta sincerità, nella mia vita non mi sono mai davvero immaginata a fare musica che mi portasse a decostruire la mia voce, o decostruire paesaggi: ho sempre voluto cantare canzoni. Seduta davanti al computer, però, ogni cosa che cerco di fare in questo senso mi porta sempre verso processi di decostruzione, è semplicemente così per me in questo momento. Penso che sia molto bello e, allo stesso tempo, più mi concedo di dedicarmi a questo e più sento che potrei anche realizzare una canzone che sia più pop, più legata a quella forma, senza per forza voler fare qualcosa di commerciale. Il punto credo sia cercare di non categorizzare me stessa né la musica che faccio… o almeno provarci!

D: Certo,  anche questa è libertà, decidere di fare qualcosa di più pop per tua scelta.

LM: Esatto, quindi non ho la sensazione che mi vengano imposti dei limiti.

B: Anch’io non vedo un effetto limitante, perché può essere una situazione con molte sfaccettature. L’underground viene continuamente cannibalizzato dal mainstream, basta guardare a FKA Twigs con il suo ultimo progetto Eusexua o a Charli XCX con Brat: loro erano già mainstream prima, ma hanno iniziato a collaborare con artistǝ provenienti dall’underground il cui stile caratteristico ha contribuito a renderle più pop. FKA Twigs ha lavorato con Arca, Charli XCX con producer della PC Music. Io sento la pressione di seguire il loro stesso percorso? No, affatto. C’è però anche una questione di classe che si lega a questo discorso: io non avrei la possibilità tecnologica, non potrei permettermi la strumentazione per realizzare una musica così rifinita da poter essere riprodotta in ogni club e in ogni piattaforma. Come artista, devo rimanere sempre dentro il mio budget e cerco di lavorare con ciò che ho a disposizione. Questa è una restrizione che funziona per me, dato che non ho interesse artistico in una produzione pop.

D: Ognuna delle persone che collabora a Livore ha differenti gusti musicali, ma condividiamo una sorta di etica comune per cui ci troviamo sulla stessa lunghezza d’onda in molte questioni. Anche noi assistiamo a questa dinamica per cui artistǝ del mondo pop collaborano con artistǝ d’avanguardia, che cercano di ampliare gli orizzonti della musica: un altro nome che mi viene in mente è Daniel Lopatin, che a sua volta ha lavorato più volte con artistǝ mainstream. Dal nostro punto di vista, però, ci sembra che la musica risultante da queste collaborazioni non riesca a catturare la natura autentica e l’energia innovatrice che invece è parte dei progetti underground. Charli XCX in effetti è un esempio perfetto: si riconosce chiaramente il contributo della contaminazione insieme ai riferimenti da cui origina, ma l’impressione è che sia tutto pesantemente manipolato per essere popolare e per andare alla grande sui social media. Per questo crediamo che nel panorama musicale si potrebbe fare di più con gli strumenti tecnologici a disposizione. Giustamente Bela ha fatto notare che non tuttǝ hanno la disponibilità economica per accedervi, ma la situazione è comunque migliore rispetto a prima: la “bedroom music” esiste proprio perché ora, anche con fondi limitati, si può creare in autonomia musica che si lascia ascoltare da chiunque pur non avendo una produzione di alta fascia. Lasciamo da parte gli audiofili, ovviamente. Quindi voi vi sentite libere in ciò che fate, non sentite che la vostra creatività espressiva è schiacciata dal sistema.

B: Quando si parla di pubblico, inteso come la platea di persone che riesci a raggiungere, il sistema delle piattaforme di streaming può risultare soffocante. Si tratta però di qualcosa che è difficile figurarsi come singola artista indie o underground, probabilmente se hai un gruppo di persone che si occupano di questo aspetto per te – come nel caso di artistǝ che hanno contratti con le major – c’è la possibilità di creare una strategia per sfondare e avere molta più gente che ti ascolta. Però l’industria musicale è un ambiente con molte caratteristiche differenti. Chi viene dal mondo punk, DIY, sperimentale o noise, scene in cui anche io mi ritrovo, non necessariamente dà la priorità a questo. Se parliamo in generale di come cambia nel tempo il numero di persone che si presentano effettivamente ai concerti, penso che derivi più dal panorama culturale che non da come è organizzato il sistema in questo momento. Dipende maggiormente da come si modella la cultura e anche da come lǝ musicistǝ più in vista possono farsi avanti e guidare il pubblico verso roba più underground… più o meno! Quindi creare ponti tra questi due mondi può essere un ottimo progetto, ma dal mio punto di vista – che è quello di un’artista underground che lavora in autonomia – le risorse sono troppo limitate per poter pensare a scenari di questo tipo.

