In questo piccolo scritto su Metal Machine Music cercherò di essere il più composto e puntuale possibile. Il motivo è semplice: essendo stato registrato da Lou Reed, personaggio tanto iconico quanto controverso, fiumi di parole vuote sono stati spesi da persone che non sapevano cosa dire. Ascoltatori e critici impreparati, per cui MMM ha spesso costituito il primo impatto con la musica noise, si sono sforzati anno dopo anno di inventare le maniere più simpatiche per esprime il loro disprezzo verso questo disco (alcuni, incredibilmente, si sforzano tutt’ora); intellettuali da strapazzo che apprezzano acriticamente qualsiasi sperimentazione ne hanno invece tessuto le lodi, solo per essere poi gambizzati da altri intellettuali da strapazzo nelle vesti di puristi desiderosi di insegnare al mondo la vera musica noise. Queste e cento altre categorie di persone hanno ciarlato per più di quarant’anni, complicando inutilmente un disco che sì, necessita forse di un orecchio abituato a un certo tipo di musica, ma non è poi così ostico. Il problema sta nel fatto che quando un album acquisisce una determinata nomea nel corso degli anni le persone perdono la capacità di attenersi a ciò che si può derivare dall’effettivo materiale, cogliendo invece l’occasione per esternare la propria personalità in relazione all’avere un’opinione positiva o negativa; automaticamente si infilano in una determinata categoria sociale e ne traggono forza, rifuggendo la possibilità di giudicare onestamente ciò che hanno di fronte. Cerchiamo di non commettere lo stesso errore.
Prendendola alla larga, in musica ci sono generi che necessitano di un po’ di pazienza per essere ascoltati. Sebbene esistano effettivamente alcune persone capaci di entrare instantaneamente in un disco noise, free jazz o di musica seriale, per la maggioranza degli ascoltatori ciò richiede constestualizzazione storica e tematica, nonché la volontà di mettere da parte le normali dinamiche di fruizione musicale. In questi e altri generi gli appigli forniti all’ascoltatore non sono semplici figure ritmiche, linee melodiche o arrangiamenti interessanti; hanno più a che fare con la timbrica, l’atmosfera o la spazialità delle singole componenti e del tessuto musicale che esse vanno a formare. Uno dei più comuni sbagli commessi da chi si avvicina a musica come questa consiste nel pensare che ogni cosa debba essere compresa e interiorizzata attraverso il ragionamento, che ci sia una sorta di onere intellettuale sulle spalle dell’ascoltatore; se per alcuni lavori particolarmente cerebrali questo può essere in parte vero, per una vasta gamma di altre opere vale quasi il contrario: buona parte dell’apprezzamento è viscerale, intuitivo, relativo alle sensazioni provate durante l’ascolto; d’altronde non avrebbe molto senso se sperimentazione e avanguardia, in molte occasioni nate dal desiderio di liberare la musica dai legacci formali del passato, costringessero il pubblico ad acrobazie intellettuali ancor più imperscrutabili. Un discorso come questo è per forza di cose molto generale in quanto si può potenzialmente applicare non solo a generi completamente diversi di musica, ma a tutta l’arte; serve però a mettere in chiaro che il dare un giudizio positivo su Metal Machine Music non deriva né da una comprensione musicale ultraterrena né dall’incapacità di ammettere agli altri l’insensatezza dell’opera. MMM piace perché è bello.
Tornando ai punti espressi nell’introduzione, l’apprezzamento del disco è reso più arduo dalla necessità di togliere dalla mente cavolate che con esso c’entrano poco o niente, come le circostanze attorno alla sua pubblicazione e le parole dello stesso Lou Reed. Alcuni artisti riescono ad essere piuttosto lucidi quando parlano di musica, dunque le loro interviste e dichiarazioni possono fornire una chiave di lettura interessante riguardo una particolare scena, oppure mettere in luce minuzie che spesso sfuggono a chi non partecipa da vicino a un determinato processo creativo; altri invece sono troppo imprevedibili, troppo inaffidabili, e il valore critico delle opinioni che esprimono – in particolar modo sui loro lavori – è pressoché nullo. Lou Reed appartiene alla seconda categoria. Le sue idee cambiano di continuo, il suo rapporto con pubblico e critica è sempre stato assai turbolento, le sue sparate a zero tanto frequenti quanto assurde. Basta sentire il live Take No Prisoners per capire come in questo caso le parole e perfino le intenzioni dell’autore vadano separate dall’effettiva validità del suo output artistico. Con ciò non voglio dire che Reed debba essere ignorato: è dopotutto un musicista di illimitato talento, il cui lavoro coi Velvet Underground resterà per sempre impresso come uno dei capitoli più sublimi della storia del rock; voglio solo evitare che i suoi deliri in merito a MMM, da lui chiamato “il primo disco heavy metal” e per il quale ha espresso amore e disprezzo a fasi alterne, contaminino le opinioni di chi magari non è abituato a sentire la musica noise. Il valore di questo lavoro non si esaurisce in un “dito medio all’industria musicale” o in un espediente per gabbare l’RCA, nonostante l’atto di distribuirlo tramite una major costituisca di certo una mossa shock fatta ben conoscendo le reazioni che il pubblico avrebbe avuto. L’anno precedente Reed era arrivato quasi in cima alle classifiche con un disco di pop rock innocuo (Sally Can’t Dance), la sua popolarità era ai massimi storici e il suo audience ben diverso da quello degli anni ’60, e lui lo sapeva. Pur calcolando tutto questo, il perché abbia deciso di rilasciare Metal Machine Music sotto queste modalità ha valore puramente aneddotico. Le osservazioni importanti si fanno guardando cosa c’è dentro a questi sessanta minuti.
Cosa c’è dentro a questi sessanta minuti? Prima di tutto uno dei primi esempi di musica noise di estrazione non accademica. L’approccio rumorista non era certo nuovo nel 1975, e anzi questo tipo di composizione poteva già vantare una storia lunga e interessante, costellata di capolavori ed eccessi ideologici, personalità ormai affermate e sperimentatori semidimenticati; non c’era ancora stata però una vera diffusione al di fuori della musica colta, un prodotto che riuscisse a traslare il noise senza concessioni formali o teoriche all’interno di un terreno nuovo quale la musica popolare. Lou Reed era la persona adatta: parte di questa attitudine era già presente nei Velvet Underground grazie all’input di John Cale e (in misura minore) di Angus Maclise, entrambi membri del Theatre of Eternal Music di LaMonte Young; verso la metà degli anni sessanta sotto questo moniker avevano sperimentato creando lunghe composizioni droneggianti con al loro interno timbriche rumoriste, e Reed ci era venuto a stretto contatto. Le premesse erano già presenti. L’importanza di Metal Machine Music sta nella capacità di distaccarsi ulteriormente da questo tipo di musica in termini timbrici ed estetici, allontanandosi più di qualunque altro lavoro simile dall’avant-garde di estrazione classica e fungendo da rompighiaccio culturale, aprendo cioè la strada a una nuova concezione del genere. Strumentazione e registrazione sono la chiave: tutto ruota intorno alla manipolazione del feedback che si crea tra amplificatore e chitarra quando sono troppo vicini; grazie all’utilizzo di varie accordature e posizionamenti diversi di microfono e strumenti si possono ottenere diversi tipi di rumore, che in MMM vengono poi sovrapposti e manipolati in fase di mixaggio. Il suono che ne deriva è squillante, ossessivo, schizofrenico ma comunque pieno di personalità: riesce a rimanere ben ancorato alla musica rock pur distaccandosene completamente, dilatandone una microcomponente – proprio il feedback di chitarra che durante esibizioni live ha fatto tappare le orecchie a tutti noi, almeno una volta – ed esplorandola in tutte le sue possibili coniugazioni. Tale interazione, solitamente nata da uno sbaglio o da un imprevisto, occupa comunque un posto ben preciso nella memoria collettiva, anche grazie alle intuizioni di visionari della chitarra come Jimi Hendrix che riuscirono a incorporarla nella propria espressione artistica; è questa familiarità a impedire che le sperimentazioni e le divagazioni contenute in Metal Machine Music perdano il loro significato, finendo per diventare inutile masturbazione. Per me è ragione sufficiente di apprezzamento.
Detto tutto ciò, c’è comunque la concreta possibilità che nell’andare ad ascoltare MMM questo vi faccia storcere il naso tanto quanto prima. È ok. Ci vuole un certo tipo di orecchio, a non tutti piace lasciarsi colare addosso il rumore. C’è chi ne ricava solo frustrazione e mal di testa. Per quanto mi riguarda è una componente preziosa e imprescindibile dell’ascoltare la musica, e mi piace ancora di più quando dal vivo ci sono anche le vibrazioni di corpi e terreno a completare l’esperienza. Proprio pochi giorni fa sono stato a vedere un set di Tim Hecker completamente al buio che comprendeva parecchie digressioni tra il noise e il glitch; i momenti che ho apprezzato di più sono stati proprio quelli in cui il suono ti pioveva continuamente addosso, come grandine che scroscia su una tettoia di plastica. Però, appunto, c’è chi è solo disturbato da queste sensazioni, e nessuna persona ragionevole si sentirebbe di reputare ciò un difetto o una mancanza. Bisogna fare un onesto tentativo, però, e anche se il giudizio resta negativo comprendere che chi apprezza il rumore non lo fa in malafede.