CONTAINER BELLO

IL PRIMO GRANDE DISCO DI PATRICIA BRENNAN

PATRICIA BRENNAN – BREAKING STRETCH

Pyroclastic

2024

Avant-Jazz

Il nome potrà suonarvi nuovo, ma di fatto Patricia Brennan è una conoscenza di lunga data qui su Livore. Come tanti dei nomi jazz di cui abbiamo già parlato in termini entusiastici, anche lei è particolarmente attiva nell’ala più avant-garde del nuovo jazz newyorkese. È infatti lei a suonare il vibrafono nei dischi che hanno consacrato l’estetica di Matt Mitchell (ovvero A Pouting Grimace e Phalanx Ambassadors, di cui abbiamo parlato qui), così come in alcuni dei lavori più recenti della nostra amatissima Mary Halvorson (ovvero Amaryllis e Cloudward), per non parlare poi di varie apparizioni al fianco di nomi prestigiosi come Michael Formanek, John Hollenbeck, Anna Webber, Miles Okazaki.

Su tutti questi album, cimentandosi con vibrafono, marimba e (occasionalmente) con il glockenspiel, l’abilità come performer di Brennan si è distinta per un’interpretazione peculiare del ruolo degli strumenti idiofoni in un contesto improvvisato, attingendo tanto dalla tradizione accademica (lei si è formata come percussionista classica) quanto da quella jazz. La tela ritmica imbastita dal suo vibrafono ha il carattere virtuoso e policromatico di quella di grandi maestri dello strumento come Bobby Hutcherson e Karl Berger – anche se il suo approccio, più moderno, si avvale felicemente di più pedale e più drive elettronico per ampliarne la gamma timbrica. Al contempo, la sua formazione classica emerge dall’ampio utilizzo di tecniche estese, che vengono messe al centro dell’atto performativo fin dalla fase di composizione del materiale, a sfidare continuamente le possibilità dello strumento: Maquishti, il suo esordio solista del 2021, aveva votato quasi un’ora a questa unica missione, ma sinceramente può sembrare un po’ una palla se non si è impallinatissimi con gli strumenti idiofoni (e io non lo sono). Anche la differente sensibilità che traspare quando suona la marimba, con l’utilizzo di tecniche mutuate dal mondo classico come i corali, la rende un’esecutrice molto diversa da molti altri percussionisti jazz che invece approcciano la marimba come se avessero sotto mano un vibrafono.

Tuttavia, il senso ritmico che contraddistingue la Brennan musicista – che, per forza di cose, si riflette anche nelle parti assegnate ad altri strumenti dalla Brennan compositrice – è intrinsecamente latino, e risente di modelli provenienti da culture messicane, caraibiche e cubane come il son jarocho, la salsa e il danzón. Il dubbio che, in una musica tanto astratta e cerebrale quanto è quella di Brennan, riferimenti del genere vengano sciorinati esclusivamente per la sua provenienza da Veracruz (Messico) è lecito; eppure, non soltanto è lei stessa a rimarcare quanto queste influenze siano state fondamentali nella sua crescita musicale, ma anche in un disco di jazz sfilacciato e sparso come More Touch (Pyroclastic, 2022), talvolta subliminale al punto da lambire il solipsismo del riduzionismo, si percepisce tanto nel suo vibrafono quanto nelle parti di percussioni di Mauricio Herrera l’inconfondibile impronta del jazz afro-cubano. Non è un caso quindi che Brennan possa vantare di aver suonato anche con giganti del genere come Paquito D’Rivera e Arturo O’Farrill.

A due anni da quel lavoro – intrigante, ma non riuscitissimo – la Pyroclastic ha dato alle stampe un seguito intitolato Breaking Stretch, registrato nel settembre 2023, che rappresenta un’impressionante evoluzione della poetica di Brennan sotto tutti i punti di vista. Il quartetto che suonava su More Touch (oltre a ovviamente Brennan e il già citato Herrera, c’erano anche i bassisti Kim Cass e il batterista Marcus Gilmore) è stato ampliato a un settetto aggiungendo una rigogliosa front line di ottoni, con nomi pescati dalla crema del jazz della East Coast, allo scopo di coprire ogni possibile registro: a Jon Irabagon sono affidati il sassofono sopranino e contralto; a Mark Shim il sassofono tenore; ad Adam O’Farrill la tromba. Come ormai è abitudine per Brennan, la sua scrittura viene ricamata addosso alla line-up, facendo in modo di mettere alla prova la loro comfort zone mantenendo comunque la sicurezza di un risultato musicale di pregio – lo stesso titolo Breaking Stretch deriva proprio da questo modus operandi, volto ai limiti espressivi di ogni strumento coinvolto. Nel caso specifico, l’intenzione di Brennan – come dichiarato in un’intervista al sempre ottimo PostGenre – è quello di riuscire a convogliare, con soli sette elementi, l’intensità e il volume sonoro di un’orchestra.

