Dato che ormai è un quantitativo decente di anni che siamo in attività – seppur tra pause, paranoie e turbolenze – può risultare interessante prendere qualche scritto passato, andato perso nelle molteplici distruzioni di questo nostro progetto, e ripubblicarlo per vedere cosa è cambiato, cosa facevamo male e cosa bene. Stavolta ripresentiamo un articolo piuttosto denso volto ad analizzare il significato (o meglio uno dei possibili significati) di un disco italiano molto importante per noi.
Buona lettura.
Data originale di pubblicazione: 2014
[DISCLAIMER]
Secondo la metodologia storica di Weber per comprendere bene un fenomeno storico-sociale c’è bisogno di una costruzione finzionale e utopica di tipi-ideali e di un orientamento (inevitabile) dell’interesse dello storico (dalla mente finita) che dal fenomeno studiato (che in quanto fenomeno è presentato immerso nel caos delle sue relazioni, nella sua infinita quantità di cause e determinazioni) deve solo isolare ed estrapolare alcuni aspetti il più possibile oggettivi, mettendo in luce ciò che segue l’interesse della ricerca e glissando su ciò che fa parte dei dati inutili. I saggi sul metodo di Weber hanno avuto una risonanza fortissima nell’ambito delle Geisteswissenschaften, ma – a mio avviso – i loro punti cardine possono essere un ottimo strumento anche nell’esame critico dell’arte, o chi per lei. In questo articolo mi prenderò la libertà di trovare un filone interpretativo nel Sopravvissuto che non è ovviamente l’unico attore nella storia dell’album, ma che mi sembra opportuno seguire, perché gravido di riflessioni e – chemenefotte – bellezza. Buona lettura e se avete qualcosa da ridire ricordatevi che, in sintesi, questo è solo un modo di vedere una faccenda che ha tante chiavi di lettura.
[PROLOGO]
Io sono il sopravvissuto, sono quattro non uno.
Sono pieno a metà e non mi aspetta nessuno.
Un compatriota dell’inesistente, un contemporaneo di Niente.
Non soltanto il riso e l’allegra saggezza, ma anche il tragico, con tutta la sua sublime irragionevolezza, è uno dei mezzi e dei trucchi per conservare la specie. E quindi! Quindi! Quindi! Mi capite, fratelli miei? Capite questa nuova legge della marea e dei flutti? C’è un tempo anche per noi!
Tornando a Bologna, sulla seconda classe del Frecciarossa 9526, mentre borbottavo “you’re welcome” a cinque asiatiche preadolescenti a cui avevo ceduto il posto. Nella testa, rimbomba l’eco del Sopravvissuto. È troppo tempo che non ascolto i Marnero, sarà un mese, e queste nuove uscite del 2014 mi hanno rotto le palle. Fanno tutte schifo, anche quelle a cui rym dà più di 3.50 di media.
Ma non è certo un treno il posto adatto per riascoltare le parole di quelli che ormai sono diventati una parte più che consistente dei placebo che assumo per rendere più sopportabile le giornate, no, siccome il vero volto delle cose è al buio che si vede bene, me lo riascolto stasera, nella mia camera, bevendo del succo alla mela, con gli scintillanti testi alla mano e le gambe incrociate come gli indiani d’america. Qui, in treno, mi limiterò a sfogliare oziosamente frammenti della Gaia Scienza, dello Zarathustra, di Aurora, qualcosa di Umano, troppo umano. In fondo ho già studiato abbastanza per oggi, e posso concedermi lo sfizio di sentire sulle mie spalle il peso più grande.
Continuo a canticchiare nervosamente la prima strofa (l’unica che ricordi a memoria) di Zonguldak, ma il mantra non serve a niente, a riprova che il feticismo è fallimentare. Le asiatiche continuano a fare bordello.
[LOGO]
Il Sopravvissuto è uno di quei pochi dischi che riesco ad ascoltare come la musica va ascoltata: senza distrazioni, senza multitasking, occhi incollati al testo e orecchie incollate alle cuffie, qualche sneak peak del diario di bordo, tornarci sopra durante i pezzi strumentali. Il Sopravvissuto è anche uno di quei pochi dischi che riesce a darmi quello che la musica dovrebbe dare nel formato registrato: isolamento, interesse, una storia. Funereo, sul materasso senza coprimaterasso, una piazza e mezzo, il mio basso che occupa la mezza piazza e il computer che non ventila, attacco il sopravvissuto (come al solito. Se devo pensare ad io che ascolto nell’ultimo anno di solito ci sono solo flash di io che attacco il sopravvissuto). Le urla di John D. Raudo spaccano il mare di ghiaccio, e io sono subito dentro al primo quadrante (come al solito); mentre i Marnero suonano Come se non ci fosse un domani penso che ai tempi non ho dato la giusta portata a quest’album. La mia prima recensione è insipida, il primo posto della classifica italiana è quasi uno sberleffo per delle trame sonore del genere, per una creatività così prorompente, per un lirismo così originale e affascinante.
