AMEN SEAT – AMEN SEAT
C’è un debutto molto particolare e sorvolato da molti magazine, uscito poco fa su Deathbomb Arc: è uno di quei dischi che non può essere ignorato – e quindi oggi ve ne parliamo. L’album è il self-titled degli Amen Seat, un duo di musicisti di vecchia scuola, formato dalla flautista statunitense MaryClare Brzytwa e da Jon Leidecker aka Wobbly, già membro dei mastodontici Negativland. Questa prima prova, già parecchio corposa nel cenozoico di filamenti elettronici costruiti dai due performer, è impreziosita da collaborazioni robuste e felici: sul palco ci sono Johnatan Snipes dei clipping., il Matmos Drew Daniel, Corey Fogel dall’ensemble di Julia Holter, la rodatissima Zeena Parkins all’arpa, l’art popper Dominique Leone e il bassista fretless Craig McFarland.
I protagonisti assoluti di tutto questo Amen Seat sono i contributi di Brzytwa, tanto per ciò che concerne le sezioni vocali che quanto per ciò che concerne i suoi interventi verticali e inquieti di flauto: i suoi fraseggi si gonfiano ed emergono con una lucidità e una freddezza notevole nella parata di glitch e puntinismi apparecchiata da Leidecker e dagli altri collaboratori. I toni della performer, sia al flauto che alla voce, spaccano il mare ghiacciato della sua corte con scat, urla al limite dello psicotico, una generale e sardonica passione per la dissonanza e per il brutto. Se durante i versi più pacifici la primadonna non si distanzia tanto dalle grandi stelle del glitch pop (Arca, Björk, l’ultima FKA Twigs o, più recentemente, Kee Avil), nelle più importanti aperture del disco le sue grida troneggiano furenti e, noncuranti della filigrana sonora che le avvolge, arrivano ad abbracciarsi con alcune delle più famose voci acute dell’avant-garde (da Jeanne Lee e Magdalith fino ad arrivare oggi a Lingua Ignota). Il primo probabile imputato dell’architettura strumentale di Amen Seat è l’altra anima del duo, Wobbly, che sull’incisione fa un doppio lavoro, saggio e attento. A volte compone delle coraggiose acrobazie di musica concreta, satura delle frequenze pastose del basso di McFarland e dei laterizi spezzati di un mix brusco e pieno di eventi sonori, raggiungendo così un risultato grasso e strutturato come un vino marcito il secolo scorso: è il caso di brani clamorosi come Surface, Obligatory e quell’assoluto capolavoro di The Broadcast. Altre volte il campo sonoro tende ad appiattirsi e a sedimentarsi in una forma più carezzevole e sognante, al limite più creativo del trip hop, come in Argue Back o Plague Time. Altre volte ancora le scelte di Wobbly e la linea di flauto di Brzytwa rimandano a certi movimenti di videogame music di anni ‘90 e 2000, con bollori di synth e passaggi ritmici che ricordano molto alcuni pezzi in tracker che si potevano ascoltare nei vari Donkey Kong Country, o in alcuni cult della PS1 e dello SNES (Hymny potrebbe facilmente introdurre il main menu di un JRPG di quel periodo). E ancora, pagnotte di glitch microtonali, momenti di cripto-minimal wave, cortecce di freeness scolpite negli incavi delle ritmiche di Daniel e Fogel… Non basta ascoltare una dozzina di volte questo album per esaurire il racconto che ne facciamo a noi stessi.
E in tutto questo rimane nell’occhio del ciclone l’espressività maniacale di Brzytwa, che si arrampica sui ghiacci degli arrangiamenti del duo, striscia come un conato di azoto liquido, contorcendosi, seducendo, strillando il suo panico esistenziale tra l’horror vacui di una metà del disco e i corridoi alienanti della sua altra metà. L’esperienza degli Amen Seat è impagabile, spigolosa, stridente, trascinante, per certi versi sublime e nauseante. Provare per credere.