Ho da poco compiuto ventinove anni, ma vivo ancora a casa di mia madre. Il mio percorso universitario è stato lento e doloroso, come col senno di poi mi sarei aspettato da un ragazzino svogliato che dopo il liceo classico decide di fare chimica, senza una vera passione per la materia né talento per la matematica. Nove anni dopo – con quattro di ritardo rispetto alle tempistiche ‘normali’ – sto portando a termine il tirocinio magistrale, e spero di arrivare ad essere indipendente prima dei trenta. Come molti miei altri coetanei, in questi ultimi mesi sto vivendo una vita difficile e spesso surreale: ho una cultura ampia e ben formata, degli interessi sofisticati, ma non ho soldi per perseguirli e le persone adulte – categoria della quale dovrei tecnicamente far parte da tempo – mi trattano come un bambino nonostante la barba e gli accenni di grigio nei capelli. Sono simultaneamente bambino e uomo. L’uomo che è in me genera una pulsione frenetica anelando a sistemazioni consone alla mia età, e cerca continuamente di premere il pulsante EJECT per spararmi via da questo limbo, a qualsiasi costo; il bambino che è in me si attacca disperatamente agli ultimi brandelli di infanzia, ai luoghi che cammino da tre decenni, alle mie abitudini di ragazzo senza responsabilità. Jeff Rosenstock deve evidentemente aver vissuto una situazione molto simile ed è riuscito a condensare tutte le sue ansie, paure e indecisioni nel suo disco del 2016 WORRY. Ha fatto numerose altre cose prima e dopo, ma non sono molto interessanti; WORRY! tuttavia è di gran lunga il miglior disco pop punk della storia.
Tale dichiarazione, chiaramente personale ma posta con un sentore di obiettività, è spinosa da difendere: quando un genere e il suo disco più bello hanno decenni di storia le armi a nostra disposizione sono molte di più. Si può parlare dell’influenza su altri lavori, si può parlare di come sia stato ricevuto nel corso degli anni, delle innovazioni che ha portato a livello strumentale, estetico o compositivo, e così facendo anche se l’opinione resta personale è possibile almeno darle un’aura di autorità. Il pop punk è però un genere piuttosto peculiare e – detto con tutto l’affetto del mondo – scemo. Prende uno stile di musica senza compromessi, molto diretto, che spesso arriva a dare apertamente battaglia al comfort dell’ascoltatore, e lo assimila dentro a un altro praticamente agli antipodi, morbido e orecchiabile. Ne deriva per forza di cose un addolcimento a livello di sound e atmosfera, un modo di porsi più bambinesco e spensierato della rabbia punk, che peraltro è frequentemente impegnata. Eppure anche il punk, nella sua durezza, è sempre stato diretto a un pubblico principalmente giovane, vuoi come ribellione vuoi come semplice scarica adrenalinica – e tale discorso vale tanto per il punk di metà anni settanta coi Ramones e i Sex Pistols quanto per branche successive come l’hc punk degli anni ottanta, comunque sostanzialmente fatto dai giovani per i giovani. Detto questo, nonostante la differenza di target sia di una manciata di anni al massimo, se dico Minor Threat e Green Day, o Clash e Offspring, la differenza in termini di serietà percepita è gigantesca, anche per il sottoscritto. La differenza la fanno le tematiche affrontate, la presentazione dei gruppi, l’impegno politico, i riferimenti culturali che si ritrovano all’interno della musica; non bisogna mai scordare, però, che tutto il punk ha un legame indissolubile con la giovinezza e i cambiamenti che porta. Con queste premesse, qual è la differenza fondamentale del pop punk? A mio avviso si può ridurre tutto a un concetto di base: un genere che prende una musica giovane, ispira i giovani a maturare e in seguito si spoglia di questo stimolo di crescita, rendendo l’adolescenza un compartimento stagno oltre al quale non è quasi mai concesso guardare se non nei termini del coming-of-age, sognando un futuro distante e idealizzato. Ciò si ritrova chiaramente nei testi ma anche nella solarità del sound, nei comportamenti delle band, persino nell’orrido gusto a livello di vestiario: quando si parla di pop punk tutto è più sgargiante, improbabile, sciocco. Tali caratteristiche non sono affatto negative come potrebbe sembrare – si ha tempo più che a sufficienza per impegnarsi, per preoccuparsi coi drammi del presente e del futuro, e spesso non abbastanza per assaporare la cazzonaggine dell’età giovanile. Partendo da questo ragionamento, per arrivare a capire significato e spirito di WORRY! resta solo una domanda cruciale da porsi: come cresce il pop punk quando è costretto a farlo?
