CONTAINER BELLO

JLIN SI È SUPERATA

JLIN – AKOMA

Planet Mu

2024

Footwork

Noi non ne abbiamo mai parlato su queste pagine, ma comunque se siete anche soltanto marginalmente attenti alle evoluzioni della musica elettronica (sul versante più ballabile o più concettuale che sia) i vostri radar avranno probabilmente intercettato il nome di Jerrilynn Patton – o meglio, il suo moniker Jlin – già ai tempi del suo esordio. La doppietta Dark Energy / Black Origami l’ha imposta immediatamente come una delle più importanti ed eterodosse innovatrici del linguaggio footwork, contaminando il senso del ritmo straripante di RP Boo con un’estetica più ambiziosa che traeva ispirazione concettuale e/o musicale dalle fonti più disparate – dall’IDM di Aphex Twin all’art pop hi-tech di Holly Herndon; dal minimalismo di Philip Glass a sample di musica baltica, africana e indiana. Negli ultimi anni, il suo spettro di applicazione si è ulteriormente ampliato, abbracciando con convinzione una declinazione estremamente modernista della juke, che sfrutta con sempre maggiore consapevolezza campioni e strumenti della musica classica europea: l’anno scorso la sua Perspective, seppur riletta con qualche modifica dall’interpretazione dell’ensemble Third Coast Percussion, è stata finalista al premio Pulitzer, in una decisione che è stata giustamente accolta con profondo ottimismo per quanto riguarda l’apertura verso la musica popolare da parte dell’establishment accademico. Ma già nella versione originale, pubblicata in formato EP lo scorso settembre, Jlin ha confermato una tensione sempre crescente verso un afflato più austero, sublimatosi del tutto nei splendidi poliritmi di idiofoni e percussioni della cristallina Duality, che concludeva il lavoro suggerendo un ponte tra la footwork e Steve Reich. 

Nonostante i numerosi riferimenti – concettuali e stilistici – al panorama colto e bianco che traspaiono nel suo lavoro, però, la poetica di Patton è sempre profondamente e orgogliosamente radicata tanto nella sua discendenza afro-americana quanto nella sua visione della musica come un fenomeno totale, a prescindere dai generi. È vero che Jlin vede la footwork come uno stile musicale che culturalmente deriva dalla tradizione africana, nonostante la provenienza materiale dal territorio di Chicago; eppure, la sua opinione su questa blackness intrinseca non entra in collisione con i vari innuendo lanciati a Stravinskij e Glass in interviste e press-kit. Come raccontava qualche mese fa a ResidentAdvisor, Patton adopera liberamente così tanti idiomi proprio perché per lei non vi è alcun grado di separazione tra elettronica, trap, musica nera o musica bianca; e il voler confinare la proposta di artistə afro-americani all’interno di un ristretto pool di linguaggi a propria disposizione è, ai suoi occhi, soltanto un’azione di segregazione per estrometterlə da un intero discorso culturale.

È da quest’ottica che meglio si inquadra la piccola rivoluzione che Jlin ha operato sul suo ultimo Akoma, dato alle stampe a fine marzo per la solita Planet Mu e il cui titolo è una parola twi per “cuore”. È il disco che più di ogni suo predecessore – pure più che Perspective – consacra le sue ambizioni come compositrice, il cui vocabolario si è esteso ormai ben oltre i confini della footwork che già le stavano molto stretti diversi anni fa. Il processo di astrazione che Black Origami aveva cominciato ad applicare all’edge più aggressiva di ascendenza juke di Dark Energy sembra essersi definitivamente compiuto: Akoma offre una lettura sofisticatissima e insieme abbacinante del ritmo dell’elettronica da dancefloor, nella sua accezione più ampia. Dentro la ragnatela di casse, tom e charleston sottoposti ai tagli ossessivi dei loop footwork finiscono ad esempio le algide trame IDM, la profondità dei beat house e i bassi storti di stampo wonky, arrivando a catturare anche gli hi-hat striscianti della trap e le forme ruvide della deconstructed club. Su Challenge (To Be Continued II) e Eye Am, invece, il riferimento ripesca direttamente dai groove della musica dell’Africa Centrale, che qui vengono proposti in una forma più vicina alla potenza materica degli strumenti in presa diretta rispetto ad altre interpretazioni maggiormente digitalizzate (pensiamo ad esempio al ricco panorama delle produzioni dell’etichetta Príncipe). Al contempo il sound design di Patton si è fatto ancora più variopinto e poliglotta, rinunciando spesso ai vuoti e alla spinta meramente percussiva che caratterizzavano Black Origami e sciorinando alcune delle produzioni più floride della sua carriera.