Le strategie attuate per arrivare a questo obiettivo sono molteplici. Gli assoli e i call & response dei sassofoni di Irabagon e Shim saturano lo spettro timbrico dell’ensemble, dando così l’impressione che vi siano molti più ottoni a ribadire le loro arzigogolate linee melodiche. Nel frattempo, la tromba di O’Farrill – sempre virtuosa, serpentina ma anche misteriosa e lirica, nel solco della tradizione instaurata da Booker Little e portata avanti più recentemente da Dave Douglas – volteggia tra i registri dei due sax, colmando così un ulteriore vuoto nella palette timbrica del settetto: sentite come le voci della front-line si intrecciano su Los Otros Yo, o come Irabagon e Shim su Five Suns puntellano all’unisono l’assolo di O’Farrill come in una big band. Quando poi O’Farrill si avvale dell’elettronica per distorcere il tono della sua tromba – accade in Los Otros Yo, ma anche in 555 e in Earendel – il suo suono si fa irriconoscibile, più prossimo al turntablism che al jazz. Diverse volte lungo il lavoro (vedi di nuovo il finale di Los Otros Yo, o Mudanza, o Five Suns) la musica di Breaking Stretch si fa tanto densa e stratificata da lambire l’horror vacui, con percussioni che sembrano provenire da ogni dove e mutevoli temi degli ottoni in divenire che frastornano l’ascoltatore. Dall’altra parte, le pirotecniche ed elastiche linee di basso di Cass e la fitta rete di incastri poliritmici intessuta dalla batteria di Gilmore e dalle percussioni di Herrera forniscono ai brani un passo che sembra fratturare e distorcere quello, già molto sofisticato, delle musiche cubane e ispanofone. In questa situazione, gli sghembi interventi degli ottoni in staccato che ribadiscono l’ispidità dei tempi e dei metri adottati (cfr. Palo de Oros o Manufacturers Trust Company Building) non fanno che sottolineare ulteriormente il cubismo ritmico di tutto il lavoro. 

Infine, ci sono ovviamente il vibrafono e la marimba della leader, che su Breaking Stretch offre una performance variopinta e camaleontica che la consacra ulteriormente come una delle più brillanti percussioniste in circolazione (come nel caso di Mary Halvorson, l’uso del femminile non sottintende però che il termine di paragone sia ristretto alle musiciste donne). La sfumatura latina che i suoi strumenti portano al suono complessivo del gruppo è apprezzabile per tutta la durata dell’album, ma il suo apporto all’economia sonora dell’ensemble è ben più sostanziale e dinamico di una mera nota di colore, conquistandosi spesso un ruolo di assoluta protagonista in assoli ed elucubrazioni in solitaria. In apertura a Mudanza, il corale della marimba risuona nel vuoto pneumatico grazie all’intervento dell’elettronica, che distorce anche l’assolo più dolce di Sueños de Coral Azul; su Palo de Oros le sue linee sono invece frenetiche e torrenziali, collocandosi nella tradizione più virtuosa di un Bobby Hutcherson. Va inoltre sottolineato l’utilizzo dell’elettronica, che non si limita alla mera effettistica per modificare il suono dei diversi strumenti ma che ha un ruolo autonomo, fornendo una cornice sonora alla musica prodotta dal gruppo ampliandone ulteriormente le possibilità espressive tramite riverberi, distorsioni, e sibili elettroacustici sullo sfondo dell’improvvisazione.

E la musica che Brennan ha scritto per questo disco riflette il poliglottismo del suo stile come musicista. Breaking Stretch è un lavoro ricchissimo e rigoglioso, è capace di elargire una varietà di umori e stili impressionante: nell’arco di meno di un’ora, le sue composizioni spaziano da esplosivi numeri di avant-jazz moderno che tradiscono l’apprendistato alla corte di pensatori visionari come Matt Mitchell, ballate più sentimentali come la title track, escursioni in una sorta di latin jazz decostruito (Sueños de Coral Azul) e pezzi astratti che sembrano sospesi tra tutti questi filoni estetici (Earendel). Così, nonostante la sua indubbia complessità, Breaking Stretch rivela non soltanto una compositrice che ha finalmente cominciato a trovare la propria voce, ma anche una musica di qualità eccellente che, potenzialmente, può parlare e arricchire gli ascoltatori più assortiti e dalla provenienza più disparata. In altre parole: Breaking Stretch è un serio candidato alla palma di album jazz dell’anno.

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia