POLLUTION OPERA – POLLUTION OPERA
Qualche mese fa ho speso poche parole sul mio profilo IG nel descrivere il nuovo sforzo combinato di Nadah el Shazly ed Elvin Brandhi e il meglio che sono riuscito a cavare è stato qualcosa simile a: non pensavo che il miglior disco dell’anno sarebbe suonato in questo modo. Questa recensione non sarà troppo diversa da una serie di lemmi derivati da questa frase, di per sé non particolarmente informativa. Il disco rilasciato dal sodalizio si chiama Pollution Opera, e vortica nello spazio concettuale di tutto ciò che è nero, appiccicoso, granulare e che dal punto di vista timbrico viene proiettato dalla dark ambient anni ‘10 e dall’harsh noise d’antan. Quel poco che è stato scritto in giro su questa mezz’ora di musica si aggira tutto quanto qui, tra Tartaro e caos, dissonanza e malignità, graffi e tosse. Però, astraendo un po’ dalle tematiche captate nei puri suoni, andando a guardare il curriculum delle due producer, cercando di guardare un po’ alla struttura, cambia a sua volta anche la fenomenologia interna di questi rumori, come si posizionano davvero nell’ascolto più appropriato.
Nella genealogia di el Shazly dobbiamo subito fare i conti con il famoso Ahwar, con la sua cervellotica scrittura applicata alle armonie classiche egiziane, il ventaglio di sample e strumenti in presa diretta da fare invidia a una grossa orchestra, lo spirito avant-jazz a fare capolino in più di una occasione. Elvin Brandhi, dall’altro lato dello spettro natura-cultura, mette in contatto la ruvidissima materia grigia della compagna con quel tipico aplomb misterico di chi ha deciso di piantare le tende in Hakuna Kulala. Nonostante il legame di quest’ultima con Kampala (ma anche quello di el Shazly, già curatrice del Nyege Nyege nel 2020) e nonostante il soggiorno ugandese durante la registrazione del disco e la collaborazione con ZULI, altro nome di punta di cui vi abbiamo già parlato, l’impressione chiave che emerge ossessionandosi su Pollution Opera è quella di una manifestazione molto più scivolosa e gelida sia rispetto agli arzigogoli da cui viene Nadah el Shazly sia rispetto alla body music decostruita che è possibile trovare negli ultimi lavori di Elvin Brandhi. Questo aspetto sdrucciolevole si nota tanto nell’uso dei suoni (pieno di slide tanto nei sintetizzatori in tremolo, quanto nelle percussioni gommose e nel canto pitch-shifted) quanto anche nel modo in cui la musica viene presentata, a singulti e singhiozzi, inciampicante e piena di vallate (Bite, Tusker Light). Si potrebbe parlare di deconstruction, ma non sembra il termine adatto in questo contesto.
L’approccio è profondamente narrativo, all’opposto del détournement. Poche volte in vita mia ho avuto a che fare con un uso così poco catartico del noise e così tanto positivo, un refurbishing dell’inquinamento acustico come pezzo di prefabbricato, allo stesso tempo consapevole dei suoi limiti (e da qui il carattere sdrucciolevole) ma teso alla realizzazione di un’opera che non può limitarsi a quella sciatta EAI da paper di ricerca che esprime tutto e il contrario di tutto. Basta ascoltare Cairo???, CRÎ Me A River, Attention!, per rendersi conto che siamo davanti alle urla e alle pressioni soniche più caratteristiche e tissutali che siano esplose nella storia della musica elettronica, per una volta una versione digitalizzata di quello che cerchiamo nelle band capostipiti del noise rock americano. Questo bizzarro riciclo del rumore ha un doppio effetto: ci avvicina (quantitativamente) e allontana (qualitativamente) da quello che a livello biologico è di solito un segnale di allarme. La buia fantasia del duo scade spesso nel grottesco e il collage a volte assume un volto quasi comico (Pollute Bold, Danse Le Flou, Your Tracks Are Too Dark), a generare una versione sotterranea delle sensazioni che si provano davanti al teatrino di marionette degli Amnesia Scanner, oppure una versione demenziale del terrore che si prova davanti alla musica di Nwando Ebizie. Tante stanze di Pollution Opera stratificano l’horror e la commedia una sopra all’altra, il rischio di scivolare negli interstizi di cosa le due producer intendano comunicare è sempre altissimo, ma la pena di ondeggiare nei rumori di questo disco è il raggiungimento di un deeper level of misunderstanding. Le urla e i sample noise vivono in questo stato sovrapposto di insopportabile e orecchiabile, ma questo dà troppo valore al risultato finale. Come per tutti i dischi ingombranti, a un certo punto è meglio smettere di capire.