KAMASI WASHINGTON – FEARLESS MOVEMENT
La critica musicale rock è, in buona misura, una delle manifestazioni più modaiole, bovine e prevedibili dell’intelletto umano. Quando nel 2015 Kamasi Washington si impose sul panorama jazz americano grazie a The Epic, la stampa non di settore fece letteralmente a gara per inventare il complimento più roboante ed esagerato a partire dal concetto che il jazz era in fase di stagnazione, ma poi è arrivato Kamasi Washington e…. The Epic aveva tutti i fenotipi del disco che si doveva celebrare per forza: era il primo lavoro che era riuscito a bucare davvero la nicchia di mercato jazz finendo nelle orecchie di ascoltatori di musica rock, pop e rap; per di più, era un triplo album che partendo dallo spiritual jazz di casa Strata-East e dalle incursioni elettriche del Sun Ra anni Settanta abbracciava musical broadwayano e swag hip hop, realizzato proprio da colui che solo pochi mesi prima aveva contribuito agli arrangiamenti più jazzy di To Pimp a Butterfly. Ultimo ma non ultimo, era uscito per Brainfeeder, l’etichetta di Flying Lotus: praticamente un lavoro ingegnerizzato appositamente per suscitare reverenziale ammirazione e nel frattempo non spaventare troppo un pubblico che con il jazz non aveva un rapporto particolarmente profondo. Abbiamo avuto modo di parlare della paraculaggine intrinseca dell’operazione Kamasi Washington, e soprattutto dell’atteggiamento grottesco riservatole dalla critica non-jazz, già ai tempi di Harmony of Difference, il bruttissimo EP che fece da seguito per The Epic nel 2017. Un anno dopo, questo tema e riflessioni correlate sono state portate alla luce pure da Hank Shteamer, che su Rolling Stone si è occupato della recensione di Heaven and Earth, sul suo blog: giusto per evidenziare che magari siamo (sono) pure snob rompicoglioni nell’ambito jazz, ma non ci inventiamo le battaglie contro i mulini a vento.
Da allora a Kamasi Washington è bastato campare di rendita sul successo critico di quel breakthrough per essere preso sul serio a prescindere. In questi quasi dieci anni la conoscenza del panorama jazz contemporaneo presso un pubblico non specializzato, pur rimanendo sostanzialmente settorializzata e a livelli di superficialità risibili, si è ampliata: per saggiare un po’ questo cambiamento, basta confrontare il tenore della recensione del 2015 di The Epic su Ondarock, dove Giuliano Delli Paoli citava come unici riferimenti jazz di Washington i soliti Jon (sic) Coltrane, Ornette Coleman, Albert Ayler (ahah!) e Sun Ra, con l’attuale offerta di recensioni jazz che, pur con tutti gli oggettivi limiti di competenza della redazione, è arrivata a coprire un ventaglio di proposte che va da Joel Ross, a Steve Lehman, passando per Amaro Freitas, Jason Moran, Vijay Iyer e jaimie branch – giusto per rimanere a roba uscita nell’ultimo anno e mezzo. Eppure, il fatto che nel 2015 si fosse deciso che Kamasi Washington fosse l’hic et nunc del jazz ha impedito a tutti coloro che hanno salutato The Epic come un evento di provare a riconsiderare i propri entusiastici proclami su quello che, alla fine della fiera, era soltanto uno dei tanti dischi jazz di quest’epoca – invero piuttosto fortunata per il genere, per quantità ma anche per qualità. All’altezza di Fearless Movement, il suo nuovo album uscito per Young a inizio mese, il massimo in cui si può incappare è qualcuno che millanta che il nuovo lavoro di Washington manchi della grandeur e dell’epica degli album magnificati fino a poco tempo fa, per giustificare un apprezzamento che nel frattempo è legittimamente scemato. O ancora, in certi contesti più intellettualoidi e nerdy, ci si può imbattere in gente che per reazione a una celebrazione così rumorosa – ma con stesso atteggiamento trendy, semplicemente previa l’applicazione del segno “meno” davanti – bela che Kamasi Washington è una frode totale («That’s the weird, unnatural, frankly suspect binary condition that these Moments tend to create. You’re either riding on the bandwagon, or you’re standing to the side with your arms crossed», diceva Shteamer disilluso nel pezzo citato poc’anzi).
Parliamoci chiaro, Fearless Movement è un disco così innocuo che non si può parlare manco di un brutto lavoro. Sia Kamasi Washington che vari membri del suo ensemble (il trombonista Ryan Porter, il tastierista Brandon Coleman, il pianista Cameron Graves) sono validi strumentisti, e con una major come la Young non si può imputare chissà quale debolezza alla produzione che è ovviamente nitidissima e tridimensionale. Inoltre, come nel caso di Heaven and Earth, Washington è indubbiamente capace di tirare fuori dei numeri di pregio anche quando il brano magari si infratta altrove in arrangiamenti di melassa e coretti stucchevoli (cfr. la sezione centrale su The Garden Path e il solo pirotecnico del trombettista Dontae Winslow che la domina): la conclusiva Prologue, basata su un’elaborazione del tema di Prologue (Tango apasionado) di Astor Piazzolla è un esempio eclatante in tal senso, anche se il meglio forse si trova negli oltre nove minuti di Lesanu che aprono l’album. Introdotta da una sommessa preghiera in ge’ez, Lesanu si dipana in una rocciosa performance post-bop, con doppio drum-kit a rendere ulteriormente poderosa la pronuncia ritmica del gruppo, in cui però il tono e le melodie del sax si tingono di sfumature ethio-jazz, increspate dagli sfarfallii di synth in secondo piano. Sia il tema principale illustrato da Washington che il suo ottimo assolo incastonato nella seconda metà fanno pensare a una rilettura dell’idioma strumentale di Tèsfa-Maryam Kidané (il sassofonista famoso per le sue esperienze con Mulatu Astatke) attraverso la lente di Coltrane e di Billy Harper: è forse una delle più brillanti composizioni che Washington abbia pennellato da quando si è imposto sulla scena.
Il problema è che il gusto di Washington è intrinsecamente melenso, compromesso com’è dalle derive più piacione e tamarre del nuovo R&B, dell’hip hop, del gospel, del soul e del funk – in questo senso, l’opera di Thundercat e di Anderson .Paak offre dei riferimenti molto azzeccati. Questo approccio populista e svenevole all’hook melodico, che già inficiava il materiale di Washington nella sua veste più orchestrale mutuata dal linguaggio di Gerald Wilson, risulta particolarmente sfiancante quando la sua musica opta per una direzione più ballabile, materica e urbana, che è esattamente il caso di questo Fearless Movement. È un aspetto che si nota già nelle composizioni più propriamente jazz, come Road to Self (KO), e che diventa davvero difficile da digerire quando Washington si avvale di contributi vocali (quelli di Dwight Trible su Lines in the Sand sono francamente insostenibili). È però soprattutto la sfilza di brani con featuring provenienti dal mondo hip hop e funk che cementa tutti i difetti del Kamasi-pensiero. Si parte con Asha the First, una vera e propria masterclass nell’unire in maniera goffa hip hop e jazz funk: l’intervento dei rapper Taj e Ras Austin viene ghettizzato a metà del pezzo su un tappeto di tastiere futuristiche, mentre il resto del gruppo (che comprende per l’occasione lo stesso Thundercat) si esprime al pieno delle sue potenzialità altrove, come se si fosse tentato di saldare maldestramente due pezzi indipendenti. Si prosegue quindi con la nauseante cover di Computer Love, che riesce nel difficile tentativo di rendere ancora più sdolcinato e privo di tiro il suono degli Zapp – non esattamente i Napalm Death – con l’aggravante che a Washington è parsa pure una buona idea prolungare questo strazio per oltre nove minuti; e le cose non vanno meglio con il funk lascivo di Get Lit, che vede la collaborazione di George Clinton e di D Smoke, un rapper random probabilmente selezionato appositamente per avere il minor carisma possibile. Schiacciata com’è tra Get Lit e lo smooth jazz a tinte soul di Together, perfino Dream State – cui partecipa anche André 3000 prestando gli stessi flauti con cui ci aveva rotto il cazzo con l’ora e mezza di New Blue Sun l’anno scorso – appare in confronto come un pezzo dal carattere più deciso e dal sapore meno scontato, grazie al suo umore ipnotico ed evanescente.
Fearless Movement è, insomma, un disco che esiste, innocuo e inoffensivo, con i suoi occasionali punti di forza e le sue debolezze e ingenuità (in proporzione, molte di più). Non meriterebbe nemmeno la spesa di parole a riguardo – è, semplicemente, un album jazz del 2024, piazzato intorno alla zona grigia della mediocrità. L’unico motivo per cui, ancora una volta, ci sentiamo costretti al giuoco delle parti di avere un’opinione su Kamasi Washington è che, come rivelano anche gli aggregatori di Metacritic, sostanzialmente ogni album di Kamasi Washington è ancora recepito come un evento di cui discutere e soprattutto da glorificare. Aveva ragione Shteamer quando, nel suo pezzo di tanti anni fa, affermava che:
In other words, there’s the Moment, and all these sort of buzzwords and received notions that build up around a given artist, and then there’s the Music, and the two can start to seem hopelessly intertwined to the point that, especially on a tight deadline, you’re not even sure which you’re writing about anymore.
Ecco: noi anziché del Momento preferiamo parlare della Musica, e questa non merita di essere ricordata né in un senso né nell’altro.