CONTAINER BELLO

IMMAGINARE UNA NUOVA RHAPSODY IN BLUE È POSSIBILE

LARA DOWNES, SAN FRANCISCO CONSERVATORY OF MUSIC ORCHESTRA, EDWIN OUTWATER & EDMAR COLÓN – RHAPSODY IN BLUE REIMAGINED EP

Pentatone

2024

Classica contemporanea

È una notte di inizio gennaio a Manhattan. G., nel suo piccolo appartamento, annota furiosamente sul foglio frasi di ogni tipo: la scadenza per la consegna è tra poco più di un mese, e il lavoro da fare è moltissimo. P. gli ha chiesto qualcosa di estremamente complicato da scrivere, qualcosa di radicalmente diverso da tutto quello con cui si è cimentato finora. Eppure è solo grazie a I., suo fratello, che sembra essere finalmente scattata la scintilla solo qualche giorno fa: “Che cos’è la musica americana?”, era il titolo dell’articolo in cui si parlava di lui, del suo nuovo lavoro. Non avevano idea di cosa li aspettava.


Cento anni dopo, G. (cioè George Gershwin) è a tutti gli effetti un simbolo incontestabile della new music del Novecento americano tutto, e il suo nuovo lavoro (cioè Rhapsody in Blue) uno dei brani di musica classica più conosciuti, amati e fischiettati al mondo. La Rhapsody ha una storia estremamente complicata, che si lega costantemente a doppio filo con il discorso sociale e politico statunitense: dalla sua première, dove la critica si divise tra gli elogiatori dello spirito democratico e multiculturale della composizione e accaniti contestatori che accusavano Gershwin di aver voluto portare il jazz (all’epoca un genere “inferiore”) nei teatri d’opera; e poi, molto dopo la morte del suo compositore, un’altra ondata di critiche che si muoveva nella direzione opposta, accusando Gershwin di avere invece sottratto alle minoranze del popolo americano elementi fondamentali della loro musica per digerirli e presentarli al pubblico bianco e borghese di New York in una forma che loro considerassero accettabile.

Quest’anno ricorre il centenario della composizione di Rhapsody in Blue, e gli Stati Uniti non sembrano poi così cambiati, per certi versi: le tensioni politiche e sociali sembrano anzi essersi fatte più estreme, e le elezioni alle porte sembrano confermare ancora una volta una grande disconnessione tra popolazione e politica, tra la cultura e la sua rappresentazione nelle forme del potere.

È in questo contesto turbolento che Lara Downes, acclamata pianista di estrazione classica ha deciso di approcciarsi nuovamente alle note di Rhapsdoy in Blue. L’arrangiamento da lei commissionato al compositore Edmar Colón, pur rimanendo fedele all’originale (e come non potrebbe, vista la riconoscibilità dei tantissimi temi e dei motivi della Rhapsody) gioca a porsi ancora una volta la domanda che aveva dato l’ispirazione a Gershwin stesso; cos’è, oggi, la musica americana?

Ecco quindi che, fin dall’introduzione, chi conosce a menadito il “glissando” del clarinetto che apre lo scenario si trova spaesato: il ruolo degli ottoni era sempre stato così accentuato? Colón e Downes pescano a piene mani dallo stesso manipolo di tradizioni a cui Gershwin aveva già attinto, come il son cubano, utilizzando strumenti inediti all’interno della già poco ortodossa orchestrazione gershwiniana; ecco quindi che oltre a legni e violini compaiono le conga, che accentuano il carattere caraibico delle sezioni; ecco che un’altra sezione del brano pone al centro della scena i koto giapponesi, puntando l’occhio su una tradizione che nel contemporaneo è parte integrante e fondante dell’esperienza multiculturale americana.

Ovviamente, l’arrangiamento non brilla solo per questi momenti, ma anche per la grande libertà che viene concessa ai membri dell’orchestra: i tempi si dilatano, le frasi si ripetono, si accavallano, si rincorrono e si interrompono in un torrente di improvvisazioni e ricostruzioni che sembra dare una nuova e inaspettata continuità a una composizione che, come aveva dichiarato un peso massimo come Leonard Bernstein, è composta da un insieme di istanti che riempiono lo spazio all’interno del proprio contenitore. Downes è ben cosciente di questo aspetto conativo di Rhapsody in Blue, e riesce a creare un continuum in cui questo o quel fraseggio che l’ascoltatore aspetta trepidante fuoriesce dall’orchestra, magmaticamente trasformato, quando meno se lo aspetta. L’idea alla base di questa versione Reimagined è tanto democratica nello spirito quanto le intenzioni della sua originale composizione; i musicisti hanno lo spazio per brillare in angoli inconsueti di un percorso melodico e armonico che eravamo abituati a pensare come cristallizzato e immutabile. Avevo già scritto su Livore di tentativi di aggiornare la cifra della musica classica alle tendenze del contemporaneo e, ancora più indietro, di come dovessimo essere in grado di iniziare a pensare a nuove tradizioni che potessero espandere il canone del nostro tempo, per evitare di fossilizzarlo. Sono convinto che questa interpretazione di Lara Downes ricada perfettamente in entrambe le categorie: anche se sarà impossibile soppiantare la versione di Gershwin (ci mancherebbe altro), il tentativo di Reimagined va applaudito con fragoroso entusiasmo perché poche cose rendono eterno un brano di musica quanto la sua trasfigurazione in qualcosa di nuovo, inaspettato e sconosciuto.

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Jacopo Norcini Pala
Jacopo Norcini Pala