CONTAINER BRUTTO

IL NUOVO SUONO DI GEORDIE GREEP È TRAGICAMENTE VECCHIO

GEORDIE GREEP – THE NEW SOUND

Rough Trade

2024

Jazz Rock

In musica, certe cose hanno un peso. Mi sembra di averne parlato anche in altre occasioni: bisogna capire cosa una determinata componente può significare nel contesto del disco, e misurarcisi di conseguenza. Ci sono eccessi ed eccessi, elementi che funzionano in un insieme e potrebbero invece rovinarne un altro. L’ultimo grande esempio dell’importanza di questa attitudine non è altro che The New Sound di Geordie Greep, primo lavoro solista dell’incensatissimo frontman degli incensatissimi black midi. Greep continua in un certo senso il percorso iniziato con la band in Cavalcade, ed esplicitato ancor più nel riuscito Hellfire: l’incorporazione di un marcato elemento vaudeville nelle composizioni. Avendo come sfondo un avant prog fangoso e istrionico, questi recitativi da strillone portano subito alla mente i Primus di Tommy the Cat, lo zolo dei Cardiacs, e perfino lo zeuhl dei Ruins nei momenti più convoluti. Tutta musica bellissima, ma massimalista e scomposta, che necessita pertanto di una messa a fuoco significativa per non sembrare un miscuglio di roba buttata lì. Hellfire, con la sua carovana di personalità psicotiche, a mio avviso sfruttava bene questa pulsione circense, fornendole terreno appropriato e quindi traendone efficacemente i lati positivi. 

Con tali sperimentazioni alle spalle, Geordie Greep decide quindi di pestare il piede sull’acceleratore – finendo così giù da un burrone. The New Sound è un porcaio senza capo né coda, un trionfo di cattivo gusto che nessuna perizia strumentale o finezza compositiva potrebbe mai salvare. In breve, la componente vaudeville è estremizzata e inserita in un jazz rock dalle forti tinte latin, una gazzarra di ottoni, archi, cori, chitarre, e innumerevoli altri piccoli arrangiamenti. Ci sono assoli di chitarra elettrica alla Santana, math rock pulito stile Battles, ritmiche brasiliane, sprazzi lounge anni ‘70, grandiosità da Broadway ed esplosioni da classica big band jazz, il tutto unito da una visione di insieme che però non si concretizza mai in qualcosa di fresco o interessante. Ogni brano si accascia infatti su un passatismo espressivo che non riesce a graffiare: le melodie non sono memorabili, le impalcature armoniche su cui si reggono le composizioni sembrano tutte rimasticate da altre band del passato; per un disco con così tante moving parts, tale mancanza di vera carne al fuoco è quasi offensiva. Ed ecco che, su un fondale così tragicamente anonimo, il vaudeville diventa fastidioso. Fastidiosissimo. Varie tracce paiono brani disney (Terra, Through a War) o sigle anime (Holy, Holy), ma più kitsch e senza il contesto indispensabile fornito dal film di animazione. I singspiel coloratissimi dei protagonisti animati hanno sempre attinto a piene mani dalla bravado propria delle grandi esibizioni di Broadway, ma è sufficiente vedere i classici Disney per accorgersi di quanto una tale attitudine venga centellinata all’interno del film. Perché? Perché è ingombrante. Per una manciata di minuti diverte e intrattiene, qualche secondo di troppo e diventa insopportabile. Non è un caso che il musical sia una delle forme d’arte più polarizzanti: i fanatici vivono per questa emotività caricaturale, mentre molti altri la trovano assai indigesta; i lavori migliori in questo ambito sono sempre quelli che riescono a rimanere memorabili, introducendo uno spettro espressivo più ampio o trapiantando il genere in situazioni molto particolari. Geordie Greep rimane invece totalmente monodimensionale nelle sue scelte stilistiche. Il dramma e l’estasi, la calma e il furore, tutto si appiattisce fino a rendere la complessità strumentale del disco mero rumore di fondo. La lunghissima The Magician è assolutamente emblematica di questo fallimento: oltre dieci minuti chiaramente ispirati al progressive teatrale dei primi Genesis, che da bucoliche strimpellate di chitarra e organetti si muovono prima verso un jazz rock angolare, poi verso deflagrazioni da climax di orchestra jazz. Interessante quando scritto sulla carta, inesorabilmente noioso una volta accortisi che tutte le idee sono già state usate cento volte negli altri pezzi, che il sound è sempre identico, eccezion fatta per le strimpellatine che ci accompagnano dall’inizio come una notifica del cellulare.
Nonostante le sue gravissime mancanze, The New Sound verrà sicuramente amato da una buona fetta di pubblico. In tante bolle è già popolarissimo, e se ne parla come di un lavoro epocale – cosa che mi lascia sinceramente basito. Come può un disco dal suono così stantio, una mistura di generi così prevedibile, un’idea di fondo così banale sorprendere un ascoltatore preparato nell’anno domini 2024? L’avant prog dei black midi è molto più particolare di questo grigiume, e ritengo molto ingiusto che del nuovo lavoro di Geordie Greep si parli in altri termini rispetto a quello che palesemente è: un passo indietro.

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David Cappuccini
David Cappuccini