ALEX PAXTON – ILOLLI-POP
Tra tutti i nomi giovani del panorama avant-garde contemporaneo, il britannico Alex Paxton è sicuramente uno di quelli più chiacchierati tra i critici à la page – e visto che è nato nel 1990, questa informazione porta con sé una sinistra nube di implicazioni su ciò che va ritenuto giovane per gli standard del mondo musicale accademico. Formatosi come trombonista e dotato di un’educazione che spazia senza soluzione di continuità dalle frange più post-moderne del jazz fino alla musica orchestrale contemporanea, Paxton vanta un curriculum nutritissimo: la sua musica viene eseguita e/o commissionata da orchestre e gruppi di caratura internazionale come la London Sinfonietta, l’Ensemble Modern e la London Philharmonic Orchestra; ha scritto vari concerti, brani orchestrali per strumentazione assortita, perfino musica per bambini e addirittura sei opere, ricevendo pure premi come il Dankworth Jazz Prize nel 2020 (per il concerto improvvisato per legni e ottoni Bye) e l’Ivor Novello Composer l’anno scorso, per Sometimes Voices. Ultimo ma non ultimo, ha pubblicato ilolli-pop giusto un paio di mesi fa, che è il suo secondo album dopo quel Music for Bosch People che nel 2021 aveva ricevuto il plauso del New York Times e di The Wire.
Tutto bene, ma cosa dovrebbe avere di speciale la next best thing della “classica contemporanea” rispetto a tutte le altre? Il sospetto che la risposta sia da ricercarsi semplicemente nella sua provenienza british è forte, ma la realtà è per una volta diversa. Il vero motivo di questo chiacchiericcio intorno a Paxton si intuisce, banalmente, già dal tipo di vocabolario adottato da critici e riviste per descriverne l’estetica musicale: il New York Times la definisce «the most joyous sound I’ve heard in ages»; The Wire parla invece di «riotous, hot pink overabundance of love and rage», e proprio per ilolli-pop The Quietus ha infine coniato la formula «fantastically bananas free-jazz-orchestra maximalism». (Altre espressioni altrettanto roboanti le potete trovare compilate qua.) Il punto è proprio che la musica di Paxton è divertentissima: le sue composizioni abitano un universo coloratissimo e caotico, sorta di metafora del frenetico intreccio di flussi di persone e di informazioni che una metropoli come Londra, in cui ha studiato e vissuto, vede a ogni ora del giorno e della notte.
Nell’indaffarato e densissimo pot-pourri di voci strumentali della sua musica collassano i poliritmi impestati dei balletti di Stravinskij e i rumori urbani delle sinfonie di Charles Ives, il suono gioioso delle orchestre di Duke Ellington e la follia deragliante delle colonne sonore di Carl Stalling per i Looney Tunes, l’ADHD melodico e ritmico del jazz di Raymond Scott e i collage surreali delle Mothers of Invention, gli arrangiamenti over the top del zeuhl dei Magma e le improvvisazioni collettive dei musicisti AACM. Questo, almeno, è ciò che si percepisce nei momenti più luminosi, creativi e – in definitiva – esilaranti della sua musica, che su questo disco sono perlopiù contenuti nella frastornante ilolli-pop: una composizione concertistica per – ça va sans dire – trombone solistico, supportato da un ensemble di legni, ottoni, percussioni, tastiere e quartetto d’archi. Lungo i suoi cinque movimenti, ilolli-pop si dipana in un delirante guazzabuglio in technicolor dove si susseguono senza sosta assoli di trombone nel segno di Grachan Moncur III, svolazzanti linee di flauto, assurde parti di tastiera (è un clavicembalo quello che si sente su 5lolli-pop?), manipolazioni e distorsioni elettroniche, cerebrali collisioni di tromba e contrabbasso jazz con un violino che sembra uscire da qualche composizione di Steve Reich. La continua ed erratica evoluzione di questa musica segue la stessa logica di montaggio di un episodio di Bugs Bunny, e in questo senso la mente finisce per ripensare agli episodi orchestrali della musica di Daniel Vahnke. Già solo questo lavoro è una roba così strampalata e intrattenente che finisce per sfoggiare un appeal quasi pop, e non può non essere annoverato tra le cose migliori dell’anno musicale in chiusura.
Gli altri brani non raggiungono le vette di massimalismo proteiforme del pezzo principale, ma alla peggio sono comunque almeno molto interessanti. Corn-Crack Dreams è un breve divertissement per soli trombone, percussioni ed elettronica, ma il casino che queste riescono a produrre sotto l’assolo di Paxton, tra campionamenti, sibili elettroacustici, rumori di provenienza indistinta è tale che a tratti sembra di sentire tutto l’ensemble che suonava su ilolli-pop. E se i notevoli dieci minuti di improvvisazione per trombone solo di Mouth Song, Take 1 riportano alla mente pure il Solo Trombone Record di George Lewis, paradossalmente (o forse no?) il momento più estenuante del disco si trova nell’unico pezzo che ha portato un riconoscimento accademico a Paxton – vale a dire, Sometimes Voices, per batteria e tastiere. Nove minuti e mezzo di montagne russe per campionamenti vocali, interferenze elettroniche, fughe torrenziali di pianoforte montate da un Conlon Nancarrow redivivo e un sostegno ritmico fratturato degno dell’Han Bennink più astratto sono forse un po’ troppi. Di certo, però, nell’economia complessiva del disco sono comunque troppo pochi per non consigliarvi caldamente l’ascolto di ilolli-pop in ogni caso.