D: Una sorta di Davide contro Golia.

B: Esattamente.

R: Poco fa stavamo parlando di come la disponibilità di massa di ogni tipo di musica su internet sia una grande opportunità – io vengo da un paesino di 20 persone, dovrei saperlo bene! Per esempio, qualche decennio fa sarebbe stato molto più difficile per noi venire a contatto con la vostra musica. Questo aspetto ha la potenzialità di allargare gli orizzonti per chiunque, ma convive con il fatto che si tratta spesso di una fruizione distaccata e senza alcun attrito: ci si trova a pochi click di distanza da miliardi di tracce da poter ascoltare gratuitamente, almeno in apparenza, e questo probabilmente allontana dalla realtà pratica di chi fa musica, si esibisce e in questo modo cerca di guadagnarsi da vivere. Voglio chiedervi cosa ne pensate di questo scollamento tra la grande opportunità che i tempi moderni offrono a chi sviluppa una passione per differenti tipi di musica, anche molto lontani dal mainstream, e la sempre più ridotta presenza fisica nei contesti in cui questa passione può manifestarsi dal vivo; o, in altri termini, la minor partecipazione a una comunità “offline” in cui condividerla.

B: Penso di capire cosa intendi. È una questione che mi sembra legata a una barriera di informazioni che si incontra oggi. Io ho iniziato come DJ, il mio primo “lavoro” in ambito musicale consisteva nell’ascoltare più tracce possibili in breve tempo per scegliere cosa volevo presentare alla gente. Era il 2017 quando ho iniziato a farlo, in Corea del Sud, e già allora mi sembrava difficile: volevo ovviamente conoscere tutte le migliori tracce della storia della musica, ma venivo da questa famiglia di periferia che in casa non ascoltava nessun tipo di musica. Per di più nessuno mi conosceva in città perché mi spostavo abbastanza spesso. Quindi non avevo alcuna influenza dall’esterno né da parte della mia famiglia, e in questa condizione trovare tracce da suonare nei club di Seoul era una grossa sfida. Non avevo idea di cosa significasse avere dei gusti musicali allora. Sono convinta che molte delle persone che iniziano a muovere i primi passi come DJ lo facciano proprio perché non hanno provato prima questa esperienza ed è eccitante scoprire cose nuove così, senza preavviso…

R: È vero, anche per me è stato così.

B: Sì, è un tipo di percorso che si può senz’altro incontrare se si viene da un tipo di contesto abbastanza isolato. Quella barriera di informazioni… rendeva il tempo così denso, devi ascoltare tante tracce e con la musica non puoi certo ascoltare un brano solo per un secondo e decidere se potrai utilizzarlo. Non si può comprimere il tempo, bisogna ascoltare ogni singola cosa! Questo processo richiedeva tantissimo tempo, e ora sei a un click di distanza da profili Soundcloud di persone che hanno iniziato a fare DJing perché i genitori ascoltavano vinili e quindi loro suonano solo con vinili. Magari un tizio australiano a caso che seleziona pezzi ambient infognatissimi degli anni ‘90… [ride] io volevo essere come loro, ma non potevo. Non avevo quel tipo di conoscenza e formarla mi avrebbe richiesto tanto tempo. Ci ho messo comunque molto, e ci ho dovuto riflettere su parecchio, per capire che forse quella non era la direzione che volevo prendere in ogni caso… sarebbe stato umanamente impossibile!

D: Questo è affascinante, perché il DJing è spesso associato all’atteggiamento di cui hai parlato, quello che fa dire alla gente: “Io conosco un tesoro inestimabile di tracce, ho un sacco di vinili…”, come se fossero DJ Shadow. A volte, però, proprio il fatto di non conoscere certa musica e di ritrovarcisi dentro all’improvviso può offrire una prospettiva nuova e molto più originale, perché a quel punto sei differente da chiunque altrə.

B: Questo è proprio ciò che ho percepito chiaramente nella scena musicale asiatica, soprattutto intorno a me. Non voglio generalizzare ovviamente, l’Asia è un continente vastissimo; però almeno in Corea del Sud, in Cina e anche in Giappone ci sono persone che hanno questo tipo di prospettiva, la cui musica spesso suona futuristica per il semplice fatto che non esisteva prima ed è nata esplorando ciò che a loro interessava. Sembra nuova, ma in realtà è contemporanea.

LM: Parlando della varietà e della facilità di accesso alla musica, per me era comune avere momenti in cui dopo essermi svegliata giravo su Bandcamp mentre facevo colazione… sento che la scelta di andare a scovare registrazioni musicali o album che non hai mai sentito prima – magari di artistə che non conosci – e di ascoltare proprio quelli, può risultare molto intuitiva. Lasciandoti guidare davvero da questo intuito, magari con l’aiuto dato dal poter usare un computer, ricevi una sensazione di grande appagamento quando capisci di aver scoperto qualcosa a cui tieni molto. Personalmente, amo i CD e vado spesso su dei siti che vendono articoli di seconda mano, perché sento il bisogno di comprare alcuni CD di artisti che mi piacciono e che non si trovano normalmente in commercio; così mi ritrovo in questa caccia online per supporti fisici, ed è anche questo un aspetto che mi piace!  In generale, quando veniamo in contatto con qualcosa di molto intuitivo si riconosce subito: a volte capita che dalla prima canzone si percepisca subito qualcosa che ci tocca nel profondo, non per il testo o qualcosa di altrettanto definito, più per una sensazione generale… ed è un aspetto molto bello. La contemporaneità può sopraffare o creare queste opportunità, in un certo senso questa è la sfida dell’uomo moderno: cercare di sentire e capire quali sono i tuoi veri sentimenti, seguire il tuo intuito. 

D: Capisco, la mole di informazioni con cui si viene in contatto può schiacciare o liberare. Sempre parlando di quanto è vasto il mondo, nei decenni precedenti era diffusa l’etichetta un po’ ingenua ed eurocentrica di world music: c’era la musica occidentale ed il resto era world music. Fortunatamente negli ultimi anni questo paradigma sta venendo abbandonato, e si sta prendendo coscienza che naturalmente ogni popolo ha i propri suoni e le proprie tradizioni, e che non è tutto un grande calderone esotico: che vengano incorporate forme musicali tradizionali o meno, ogni nuova uscita è il riflesso del panorama culturale in cui l’artista ha operato. Come conseguenza di tale comprensione, stiamo assistendo a una maggiore commistione tra varie culture. Artisti occidentali che incorporano il gamelan nella musica elettronica, per fare un esempio. Secondo voi, questo processo di contaminazione deve essere affrontato responsabilmente? Un artista dovrebbe essere completamente libero di incorporare qualsiasi cosa desideri, senza curarsi del suo rapporto con la cultura da cui trae queste influenze, oppure parliamo di un processo che andrebbe affrontato con tatto e cautela? Mi rendo conto che sia una domanda difficile da fare così, su due piedi.

LM: È una domanda interessante, ci sarebbe così tanto da dire… hai appena citato il gamelan, io ho passato tutto il periodo del covid in Indonesia, inaspettatamente, volevo rimanere quattro mesi ma ho finito per restare là un anno e mezzo. Non ero affatto abituata ad essere continuamente circondata da cerimonie, non soltanto correlate al gamelan ma anche a tutti i relativi rituali preparatori che andavano avanti per giornate intere, essere sempre in contatto con queste sonorità… In quel periodo avevo un registratore che utilizzavo saltuariamente, ma poi non ho mai utilizzato quel materiale; forse all’epoca non ci avevo coscientemente riflettuto, ma ci sono sfumature così sottili e al contempo così importanti da rispettare, e credo che sia fondamentale farlo. So che è tutto molto soggettivo, e che ognuno ha la sua concezione di cosa significhi rispettare qualcosa, ma trovo che esistano fusioni di componenti davvero indelicate, e ciò mi fa molto dispiacere. È un argomento molto difficile.

D: Assolutamente… quando io apprezzo qualcosa, in un certo senso il ruolo del musicista è compiuto: ha creato un mondo – con qualsiasi mezzo e per qualsiasi motivo, sia esso rispettoso o meno – che mi ha catturato, e mi ha fatto provare qualcosa con la sua espressione artistica, e ciò è qualcosa di positivo, senza dubbio. Ci dovrebbe quindi essere qualcosa che argina un sentimento del genere? O anche al contrario, se il musicista avesse avuto più coscienza di ciò che utilizzava e si fosse espresso in maniera più autentica, avrebbe creato qualcosa di ancor più potente… e in tal caso sarebbe dunque meglio esporre gli artisti e le persone in generale all’essenza – scusate il termine un poco semplicistico – della musica di ogni cultura.

B: Sono una persona che lavora con forme musicali tradizionali, musica tradizionale coreana; se rimarrete al concerto sentirete che i beat che ho programmato sono tutti basati su ritmiche tipiche della musica tradizionale coreana. Mentre li stavo componendo pensavo: io utilizzo ritmi occidentali di continuo, perché non provare ritmiche coreane? Ma è difficile, in base a cosa utilizzi. Mi sto appassionando allo studio del ritmo. Per esempio se sono ritmiche comuni o latinoamericane, in particolar modo quelle derivate dalle regioni in passato colonizzate dalla Spagna, ritmiche proprie della musica dance come il tresillo per esempio, esse saranno le stesse ovunque tu vada, perché sono molto immediate. Non puoi sfuggirci. Ovviamente ci saranno piccole differenze, piccoli swing o sincopi, come la batida…  quello che volevo fare io era ridurre ai minimi termini i ritmi coreani tradizionali, operare traducendoli in qualcosa di simile. Credo di aver fallito su tutta la linea, e ti darò una prospettiva diversa sul perché, per rispondere alla tua domanda: ero io ad aver paura dei puristi della musica tradizionale sudcoreana, persone con quel tipo di preparazione musicale. Ci sono scuole medie, licei, università e master interamente dedicati alla musica tradizionale della corea del sud. Ad esempio, se studi per imparare il pungmul fai solo quello, c’è un solo percorso. Se studi pansori studi pansori, se studi ch’angga studi ch’angga, eccetera eccetera. Non volevo mescolare troppo le influenze, perché ciò che ho imparato fin dalle elementari sono esclusivamente le musiche samul nori e pungmul. E dunque pensavo: le persone sentiranno e vedranno che ho sbagliato qualcosa, e sarò io ad essere imbarazzato. Pertanto, affrontando la domanda da questa prospettiva, l’imbarazzo è tutto tuo una volta che pubblichi qualcosa e poi capisci più a fondo cosa ti circonda. Sta a te capire se puoi sopportare ciò. 

D: Molto interessante, in effetti anche questo è un altro modo di apprendere le cose, non ci avevo pensato in questa maniera, dagli occhi di chi la musica l’ha composta.  Ovviamente anche noi in Italia abbiamo puristi, tradizioni e scuole di musica molto rigide, tutte cose che ho sempre visto in cattiva luce in quanto le trovo limitanti per la forma d’arte. Sebbene per imparare un certo stile musicale in maniera profonda ci possano volere decenni, allo stesso tempo solo perché percorri tale sentiero di apprendimento non c’è ragione di chiudere la mente ad ogni altro input.

R: Il mondo accademico a volte può intimorire, senza dubbio. Il discorso sul rituale e sulle forme musicali tradizionali mi ha riportato alla mente una frase di Jon Askonas, ossia che “una società davvero tecnologica non può avere tradizioni” perché la ritualità andrebbe inevitabilmente a ostacolare “l’accumulo del capitale e il profitto”. Ci ho pensato perché riflettere sulle componenti più tradizionali e anche ancestrali della musica, come i suoni naturali, la voce, e unirle alla musica elettronica – opportunità del progresso tecnologico – potrebbe forse offrirci una prospettiva su mondi nuovi. Cosa ne pensate?

B: Io non percepisco il mondo come un sovrascriversi di cose, questo vince e dunque quest’altro sparisce – anche se può assolutamente sembrare che sia così, perché tutto è connesso, giusto? Cerco però di vedere il mondo nel suo insieme: puoi aggiungere troppo da una parte, e creare uno squilibrio, ma non so se un concetto può essere davvero cancellato. Puoi ripetere ciò che dicevi relativamente alle tradizioni?

R: Era un saggio che avevo letto [questo, ndr], il punto di tutto era che una società davvero tecnologica cercherà di smantellare le sue tradizioni, in quanto il loro essere ferme nel tempo e nei modi le rende inadatte a essere ridistribuite e a poterci lucrare sopra.

B: “Davvero tecnologica” è il punto su cui mi sembra di non concordare, o che forse non capisco perché non ho una definizione puntuale di cosa intende l’autore. Considerando questa frase estratta dal contesto, definendo una società tecnologica in senso stretto, il concetto può avere senso. Ma tutto ciò che le società si sono sempre sforzate di fare utilizzando la tecnologia è comunque connesso a elementi rituali in qualche modo: come costruire una piramide, perché cazzo dovresti costruire una piramide? Il ruolo dei rituali è motivare le persone, far  sviluppare un legame emotivo con ciò che faranno. La televisione, i programmi televisivi ogni giorno, anche quello è un tipo di rituale; una forma evoluta e disgregata, data la frammentarietà della nostra realtà. Un editor che sta tutto il giorno a montare video schizofrenici, persone così fanno quello che fanno perché pensano sia importante che gli altri consumino questo tipo di cosa, e ciò è un rituale moderno.

R: La tecnologia dunque crea nuovi rituali, rituali modificati che esprimono la nostra contemporaneità.

B: Assolutamente. Credo che la club music sia un rituale, altrimenti perché riunirci in questa cantinetta losca se non per il desiderio di provare qualcosa attraverso l’aggregazione?

D: Sì concordo assolutamente, ciò ha intrinsecamente una componente rituale. I mille cambiamenti della tecnologia e il frammentarsi della cultura in “microbolle” rende il tutto probabilmente ancor più ritualistico, in quanto nascono sette, gruppi chiusi di persone con un loro linguaggio che il mondo non capisce, anche se sono comunque parte di una stessa nazione e fanno lo stesso lavoro di chi sta al di fuori. 

B: Ricordo una volta che Aïsha Devi, Nkisi e Meuko Meuko stavano facendo un seminario in Corea del Sud, e il moderatore era talmente inadatto che io stesso dovetti mettermi a tradurre, e io non sono una persona che di solito si offre volontaria. Quella giornata fu stranissima. Aïsha Devi disse qualcosa che mi è rimasto in mente. Dal pubblico le avevano chiesto: “quale credi che sia una versione moderna della musica rituale?” e Aïsha disse subito “la musica elettronica”.

Dopo questo fuoco incrociato di domande ambiziose e risposte interessanti, le artiste si sono esibite in uno spazio coi muri di mattoni e il soffitto a botte, una sala concerti a metà tra cantina vinicola e bunker antiatomico. Entrambe hanno presentato una musica elettronica scarnificata, un’opera di riduzione ai minimi termini di arrangiamenti e strutture atta a far risaltare ancora di più i pochi elementi sopravvissuti a questa cernita. Per Laurén Maria, questi erano le sue manipolazioni vocali e squarci totalizzanti di rumore elettronico, ora strilli su frequenze alte ora brontolii che andavano dritti alla bocca dello stomaco; per bela, ritmiche elaborate, semplici linee di synth e parti vocali che alternavano growl a modulazioni più eteree e melodiche. Ne sono risultate due performance davvero suggestive, una tra il sacrale e il rumorista, l’altra al contempo lugubre, raffinata e catartica. Una proposta stimolante e soprattutto radicata nella contemporaneità, uno sguardo a cosa può offrire oggi la musica elettronica – in Italia, occasione da ricercare e non farsi sfuggire.

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Livore Redazione
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