Cresce in maniera difficoltosa. Dato che la linea del ridicolo incombe sempre paurosamente vicina, ed essendo le tematiche e l’estetica quelle che sono, tutte le band che continuano a fare pop punk per più di una decina di anni finiscono per diventare patetiche: proprio i Green Day sono probabilmente esempio massimo di questa involuzione, come sottolinea bene questo incredibile video. Jeff Rosenstock – che suona pop punk da quando aveva tredici anni, e nell’anno dell’uscita WORRY! ne contava ben trentaquattro – è riuscito a trascendere queste problematiche semplicemente rendendole palesi, facendole sue. Il suo prendere coscienza di essere un eterno bambino con la testa ancora persa dietro all’idea romanzata del rocker, il suo sentirsi fuori posto tra le difficoltà e le responsabilità dell’età adulta, la sua incapacità di far fronte ai cambiamenti e alle inevitabili perdite che si affrontano crescendo, tutte queste emozioni così universali vengono riversate nel genere che di preoccupazioni non dovrebbe averne, rendendolo veicolo perfetto per esorcizzare le assurdità di ogni giorno. Jeff Rosenstock in WORRY! diventa la personificazione del pop punk stesso negli anni dieci del nuovo millennio, l’eterno loser di Longview che, una volta costretto ad uscire dalla sua stanzetta sudata, viene travolto dalla pesantezza di perdite stavolta impossibili da romanticizzare, e finisce per rimpiangerla. Non che il disco sia monocorde: uno dei suoi più grandi punti di forza è invece proprio la tridimensionalità emotiva, il saper coniugare alla perfezione gioia, dolore, ansia e menefreghismo estatico in un cocktail di potenza micidiale. WORRY! non ha particolari vette di lirismo, non ha parti strumentali particolarmente creative, non ha finezza a livello di arrangiamento e produzione, ma ha tutto quello che serve e molto di più: un’onestà espressiva travolgente, una potenza comunicativa trascinante, una coesione invidiabile e una programmaticità tale da creare un nuovo modo di intendere il pop punk.
Il disco si apre con uno dei pezzi più belli. We Begged 2 Explode mette subito bene in chiaro la falsariga delle tematiche che verranno affrontate (Laura said to me, “This decade’s gonna be fucked/ Friends will disappear after they fall in love/ Fall in love and get married/ Isn’t that shit like, crazy?/ The workin’, havin’ babies and promotions?/ The cheatin’, cryin’, leavin’, and divorcin’?”) per poi proseguire in un crescendo di gioia incurante e dolceamara simboleggiata dalla coppia che salta su di un materasso. Questa immagine, pur semplicissima, acquista esponenzialmente potenza man mano che viene contestualizzata: un atto infantile e fuori posto – tanto da distruggere praticamente qualsiasi letto sul quale due adulti provino a farlo – diventa esternazione isterica di entusiasmo per il presente e di paura per il futuro. Come è già possibile capire, il disco viaggia su binari di linguaggio molto umili, che però diventano sempre più struggenti ai riascolti, facendo di WORRY! un disco dal replay value demenziale.
Rosenstock inanella anthem dopo anthem parlando a una generazione devastata e oppressa da un sistema che sopprime istinti e desideri; la sua abilità di comunicatore è gigantesca, riuscendo a creare climax emotivi che ti mettono voglia di imparare a memoria i testi per poterli poi urlare insieme a lui:
The city don’t care if you live or die
Staring Out the Window at Your Old Apartment
It’s just gonna grow and it doesn’t care why
You’re tired of kicking and fighting through life
And left me alone on this cold winter night just
Staring out the window at your old apartment
Imagining the old you stumbling through tacky renovations that the landlord wanted
To cash in on the boom and you don’t know where to go now
I rush to my phone
To Be a Ghost…
Because I don’t wanna feel alone
They forced us to grow
Into a world without a soul
You’re frozen with dread as their chatter becomes deafening
If you’re tired of being told
Stop complaining ‘bout the cold
Burn those fuckers in their homes
Burst their bubble and break their bones/
WORRY! procede senza un momento di respiro, e nonostante un paio di pezzi forse meno riusciti il disco pesta sempre più sull’acceleratore arrivando a quello che forse è il momento topico dell’intero lavoro: una sorta di medley introdotto da tre pezzi brevissimi (Bang on the Door, Rainbow e Planet Luxury, che sommati fanno meno di tre minuti) e culminante nella coppia HELLLHOOOOLE e June 21st, ulteriori esplosioni di emotività che accompagnano il disco verso la sua chiusura. Questa manciata di minuti rasenta la magia: i cinque pezzi scorrono con una facilità e una naturalezza difficile da descrivere. Hook dopo hook, riff dopo riff, gli anni passano portando con sé ingiustizie e trionfi, vittorie e sconfitte. Nella coppia sopracitata HELLLHOOOOLE è il buio, lamento rabbioso contro il menefreghismo dei padroni (They would pluck us from the lives we’re living/ With no fucks given and profit from the pain/ Forcing you and I to feel like children/ ‘Cause if they didn’t we wouldn’t be too scared to say/ That we don’t wanna live inside a hellhole/ And waste our energy on all these assholes); June 21st è invece la luce in fondo al tunnel, la forza che si trova appoggiandoci a chi ci sta vicino nei nostri momenti più difficili (It’s beautiful out there’s nothing I’d rather do/ Than slay the nightmare arm in arm with you/ I didn’t leave the house all day for the last thirty Saturdays/ It’s time to trade the darkness for a view/ Because it’s June 21st and this winter was the worst we’ve ever seen/ But we made it through the freeze/ Now it’s 84 degrees forever). Dopo una simile cavalcata a rotta di collo i brani finali hanno il sapore di un inchino a sipario chiuso, mentre tu nel pubblico continui a domandarti come sia possibile che qualcosa di così semplice appaia così articolato, qualcosa di così ingenuo sia così profondo, che un tale percorso possa dipanarsi in meno di quaranta minuti. E ti chiedi: è forse questa la dimensione naturale del pop punk?
Non si può dare una risposta. Quello che è certo è che WORRY! resta l’unico disco pop punk degli ultimi anni ad avere peso, l’unico capace di prendere i difetti del genere e farne arte, creando canzoni che sabotano le nostre difese e rendono vuota qualsiasi argomentazione sui limiti oggettivi del disco: dopotutto l’ultima traccia si chiama Perfect Sound Whatever, segno che pure a Jeff Rosenstock importa poco dell’impeccabilità tecnica. WORRY! è uno dei dischi che più ho ascoltato in assoluto; mi ha accompagnato e continua ad accompagnarmi in una delle fasi più complicate e stancanti della mia vita, dandomi comprensione e felicità. Una volta che ho iniziato a conoscere davvero bene i pezzi, dopo una decina di riascolti, la componente partecipativa è diventata sempre più importante, facendo assumere al disco funzione di vera e propria valvola di sfogo. Durante il periodo in cui avevo WORRY! in heavy rotation, molti momenti di stanchezza e frustrazione si sono tinti di un colore meno lugubre: improvvisamente non mi sentivo solo nella mia sfiancante marcia verso la responsabilità. Il problematico dualismo che ho delineato all’inizio di questo articolo esiste ancora, e probabilmente peserà su di me fino a che non riuscirò a gettare solide fondamenta per supportare il prossimo capitolo della mia vita, ma la mia situazione non è unica. Jeff Rosenstock è stato capace di comporre un disco che non edulcora falsamente le grandi ingiustizie della nostra società, non pontifica su mirabolanti modi di trovare pace interiore, non ti dice cosa dovresti provare, ma fa una cosa ben più importante: urla insieme a te.
All these magic moments I’ve forgotten
All these magic moments I’ve forgotten
All these magic moments I’ve forgotten
All these magic moments I’ll forget once the magic is gone.