YOUNG FATHERS – HEAVY HEAVY
L’art pop degli Young Fathers ha sempre avuto del potenziale. È una musica sfilacciata ed effimera, composta da elementi semplicissimi se presi individualmente, che però vanno a creare sensazioni e panorami molto particolari quando stratificati nella giusta maniera. La radice di questo approccio va cercata nelle grandi menti pop dei noughties, due su tutte gli australiani Avalanches e il Damon Albarn della golden age dei Gorillaz. Nonostante si parli di nomi famosissimi, capita davvero raramente di ritrovare questa mistura di influenze in altri dischi, almeno per quanto riguarda le finalità espressive della trama musicale: sia l’ex-frontman dei Blur che i maghi della plunderphonics nuovo millennio hanno infatti lasciato grosse impronte a livello tecnico e stilistico, ma pochi artisti sono poi stati capaci di dare quel particolare sapore a beat e campionamenti. Il pregio migliore degli Young Fathers è invece proprio quello di essere riusciti a seguire questo sottilissimo fil rouge, un’influenza contemporaneamente così caliginosa da non poter essere descritta in maniera puntuale, eppure così pervasiva da sembrare palese fin dal primo ascolto.
Avventurandosi tra i brani di Heavy Heavy o anche del precedente Cocoa Sugar salta subito all’orecchio l’importanza della ripetizione: i pattern ritmici sono brevi e ossessivi, e vanno a intersecarsi con campionamenti e arrangiamenti altrettanto brevi dando al disco un senso di urgenza e sfuggevolezza. Le voci sono invece più canonicamente calde e intense, e mantengono saldo il piglio british nel passare da orazioni soul a cadenze R&B, intersecandosi spesso e volentieri con innesti corali. Tutta questa baraonda di influenze e agganci va a comporre una musica perfettamente a metà strada tra l’hip hop sperimentale, la plunderphonics e il pop più particolare e freak. La differenza sostanziale tra i due lavori, e la prova della versatilità espressiva del particolare approccio al pop degli Young Fathers, sta nel tipo di panorami che il trio scozzese riesce a comunicare in progetti diversi. Cocoa Sugar è un lavoro più scuro e uncanny, dove melodie apparentemente innocue vengono contrapposte a sample al limite dell’inquietante; inserendo questo contrasto nel modus operandi compositivo descritto in precedenza, gli hook finiscono per somigliare alle melodie di strani carillon, e le influenze soul e gospel sembrano perdere parte del loro calore, quasi risuonassero in un vuoto cosmico. Heavy Heavy schiarisce parzialmente questo approccio, anche se il cielo sotto cui opera rimane comunque nuvoloso; i brani paiono ancora più compositi, una musica frantumata in migliaia di pezzi e poi ricostituita mettendo alcuni tasselli chiave volutamente fuori posto. L’influenza dei due giganti sopracitati si fa in questo caso più riconoscibile, coi cori di Tell Somebody diretti discendenti dei brani a chiusura di Demon Days, e le esortazioni estatiche di Holy Moly che potrebbero stare senza fatica su We Will Always Love You.
Sebbene la musica della band presenti tutte queste caratteristiche intriganti e particolari, non si può non avere la sensazione che manchi della vera carne da mettere al fuoco. Questa rapidissima manipolazione del materiale sonoro, i flirt fulminei tra rumore e melodia, quest’emotività quasi prismatica è tanto efficace a catturare l’attenzione quanto complessa da plasmare in un lavoro che abbia corpo e risulti memorabile. Dopo l’ascolto, Heavy Heavy pare infatti indugiare ai bordi della coscienza come una foto venuta sfocata, incapace di trasmettere i suoi pregi nella loro interezza. Se solo ci fosse un poco più di variazione nella struttura dei brani, magari delle tracce che lasciano all’ascoltatore il tempo di respirare e metabolizzare meglio quello che succede, tutto il disco ne trarrebbe probabilmente beneficio – c’è da sperare che il prossimo progetto faccia tale passo avanti.