Il Sopravvissuto non merita il primo posto di una classifica, non merita una entusiastica recensione, non merita un’intervista farneticante, merita l’über, raggiunge l’oltre, si sposta a lato. L’album continua, imperterrito e violento, passa dalla bonaccia di (Come infatti non c’è) alla bufera di (Che non sono mai stato) e approda al porto delle illusioni. Quello che è rimasto un rischiaramento di sottofondo, una sensazione – quasi spiacevole – irrompe in tutta la sua potenza nell’ultima strofa, la reazione alla trasformazione materiale e concreta del tempo in anello. Il presentimento diventa conferma.
[…]Un serpente a spirale a cui dovrei strappare a morsi la testa[…]
Non capisco come abbia fatto a non accorgermene prima. Avevo ovviamente notato i casi umani, un po’ troppo umani che vengono citati in Zonguldak, ma pensavo che fosse un richiamo isolato, singolare ad una realtà poetica vicina a quella del naufrago – come nel caso della citazione della Recherche in Non sono più il ghepardo di una volta. Invece adesso è tutto più chiaro, quindi tutto più nero. Lo spettro di Nietzsche aleggia su tutto Il Sopravvissuto e la sua presenza è anche piuttosto ingombrante. Tremendamente ingombrante, tragicamente ingombrante. Il porto delle illusioni cita, giustamente, la risposta di Zarathustra all’eterno ritorno, il Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi! dell’oltreuomo che deve accettare il peso dell’eterno ritorno. Rieccomi a pensare ai casi umani di Zonguldak e mi dico che non può essere un semplice tributo al filosofo di Röcken, non avrebbe senso – sarebbe solo di cattivo gusto. Dalla scintilla del serpente nero, una valanga di intuizioni. Finora mi era sembrato che il Sopravvissuto fosse sì pieno di suggestioni filosofiche, l’ascolto mi aveva sempre lasciato uno sgradevole retrogusto esistenzialista, ma tutte le mie piccole speculazioni sul contenuto e sul significato dei testi dell’album sono state spazzate via dall’estrema chiarezza di tutto: Il Sopravvissuto non attraversa un percorso che non è mai stato battuto e che viene creato ad hoc per il suo dramma, il Sopravvissuto segue i binari già battuti dalla filosofia genealogica e dalla filosofia del meriggio di Nietzsche. L’eco è diventato parola, e ora che è buio, è tutto più chiaro.
Ho imparato che è dal fallimento che nasce l’azione
e che il vuoto è possibilità di creazione
Allora, al mio funerale, fra gli elogi e i pianti
di quelli che una volta erano stati i miei nemici,
mi sono sostituito al mio corpo nel sacco nero, e sono scappato da me.
E avere fede in qualche stella non lo so se mi conviene
che il vero volto delle cose è al buio che si vede bene.
Non c’è nessuna paura in questa notte senza luna.
Ora il tempo è circolare e l’orizzonte si sposta più in là.
Butta in mare il cannocchiale, nella spirale niente appare ciò che è in realtà.
In discesa in folle, pazzo per i pazzi,
folle per le folle.
[…]sono chiuse dentro unabottiglia delcazzoeporcoddio nemmeno lo sanno.
Non c’è più dubbio. Sembra che i temi affrontati nella Gaia Scienza e nello Zarathustra si siano animati e siano confluiti nella spirale del Sopravvissuto, recuperando le stesse suggestioni del lavoro di Nietzsche e costruendo una nuova storia sulle macerie della vecchia. I Marnero non riescono proprio a rimanere fedeli alla terra, ma recuperano la metafora della Gaia Scienza delle navi ormeggiate, della peregrinazione attraverso il mare dell’Ignoto e raccontano delle conseguenze che deve affrontare il naufrago che s’arrischia a togliere gli ormeggi dal porto delle illusioni.
Noi filosofi e spiriti liberi, alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora […] – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno – finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così aperto.
A questo punto dovrebbe essere chiaro che il naufrago universale è la versione dei Marnero dell’uomo che è stato inghiottito dal mare aperto del nichilismo attivo-estatico, cantastorie della distruzione delle metafisiche e della nuova navigazione fondata sul vuoto, avversario dell’eterno ritorno, profeta ed infine oltreuomo. A questo punto dovrebbe anche essere chiaro che i richiami Nietzscheani che venano tutto l’album non possono essere un semplice gioco di parole, un virtuosismo, ma fungono da carattere fondativo dell’intera esperienza del Sopravvissuto: una fondazione che non si perde in una triviale identità ma che matura un germe personalissimo e originalissimo che è il vero capolavoro dei Marnero.
