LÆTITIA SADIER – ROOTING FOR LOVE
Non so se l’avete notato, ma sta iniziando a tornare la primavera. Nonostante il clima totalmente fuori controllo ci spingerà solo in un paio di mesi verso scenari di afa apocalittica, in queste poche giornate incerte, se avete la possibilità di guardare fuori dalla finestra e vedere del verde, probabilmente noterete un ciliegio o un susino oramai completamente fiorito. In un certo senso lo trovo rassicurante: è il segnale inequivocabile di alcune leggi immutabili dell’universo, un continuo ritorno a quello che si era prima, che produce sempre un bello spettacolo.
Rooting for Love, il nuovo disco di Lætitia Sadier, fa un po’ lo stesso effetto dei ciliegi in fiore. Non so voi, ma io non avevo idea che Sadier fosse al suo quinto album solista: eppure, a pensarci un secondo, appare del tutto naturale. D’altronde, gli Stereolab sono in pausa da più di un decennio oramai, ma Sadier non ha praticamente mai smesso di suonare dal vivo (anche perché il suo nome è comunque comparabile a quella di altri pesi massimi della scena alternative anni ‘90), riunendo la band a fasi alterne e continuando instancabilmente a riproporre nuove variazioni di quella miscela, per me irresistibile, di krautrock, musica da ascensore, rumorismo, e pop yé-yé. Ecco, Rooting for Love non è molto diverso da questo mix: anzi, si potrebbe obiettare che è esattamente lo stesso incrocio di influenze. Proprio come i fiori di ciliegio, Sadier sembra capace di fiorire solamente in un solo modo: e però…
C’è qualcosa di intangibile che distingue in maniera significativa questo disco da qualsiasi cosa degli Stereolab abbiate mai ascoltato: è come se l’attenzione sulla costruzione dei brani fosse stata incanalata in una direzione totalmente opposta a quella dei brani di Emperor Tomato Ketchup, cercando di eliminare i momenti più jammosi… ma non è poi neanche troppo vero, viste le aperture di pezzi come Don’t Forget You’re Mine o Protéïformunité. Forse è la palette timbrica? D’altronde in Dots and Loops mica c’erano delle drum machine così “classiche” come quelle di The Dash… Sull’altro piatto della bilancia, però, ci sono esplosioni improvvise di chitarre e organi Lowry che ricordano tantissimo Transient Random-Noise Bursts With Announcements, e poi come la mettiamo con The Inner Smile, che ha un flauto rubato ai primissimi Kraftwerk in coda e utilizza un controcanto in tutto e per tutto simile a quello di Mary Hansen?
Direte voi: Jaco, ma allora è semplicemente un disco degli Stereolab! Perché ti stai scervellando così tanto per un’intuizione che è così ovvia? Rispondo io: è proprio lì la fregatura. Ascoltate Cloud 6, la traccia finale del disco: quando mai gli Stereolab sono suonati così? Eppure tutte le componenti sembrano nel posto giusto; e ciononostante il risultato è completamente all’opposto e molto più vicino a (ditemi voi se non me lo sto sognando) certa roba di Meredith Monk, a partire dall’impostazione del tono vocale di Sadier e per finire con il modo in cui i pattern delle tastiere si ripetono con fare ipnotico in una maniera totalmente diversa dal modo in cui la ripetizione era la base fondante del sound degli Stereolab – tralasciamo pure il fatto che la canzone si chiuda di botto su un quantomai tombale “halfway dead”, che secondo me è una di quelle robe che quando la senti live ti passa da parte a parte come un gigantesco ago d’acciaio.
In definitiva, Rooting for Love è un ascolto spiazzante: si avverte una cupezza di fondo, un modo diverso di interpretare le proprie idee che io, di certo, non avevo mai sentito nei lavori firmati da Sadier. E nonostante tutto, questa diversità è immersa in un bacino di suoni e forme così riconoscibili per chi ha spolpato la discografia del suo gruppo che lo spaesamento assume una carica ancora più forte proprio perché è così vicino alla familiarità di una vita precedente. Come se un ciliegio decidesse, all’inizio della primavera, di far sbocciare i propri fiori di un colore blu elettrico.