CONTAINER BRUTTO

KAMASI WASHINGTON HA FATTO DEI PASSI AVANTI, MA POCHI

KAMASI WASHINGTON – HEAVEN AND EARTH

Young

2018

Spiritual jazz

Heaven and Earth, l’ultimo disco di Kamasi Washington, è uscito da una settimana scarsa ma dalla stampa che conta è stato già decretato come un nuovo centro – ed è quindi lecito aspettarsi che sarà un nuovo trionfale successo di critica e pubblico (perlomeno anglofono). Pitchfork gli ha già assegnato l’etichetta “best new music” di rito, mentre il Guardian l’ha promosso, manco a dirlo, celebrandone le implicazioni politiche (come il testo «Our time as victims is over / We will no longer ask for justice» che Washington ha inserito nel rifacimento di dieci minuti del tema principale di Dalla Cina con furore che apre il disco). Rispetto ai tempi di The Epic, però, qualcosa sembra cambiato: Rolling Stone, pur accodandosi agli apprezzamenti, comincia a nutrire qualche sospetto riguardo lo status “messianico” di Washington nella scena jazz contemporanea – secondo Hank Shteamer, Far from Over di Vijay Iyer e il recentissimo Collagically Speaking degli R+R=NOW sono più esemplari di ciò che significa “suonare jazz” negli anni 2010s. In generale, sembra che nell’ultimo periodo si sia creata una risicata – ma estremamente rumorosa, perlomeno in certi salotti “intellettuali” online – minoranza che per reazione a tutta l’ondata di retorica che ha sostenuto Washington fin dall’uscita di The Epic lo ha sostanzialmente bollato come un impostore senza talento. C’è da dire che molto spesso i sostenitori di questa visione, per quanto molto più affine alla nostra rispetto alla vulgata mainstream su Washington come salvatore del jazz moderno, si muovono seguendo le mode in maniera non troppo dissimile di quelli dall’altra parte della barricata, e questo perché essenzialmente l’inferno sono gli altri.

Mettendo da parte le considerazioni di contorno, che cos’è cambiato nell’opera di Kamasi Washington dalla sua irruzione sulle scene nel 2015 ad oggi? Heaven and Earth sembra suggerire che, in fondo, non ci sia stata chissà che sostanziale evoluzione della sua musica: guardando ciò che ha offerto in questi anni con The Epic, con l’EP Harmony of Difference dell’anno scorso e ora con quest’ultimo album, la sensazione è quella di essere alle prese con un musicista deciso a perseguire, fin dal suo esordio, un’estetica e un’idea musicale ben precisa, che viene affrontata ogni volta dalla stessa prospettiva con poche e marginali novità introdotte tra un’uscita e l’altra (o forse, più semplicemente, Washington è prigioniero di ciò che il pubblico indie si aspetta da lui – ma qui si finisce nel campo delle illazioni). Heaven and Earth non rinuncia minimamente alle ambizioni più tronfie del suo illustre predecessore: i synth ariosi, i sofisticati crescendo orchestrali, le imponenti architetture corali, le lunghe improvvisazioni di oltre dieci minuti fanno ancora saldamente parte del DNA musicale di Washington, e ormai sembra inutile anche aspettarsi altrimenti. Pure il concept che accompagna questo nuovo album, con una prima metà (Earth) più nerboruta e rutilante per descrivere la realtà immanente di Washington, e una seconda (Heaven) fatta di celestiali celebrazioni vocali, densi arrangiamenti sinfonici e trame di sintetizzatori a suggerirne invece l’individualità “spirituale”, si colloca perfettamente all’interno dell’estetica spiritualeggiante e mistica un tanto al chilo che Washington ha confezionato nei suoi primi due lavori. E, pur essendo “solo” un doppio, Heaven and Earth dura a malapena una scarsa mezz’ora in meno rispetto al suo illustre predecessore – e questa differenza di minutaggio viene pure annullata se si conta che nell’edizione fisica vi è un terzo disco “segreto” dalla durata di circa quaranta minuti, ottenibile letteralmente scorticando la confezione dell’album (anche se a partire dal 29 giugno è stato pure rilasciato come EP a sé stante sulle principali piattaforme streaming). Vale la pena sottolineare che anche questo terzo disco, intitolato invece The Choice, trova una sua scaltra collocazione all’interno del concept, come indicato implicitamente anche da Washington stesso quando afferma «Who I am and the choices I make lie somewhere in between [the Earth and the Heaven]».

Arriviamo infine nel dettaglio alla musica di Heaven and Earth. Che, con tutti i suoi innegabili difetti, nei suoi momenti migliori mostra una creatività e una visione ben più lucida di quanto non proponesse il materiale migliore di The Epic. Forse Kamasi Washington vuole scrollarsi di dosso le critiche dei suoi detrattori riguardo la poca padronanza del linguaggio jazz e la derivatività della sua proposta musicale, oppure è semplicemente maturato come strumentista e band leader, ma nei momenti più propriamente jazz la performance del suo gruppo appare più efficace di quanto non apparisse su The Epic, e certamente più incisiva di quanto non lo fosse su Harmony of Difference. A suo modo, Kamasi Washington tenta un’opera di recupero dell’afrocentrismo del jazz degli anni Settanta (vedasi i diversi lavori di Sun Ra o i dischi maggiori della Pan Afrikan Peoples Arkestra di Horace Tapscott), aggiornandolo e riadattandolo in un contesto consapevole delle ultime tendenze popolari della musica nera quali r&b, neo-soul e hip hop – che Washington conosce bene, viste tutte le sue collaborazioni con Kendrick LamarThundercat e Lauryn Hill – e soprattutto delle battaglie di emancipazione del movimento Black Lives Matter che queste spesso propugnano. In diversi episodi di Earth, vedasi Tiffakonkae o The Invincible Youth, Washington giunge a un’interessante sintesi del jazz spirituale di derivazione post-Coltraniana (quindi Pharoah Sanders, le registrazioni Milestone di McCoy Tyner e la musica di Billy Harper), del jazz elettrico di Herbie Hancock e del Sun Ra di Lanquidity, nonché del jazz-funk dei lavori CTI di Freddie Hubbard. Di quest’ultimo, Washington reinterpreta anche la classica Hub Tones del 1962 (non a caso, la title track di quello che fu forse il primo disco di Hubbard a reinventare il suo poderoso idioma bop alla luce delle recenti innovazioni armoniche modali di John Coltrane), rimediando alla non banale mancanza di solisti tecnicamente al livello di Freddie Hubbard e James Spaulding con l’intrigante aggiunta di percussioni latine al fianco del groove ritmico hard bop. Purtroppo il numero di questi episodi davvero riusciti è in netta minoranza rispetto alla mole di materiale effettivo che appare su Heaven and Earth. Specialmente nella metà di Heaven, Washington sfodera una sequenza ragguardevole di soluzioni estremamente kitsch – vedasi il vocoder su Vi Lua Vi Sol, che riporta alla mente memorie tremende di Random Access Memories, o i pomposi inserti corali che minano la pur solida performance di Song for the Fallen, o ancora il chorus melenso di Show Us the Way. Non è un caso che le parti peggiori dell’album si trovino proprio nella sezione che si avvale con più decisione di interventi vocali, sintetizzatori, e orchestra: il gusto di Washington in questi arrangiamenti richiama sì Sun Ra (questa volta quello di Space Is the Place) o i lavori con gli archi di Alice Coltrane, ma queste influenze sembrano sporcate da tentazioni broadwayane che appaiono come una degenerazione dell’opera di Gerald Wilson (con cui Washington ha lavorato agli inizi della sua carriera, ormai quindici anni fa).

A questo punto non sembra lecito aspettarsi un cambio di rotta drastico da parte di Kamasi Washington nel suo futuro come leader: magari non pubblicherà in continuazione doppi e tripli album dalla durata di tre ore, ma appare chiaro che ha trovato una propria cifra stilistica in questo incoerente connubio di black music e velleità orchestrali. Chi è interessato a come potrebbe essere la musica di Kamasi Washington spogliata di tutti i suoi orpelli più pacchiani dia una chance a The Optimist, session registrata una decina d’anni fa ma pubblicata solo quest’anno a nome di Ryan Porter, che della band band di Washington è il trombonista. Per il resto, e soprattutto per quanto riguarda tutti gli inevitabili proclami a riguardo di Kamasi Washington come nuovo salvatore di una scena jazz di cui si ignora completamente non solo il presente, ma anche il recente passato, rimane solo da constatare che il nostro articolo di un anno fa rimane ancora, tristemente, molto attuale.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia