JOHN AYLWARD – CELESTIAL FORMS AND STORIES
“Avvicinamento non vuol dire riduzione o ironia: siamo in un universo in cui le forme riempiono fittamente lo spazio scambiandosi continuamente qualità e dimensioni, e il fluire del tempo è riempito da un proliferare di racconti e di cicli di racconti”
Italo Calvino
Quest’anno abbiamo recuperato un disco di cui si sta parlando zero, di una realtà che tutto sommato non fa parte del grande roster internazionale di cosa è IN e cosa è OUT, di un genere che noi trattiamo spesso ma che altre zine ignorano totalmente, di un autore che come mestiere specifico fa il professore associato di composizione in Massachussets. Oggi parliamo di Celestial Forms and Stories, disco di cinque registrazioni di musica da camera distribuito da New Focus Recordings, diretto e composto da John Aylward, eseguito da formazioni di musicisti che operano nel Klangforum di Vienna. Un disco che ci è piaciuto di brutto.
Prima di concentrarsi sul lavoro di Aylward è opportuno fare un breve volo d’uccello sulla New Focus Recordings, etichetta d’elezione per Celestial Forms and Stories. La label è stata fondata nel 2004 dal chitarrista Dan Lippel e dal compositore Peter Gilbert; nel quasi ventennio di attività ha rilasciato più di trecento dischi e attualmente va avanti a un ritmo che rasenta l’album ogni dieci giorni. A New Focus sono stati dedicati un interessante bandcamp daily nel 2021 e una lunga raccolta di pezzi su avantmusicnews, recuperateli. In breve, l’etichetta stanziata a New York vuole coprire un vasto catalogo di lavori di tarda avanguardia, ha trattato ad esempio con molti affiliati dell’International Contemporary Ensemble (qualche nome: Dai Fujikura, Claire Chase, Du Yun…) e allo stesso tempo ha ospitato negli anni decine di compositori più periferici, in un fiorire di musiche unite da un grande afflato modernista, minimo comune denominatore dell’etichetta. La New Focus non si limita al catalogo principale, ma distribuisce attualmente svariate sotto-etichette, come la TUNDRA (che distribuisce sempre materiale dell’ICE), la SEAMUS (branca sulla musica elettroacustica), la Olde Focus (che si occupa di dischi archival rilasciati oggi), la Minabel Recors (concentrata sui lavori di Fujikura) e l’etichetta partner Furious Artisans, tutte succursali che vale la pena seguire se il manifesto della New Focus vi risuona.
La possibilità di seguire passo passo l’etichetta su di un aggregatore come bandcamp risponde alla sfida più epocale della classica contemporanea, che deve risultare sempre meno esoterica al grande pubblico: il fatto che pochi approccino il genere per contenuti “difficili” o scandalosi è una leggenda metropolitana. La verità è che la distanza originaria tra la classica contemporanea e l’ascoltatore medio è stata sempre radicata in un certo classismo ereditato, che traspare soprattutto dall’assenza di proposte musicali che si possono sperimentare senza aprire il portafogli. Lippel e Gilbert si accodano a quella che è una delle tendenze più degne dell’ultimo periodo – lo streaming totale – e contribuiscono a dimostrare che questa è una strada ampiamente percorribile. In questa foresta di dati sonori non è difficile trovare delle personalità che aprono una radura fuori dall’ordinario.
In questo caso la radura è aperta da John Aylward alla direzione di alcuni musicisti del Klangforum di Vienna (Vera Fischer, Olivier Vivarès, Markus Deuter, Bernhard Zachhuber ai fiati – Sophie Schafleitner, Andreas Linbendbaum, Dimitrios Polisoidis agli archi – Björn Wilker alle percussioni e Florian Müller al piano).
Aylward è un pianista e compositore nativo dell’Arizona, attualmente professore associato di composizione alla Clark University, in Massachussets. È attivo su New Focus dal 2020, ma le prime composizioni che ha lasciato al pubblico risalgono al 2010. Si specializza nei lavori da camera durante tutto il decennio scorso mentre lavora su quello che ad oggi è il suo pièce de resistance, Angelus: un monodramma descritto dall’Ecce Ensemble (di cui Aylward è fondatore e direttore) e dalla soprano Nina Guo. Le ricerche del compositore statunitense sono particolarmente cerebrali in ogni occorrenza: Angelus è un lavoro straziante che affonda i suoi riferimenti culturali nei movimenti di intellighenzia della prima metà del novecento e del fin de siècle. Le ispirazioni colte di Aylward spaziano qui dal lavoro omonimo di Paul Klee ad Adrienne Rich, da Nietzsche, Schopenhauer, Jung fino al Benjamin del suo Angelus Novus, dal Fedro di Platone all’Angelus stesso di tradizione cattolica. Una lunga stringa di nomi che non fa molta giustizia al monodramma in sé, che raggiunge una dignità teoretico-musicale senza ricorrere a chissà quali santi in paradiso. In Angelus la voce di Guo, i fiati della Ecce Ensemble e soprattutto i colpi di teatro concretizzati nelle percussioni di Sam Budish si scontrano con una forza bruta che non lascia troppo spazio a quelle architetture ermeneutiche che risultano lontane dal materiale sonoro. L’astrattezza della ricerca filosofica e umanistica all’infuori delle composizioni è una costante del lavoro di raccolta di Aylward, che raggiunge in Celestial Forms and Stories il suo tipping point. Allo stesso tempo, se la fatica del concetto si evolve in una nuova dimensione, nel disco uscito quest’anno per New Focus la musica non ne risulta più così aliena: in Celestial Forms and Stories la bussola data dal materiale d’ispirazione è un ninnolo prezioso che può portare l’esperienza d’ascolto a nuove aperture.
Qui la concordante di concetto del disco è da tutt’altra parte rispetto a quei sermoni in Sprechgesang che troviamo su Angelus. Il materiale di partenza è la mitopoietica di Ovidio, che si riflette nei nomi originari dati ai brani eseguiti dal Klangforum: Daedalus, Mercury, Ephemera, Narcissus, Ananke. La descrizione acustica di Aylward, sebbene germini dalla fonte del poeta romano, non si appoggia alla sua versione tradizionale, ma passa dal tornante del lavoro di critica effettuato da Italo Calvino nel suo Ovidio e la contiguità universale e nelle Lezioni americane. I temi di molteplicità, leggerezza, contiguità sono le oscillazioni principali da cui prende linfa l’interpretazione di Aylward, che non fa mistero della particolare difficoltà che taglia i suoi brani. Brani, che, in questo modo, si separano di più ordini dai loro referenti originari, in una tipica operazione post-moderna che rischia di avvicinarsi molto di più al gioco di specchi che alla concretezza di contenuto – proprio come era accaduto in Angelus.
Cito il presskit scritto da Lippel che si trova sul bandcamp del disco: “John Aylward’s Celestial Forms and Stories is a musical expression of a literary analysis of a classic Roman retelling of Greek myths. If that sounds like it will put the listener at several steps of remove from the original source of inspiration, it should. Aylward’s intention is not to merely portray the luminous complexity of ancient Greek characters such as Narcissus and Mercury, but to participate in an evolving reanimation of these stories”
Più che a una linea guida per l’ascoltatore siamo davanti a una discolpa accademica atta a portare l’interessato nel laboratorio di composizione per sanarsi dai fraintendimenti. Se stiamo parlando di Celestial Forms and Stories su queste pagine, d’altra parte, è scontato che la componente prettamente musicale del disco ha avuto modo di emergere in tutto questo fumo. Proprio a partire dalla musica stessa, la decostruzione di second’ordine di Aylward si può deformare un’ultima volta, stavolta a nostro beneficio: la chiave di lettura che troviamo nel libretto è molto indeterminata. Questo anelito metamorfico ci permette di approcciare il disco con un buon carico concettuale: possiamo ascoltare le rimanenze della decostruzione (di una decostruzione) e contribuire allo sforzo interpretativo con un’ulteriore passaggio, ricucendo testi e suoni nella nostra personalissima lettura. Una musica da camera stimolante tanto per i timpani quanto per quello che c’è in mezzo ad essi. Ma soprattutto per i timpani, dai. Evitiamo di cadere nella trappola.
Le cinque parti della release si presentano in ordine quasi cronologico, con due brani in quartetto (Daedalus, Mercury) e due in settetto (Narcissus, Ananke), intervallati da un Ephemera particolarmente pregevole per clarinetto basso e violoncello. La metamorfosi ovidiana è il primo strumento di avanzamento dei brani, che si evolvono e tornano sui temi iniziali con una certa leggerezza – e questo, invece, è uno dei leit-motiv calviniani.
Daedalus (2016) e Mercury (2014) sono due pezzi espressionisti ed espressivi. Il primo affianca un incerto incedere degli archi, quasi a ricalcare le macerie fantasmatiche di un labirinto, a dei colpi di fiato più organolettici, che nel corso del brano si riverseranno nei loro comprimari a corde tramite il pizzicato brutale. Questo ribaltamento di prospettiva, cifra compositiva che attraverserà tutto l’album, tende qui a sfaldarsi in ogni momento d’incontro, in cui la struttura del quartetto si degrada in un pulviscolo più libero e indiscreto. L’interplay bellico di fiati e archi mette in campo parentesi e fraseggi che dipingono tregue inquietanti, ad anticipare in struttura il grandissimo lavoro che verrà fatto nei brani finali del disco.
La contrattazione un po’ sofferta di Daedalus lascia presto il campo alla acuta interpretazione di Mercury, in cui negli echi stravinskyani dei clarinetti si descrivono i continui lamenti in glissando di Schafleitner e Lindenbaum, veri padroni tematici di tutto quanto il brano. Nel corso del pezzo i ruoli del quartetto si sovvertono ancora una volta e la tessitura melodica viene affidata alla vaghezza dei fiati, mentre i droni e le botte incoscienti degli archi raccontano i paesaggi volatili di Mercurio e la sua natura più clandestina – un tentativo di iterare lo spettralismo che accomuna le prime due tracce. A coprire la distanza con il primo brano, Aylward sceglie di ribaltare ancora la composizione, che si chiude con un grave bordone su cui si spegne tutto il quartetto.
Lo spazio di Ephemera (2014) è probabilmente il più suggestivo di tutto il disco, uno spartiacque reale tra le composizioni del 2014-2016 (le più intimiste e cervellotiche) e i due pezzi costruiti nel 2018-2019 (più completi, appetibili). Un litigio serratissimo tra il clarinetto di Olivier Vivarès e il violoncello di Andreas Lindenbaum ribadisce le tematiche del disco a metà percorso. Ephemera è forse il materiale più ispirato e semplice della suite, affidata a questo confronto parossistico tra un clarinetto basso a singulti spezzati e un violoncello ansiogeno di lunghi tremoli e terzine capricciose. Nei silenzi di Ephemera si gioca una partita atroce, uno dei picchi di Aylward: l’intensità alla base di questo dialogo trascende a sua volta in un buon punto di partenza per la grandiosità delle due registrazioni successive, che da sole fanno l’album.
Narcissus (2018) va oltre al mito e alla sua decostruzione calviniana: il brano per settetto si comincia ad avvicinare per dimensioni dell’organico all’orchestrale già sentito in Angelus e l’interplay da camera lascia il passo ad un lavoro più corale, costruito sulle premesse della prima parte di Celestial Forms and Stories. Il contrappunto tra archi e fiati viene interrotto in continuazione dalle percussioni, che si introducono come terzo incomodo a sfollare completamente qualsiasi progetto di call-and-response, costringendo Aylward ad aggiungere un ulteriore strato di complessità al suo progetto di decostruzione. Narcissus tiene un passo schizofrenico, affollato, con cui raggiunge vette di grande melodramma: se l’impianto strutturale dei brani ricorda il Messiaen da camera, nel corso del pezzo arrivano escalation traumatiche che potrebbero addirittura fare il verso ad alcune cavalcate di Mussorgsky. Queste situazioni vengono spente in sottoboschi spaventosi, brulicanti, che portano con sé sempre una violenta potenza immaginifica. Il grido dei violini al termine di Narcissus apre le porte al pezzo dedicato alla necessità, Ananke (2019), il vigoroso finale delle registrazioni di Aylward.
Le percussioni di Wilker qui cedono il passo al piano di Florian Müller, che interviene in un accordo mostruoso e vitale tra le due triadi del settetto, per il resto immutato. La qualità dell’intervento del Klangforum qui è al suo massimo, in un’architettura affascinante e fatalista, per certi versi vicina alle maestosità di Elliott Carter. Ananke raccoglie una densità e una bellezza difficili da trattare nero su bianco senza approfondire: è il brano più lungo del disco (si assesta sui 15 minuti), si divide in tre sezioni di simile intensità, e manifesta tutto il potenziale policromatico della musica di Aylward. La componente mitica qui è scavallata: gli insistenti contrappunti e le armonizzazioni lineari che attraversano il pezzo sono l’unica figurazione della necessità che viene in mente. Potremmo azzardare che Ananke rovescia la decostruzione della decostruzione in uno dei suoi ammissibili riflessi, il costruttivismo duro e puro. A una sezione devastante e aggressiva per piano solista segue un fallout di tutto il settetto in alcuni minuti di grave confusione paranoica; si giunge da qui alla conclusione – fasulla, fuori contesto – con dieci note di viola ripetute all’eccesso. Lo spazio liminale battezzato dallo strumento vuole dichiaratamente concludere questo travaglio con un ultimo filamento di incertezza aperturista, possibilista. Direi che ci riesce a pieno titolo.
Chiariamoci: Celestial Forms and Stories non è esente da difetti, si nota. La chiave di lettura di partenza è sicuramente più ostica di quanto opportuno, nemmeno particolarmente attuale. Alcune leggerezze nella prima parte del disco impediscono ad Aylward di esplodere oltre i limiti di quello che può dare la sua musica di stampo sparso e sfaldato negli anni che corriamo – e ricorrere alle informazioni del libretto tende ad essere più una necessità che una piacevole escursione negli intenti dell’artista. A conti fatti, però, la potenza espressa da brani come Narcissus e Ananke, commisurata al talento naturale visibile in concretezza su Ephemera non può lasciarci freddi. Se aggiungiamo che i piatti migliori sono stati composti più recentemente possiamo evidenziare una bella maturazione nella musica di Aywlard che va di certo premiata: abbiamo un prof che, se riuscirà a indagare sugli stessi luoghi in cui lo portano Angelus, Ananke, Ephemera, potrebbe arrivare a diventare una voce importante del catalogo New Focus e finanche della classica contemporanea. Noi non smetteremo di seguirlo negli anni che verranno, e Celestial Forms and Stories entra di diritto nel novero dei dischi che accompagnano con dignità le vicende drammatiche di questo anno di merda. Come al solito, non ci resta che ringraziare e aspettare.