Tra i brani che ho citato poco sopra gli echi della tragedia di Nietzsche sono evidenti: il vuoto come possibilità di creazione è esattamente la base del nichilismo dell’Aurora, il funerale del naufrago non è altro che la morte dell’uomo necessaria al superamento dell’Übermensch, la non-convenienza dell’avere fede in qualche stella – insieme al sentimento di smarrimento della mappa che dà il Nord sbagliato – non è altro che la conseguenza del crollo delle metafisiche della morte di Dio, quando in (Che non sono mai stato) Raudo urla tutto è da rifare sta urlando del peso e della fatica di una nuova creazione, ma il seme dell’oltreuomo è già presente nell’ultima parte del brano, visto che non c’è nessuna paura, in questa notte senza luna. Da qui la tematica già affrontata e accettata a malincuore dell’eterno ritorno nel Porto delle illusioni, e poi il Meriggio, drammatizzato nella velocità assassina di Rotta irreparabile, con richiami evidenti alle discese di Zarathustra dalla montagna al mercato, un’eco soffusa del frammento 125 dell’uomo folle e la comparsa degli sputi di sangue sulla grande città che è la grande cloaca dove si radunano schiumeggiando le sozzure, nonché sepolcro della folla come le chiese sono i sepolcri di Dio. Che Zonguldak sia una rinascita è evidente, la struttura ad anello del Sopravvissuto stesso non lascia spazio a interpretazioni diverse, l’oltreuomo è oramai formato e guarda con disprezzo le navi che rimangono ormeggiate – chiuse dentro una bottiglia – per poi riappropriarsi del suo nome, pieno a metà e contemporaneo di Niente.
Ma sarebbe una cazzata fermarsi adesso, così come è diventato evidente che Il Sopravvissuto viaggi sui binari di Nietzsche, allo stesso modo è diventato evidente che l’attrito dei binari è insopportabile per il naufrago, e che i momenti più belli dell’album siano stati scritti non come una ripetizione accademica in versi della filosofia di Nietzsche, ma come una reazione – potentissima – alla morte di Dio e alle conclusioni più tragiche della Gaia Scienza, di Aurora, di Così parlò Zarathustra. Del resto, le cronache del naufrago universale raccontano di ciò che succede a chi è tanto avventato da lanciarsi da solo nel mare aperto, senza una guida.
Il risultato del naufragio universale nel mondo sdivinizzato non è quindi un oltreuomo, la volontà di potenza viene cancellata e la possibilità di creazione sembra essere una menzogna; in Zonguldak il naufrago non abbraccia la vita e non ne condivide l’ebbrezza dionisiaca, è piuttosto sopravvissuto, ma stanco morto. L’intero quadro di Zonguldak sembra rappresentare il risentimento di un uomo che ha intrapreso la navigazione nel nulla, spinto, magari, da una kafkiana ascia nel mare ghiacciato, ma che come risultato è riuscito solo a rimanere in vita – nemmeno a morire. La quarta persona del Sopravvissuto lo riempie a metà – quando era già vuoto a metà – e lo rende un compatriota dell’inesistente: il valore aggiunto del nichilismo non è più un valore attivo e si rivela per quello che è: Nulla. Perfino il peso più grande dell’eterno ritorno sembra soccombere davanti alla tragedia del tempo lineare che attraversa tutto l’album – i tre Oceani – e il naufrago finisce in un circolo vizioso ad ammazzare se stesso, sparpagliato nel tempo.
Corpo di mille balene! Solo chi è fermo non sente le catene.
La guerra è dentro di me.
Il Sopravvissuto è dichiaratamente il secondo atto di una trilogia del fallimento. In questo specifico caso, nello scorrere di Zonguldak, nel genuino e insoddisfatto Che cosa mi resta? davanti alla manifestazione dell’eterno ritorno, nella stanchezza di arare il mare, il naufrago decide di fallire l’impresa più grande: l’accettazione del carattere bruto e insensato dell’esistenza, l’abbraccio della vita (che è il nemico) e il ritorno alla terra. Del resto, a un pirata la terra non interessa. La conclusione di Zonguldak non è altro che il frustrato ritorno negli infiniti e vuoti oceani del Niente.
[EPILOGO]
Sulla terra si scivola. È un globo rivestito da una sottile patina di sapone.Per stare in piedi bisogna andare in mare. Il mare è uno e sono molti. Il mare è sempre diverso, perché l’acqua non è mai la stessa ed è sempre la prima volta che la vedi. Ed il centro del mare è la prospettiva migliore, quella che apre al maggior numero di altre possibilità, e che lascia tutte le opzioni del Possibile e del Caso.
Il mare c’era prima del Tempo, e prima che il Tempo fosse diviso in tre parti: il passato come colpa, il presente come redenzione e il futuro come salvezza; perché il Tempo è solo una relazione e non esiste: nessuno può vivere nel passato, nessuno può vivere nel futuro, il Sopravvissuto di ieri è morto e il Sopravvissuto di oggi muore nel Sopravvissuto di domani. Il tempo è quindi solo la sostanza di cui è fatto il Sé, non una catena; la marea sono io, lo squalo sono io, la guerra sono io. E chi sono io? Lo saprò solo il giorno dopo dell’agonia, quando finirà l’orrore di essere e di continuare a esserlo. Mentre aspetto la morte mi libero dal lato oscuro della libertà e dalle catene che ho accettato consenzientemente e che mi sono messo da solo.
L’autodeterminazione è l’unica Possibile dimensione del presente.
Occhi bene aperti. Gli occhi sono l’unica parte del corpo che non invecchia mai.