Solo occasionalmente i pezzi di Akoma sembrano dedicarsi a sviscerare una singola idea nell’arco di tutta la loro durata. Borealis, concepita originariamente per Fossora, sfilaccia un campione della voce di Björk in echi pitchati e alieni in un pezzo dal metro continuamente frastagliato e frantumato, in cui la linea melodica è dettata da un qualche legno (sempre suonato da Björk) che il trattamento radicale di Jlin rende completamente irriconoscibile. Altrove, come su Summon e sul featuring con il Kronos Quartet di Satellite, Patton focalizza l’attenzione sulla manipolazione di sample di archi e ottoni per piccoli quadretti di musica da camera. Se nella seconda l’esecuzione del quartetto rimane sostanzialmente riconoscibile e il tema soffre poco gli sfasamenti di tempo e il brusco lavoro di taglia-e-cuci di Jlin per adattarlo al beat ritmico, la prima appare invece più sinistra e torbida: l’ostinato del violoncello in primo piano, le occasionali deflagrazioni di ottoni e le dissonanze oltre il ponticello che si rincorrono sullo sfondo suggeriscono la musica orchestrale d’avanguardia del Novecento, con una gestione dei campioni che, volendo allargare lo sguardo, ricorda quasi la Andrea Akastia dei brani dei Vampire Rodents. La pulsazione vitrea solo vagamente accennata da Patton contribuisce ulteriormente al senso di inquietudine di quello che è, a oggi, forse il più felice incontro tra le doti come producer di Jlin e le sue velleità colte – ancora più che la pur ottima The Precision of Infinity, che chiude Akoma increspando il pianoforte di Philip Glass per adeguarlo alle alle sincopi instabili dei chop ritmici.

Il meglio del lavoro però si ha in composizioni come Iris, Auset, Grannie’s Cherry Pie, dove Jlin assorbe la lezione di decenni di musica elettronica, scolpendo un soundscape scintillante e proteiforme in cui baluginano – tra accelerazioni, rallentamenti, breakdown, sfasamenti temporali e metrici di ogni tipo – le incisioni Warp anni Novanta, le sonorità più aspre e acide della techno da rave, il groove della house di Chicago, la manipolazione timbrica della nuova musica post-club. Su Speed of Darkness e Open Canvas, in particolare, l’arte di produzione di Patton raggiunge i propri vertici: non solo la stratificazione dei campioni, delle trame di sintetizzatore, dei four-on-the-floor che si disgregano in incastri claudicanti di kick e snare si fa particolarmente pirotecnica, ma anche la struttura stessa si frammenta in una scrittura elaborata che attraversa gli umori e i suoni di tre o quattro brani diversi nell’arco di circa cinque minuti. È una interpretazione quasi cubista della footwork e della IDM – SputnikMusic azzarda, molto ingenerosamente, il termine gentrificata – che testimonia la nuova maturità acquisita da Patton e al contempo rappresenta uno dei vertici della frangia più intellettuale della musica elettronica a suo modo “ballabile” degli ultimi tempi. Potremmo sbilanciarci nel definire Akoma il miglior lavoro di Jlin finora dato alle stampe – sicuramente se la gioca soltanto con Black Origami – ma non sbagliamo nel definirlo uno degli eventi discografici cardine di questo primo scorcio di 2024: fatelo vostro.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia