MATT MITCHELL – OBLONG APLOMB
Di presentazioni, almeno su questo sito, Matt Mitchell non ne ha proprio bisogno: l’unico suo lavoro da (co-)leader di cui non abbiamo parlato approfonditamente nella nostra lunga retrospettiva sulla Pi Recordings, vale a dire il box set Snark Horse pubblicato insieme a Kate Gentile, era comunque finito nelle nostre classifiche dei migliori dischi 2021. Come compositore, ha infiltrato sempre più pervasivamente elementi e suggestioni provenienti dal progressive, dal metal, dall’IDM e dalla musica contemporanea in una complessa architettura di ascendenza post-AACM ed M-base, realizzando una delle espressioni più duttili e poliglotte dell’avant-jazz contemporaneo; come pianista, il suo prodigioso talento tecnico l’ha reso uno dei più richiesti sideman dell’intera scena della East Coast, prestando le sue doti anche a diversi titoli che consideriamo tra i parti più originali del nuovo jazz americano (peraltro, contribuendo in maniera fondamentale al loro successo artistico). Di conseguenza, Mitchell è da anni un nostro osservato speciale – e infatti anche il suo ultimo Oblong Aplomb era uno dei lavori che più attendevamo in questo 2023.
Tuttavia, per la prima volta da quando abbiamo cominciato a seguire Matt Mitchell, le nostre aspettative sono state parzialmente disattese. Oblong Aplomb è dichiaratamente pensato come un successore spirituale di Fiction, l’album che nel 2013 lo lanciò nell’ambiente di New York: entrambi sono dischi per un duo di pianoforte e percussioni, costruiti sull’elucubrazione libera a partire da studi e da materiale scritto da Mitchell per sfidare l’esecutore tanto a livello tecnico, quanto a livello di capacità di sposare improvvisazione e composizione. Non era un tema particolarmente à la page nel 2013 e a maggior ragione non lo è nel 2023, soprattutto considerando quanto Mitchell stesso ha fatto in questi dieci anni per superare questo supposto dualismo; ma dove perlomeno Fiction aveva rappresentato l’occasione per venire a conoscenza di uno dei più fulgidi talenti (all’epoca) emergenti del pianoforte jazz, Oblong Aplomb non offre prospettive particolarmente nuove da cui ammirare lati inesplorati della poetica di Mitchell. Al contrario, è un lavoro che, anche per via della dimensione molto ridotta dell’organico, suona piuttosto monodimensionale, il che è una novità assoluta nell’opera di Mitchell – se c’è un aspetto della sua musica che prima della pubblicazione di Oblong Aplomb non ha mai mancato di meravigliare e impressionare è proprio la ricchezza di colori, timbriche e umori. È un problema che viene ulteriormente aggravato dalla quantità di materiale: Oblong Aplomb è infatti un doppio album, inciso con due formazioni diverse. Nelle prime dodici tracce, che compongono Oblong, alla batteria c’è la compagna (credo anche di vita, se vogliamo fare un po’ di gossip) Kate Gentile; nelle seguenti dodici che formano Aplomb, invece, si può ascoltare nuovamente Ches Smith, che aveva accompagnato Mitchell proprio in Fiction. Totale: oltre centotrenta minuti di musica, giocati quasi interamente sulla stessa premessa, sulle stesse sonorità, sulle stesse scelte esecutive. Un po’ troppi, sinceramente.
Delle due metà di Oblong Aplomb, quella con Gentile è senza dubbio contemporaneamente la più interessante e la più estenuante. Mettendo in primo piano la componente percussiva del suono del pianoforte, in omaggio a un’estesa rete di influenze batteristiche che hanno formato l’estetica di Mitchell (da giganti come Tony Williams, Ed Blackwell, Andrew Cyrille e Barry Altschul fino a campioni contemporanei e post-moderni come Tyshawn Sorey, Dan Weiss, Damion Reid e Weasel Walter: la lista completa la trovate su Bandcamp), la musica di Oblong insiste caparbiamente sull’asprezza delle dinamiche e sulla complessità della pulsazione ritmica, con un arsenale di tempi composti, controtempi e dialoghi poliritmici con la batteria che rende i brani particolarmente indecifrabili. L’attacco di Mitchell allo strumento è uno dei più aggressivi della sua discografia, grazie anche ai frequenti cluster in fortissimo e all’utilizzo dell’intera estensione della tastiera, che finisce per esaltare il registro più grave del pianoforte (talvolta, la compenetrazione tra le frasi enunciate nelle ottave più basse e le frequenze dei colpi sulla grancassa di Gentile illudono perfino della presenza di un bassista in formazione); d’altra parte, la prestazione di Gentile è straripante, con un gusto fracassone per la doppia cassa, i piatti e i battiti sul rullante che rimanda anche a certo death metal (di cui, notoriamente, sia Mitchell che Gentile sono grandi fan). Pare una pacchia, ma nonostante un senso del ritmo che fa pensare più agli Autechre o alla New Complexity che al jazz, e nonostante gli evidenti richiami alle trame melodiche di Mitchell che abbiamo imparato ad apprezzare (per dire, verso metà di blinkered hoopla si percepisce di sfuggita il tema di brim, da A Pouting Grimace), il risultato complessivo non suona troppo più distante dalle improvvisazioni più torrenziali ed estreme del Cecil Taylor anni Ottanta in combutta con Paul Lovens e Tony Oxley. Per carità, Regalia e Leaf Palm Hand erano dischi gustosissimi, ma da allora sono passati trentacinque anni, forse si può pensare al binomio pianoforte/batteria in maniera più originale.
Aplomb, invece, gioca su binari un pochino più intelligibili, almeno dal punto di vista tecnico. Il pianismo di Mitchell in queste dodici tracce rimane ancora sostanzialmente duro, ma finalmente si abbandona a momenti perfino più lirici e sommessi (su doleful), mentre la maggiore varietà di percussioni adottate da Smith – con pure glockenspiel e vibrafoni che si avvertono in diverse tracce – dona ai pezzi di Aplomb una forma meno sperimentale e li fa percepire come brani dal profilo più compiuto. Come sempre, sono aggettivi che vanno pensati in relazione all’opera di una personalità d’avanguardia come quella di Mitchell – e infatti su Aplomb c’è pure spazio per un’escursione nella musica contemporanea più sparsa ed evanescente del Tyshawn Sorey di Verisimilitude (numen). Ascoltando di fila le due parti di Oblong Aplomb, si avverte la sensazione che nonostante la coppia Mitchell/Gentile dimostri l’affinità spirituale ed estetica più eclatante, al duo manchi la capacità di mantenere concretezza nella propria visione artistica. Troppo spesso i due si inerpicano verso territori troppo impervi e astrusi, dove invece la comunicazione tra Mitchell e Smith non perde mai di vista uno scopo ultimo più musicale – pur non essendo particolarmente innovativo o forward thinking. Probabilmente è solo un problema derivante dall’adozione di una formazione così contenuta, perché su Snark Horse (dove le tracce in duo erano un’esigua minoranza) certi difetti non si riscontravano affatto. Peccato.