“We are not part of Jamaica
Mighty Chalkdust, Misconceptions
though we sing reggae, that’s not our culture, you hear
so when you hear Belafonte and Mr. Poindexter
that is not kaiso [calypso]
that is brandy mixed with water”
Harry Belafonte, passato da poco a miglior vita alla veneranda età di 96 anni, gode di una fama con cui pochi altri musicisti possono rivaleggiare. Quello del calypsonian più celebre in assoluto non è il tipo di successo che ha bisogno di essere rinfocolato: gli ultimi decenni Belafonte li ha vissuti piuttosto lontano dai riflettori, eccezion fatta per qualche sparuta dichiarazione politica e un piccolo ruolo in BlacKkKlansman di Spike Lee, dove peraltro non l’avevo riconosciuto pur avendo ben presente la sua faccia – neanche sapevo fosse ancora in vita, a dir la verità. Per una figura che ha avuto il suo picco di popolarità a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, un passo indietro dalle scene in età avanzata è del tutto naturale e tale mossa suona ancor più logica se si considera che il cosiddetto Re del Calypso ha raggiunto qualsiasi traguardo si possa immaginare durante la propria carriera. Il suo album di debutto, uscito nel 1956, lo consacrò come primo artista in assoluto a vendere un milione di dischi in un anno; oltre a una carriera musicale cinquantennale, Belafonte vanta anche un certo successo come attore cinematografico e come presentatore televisivo. A livello sociale, le cause che ha sposato sono innumerevoli, dal movimento per i diritti civili di Martin Luther King (di cui era amico e collaboratore) ai movimenti contro l’Apartheid in Sudafrica, dal suo lavoro come ambasciatore UNICEF durante la crisi dell’AIDS in Africa negli anni ’80 all’educazione giovanile nei paesi sottosviluppati. La sua musica è quanto di più allegro e catchy si possa immaginare, con canzoni capaci di mettere il buonumore anche quando trattano tematiche pesanti – basti pensare alla famosissima Day-O (Banana Boat Song), brano call-and-response sulla fatica del lavoro portuale. Ovunque si vada a leggere, Belafonte sembra sempre venir presentato come un uomo di rara bontà, una di quelle persone benvolute da tutti su cui si prega non escano mai informazioni scomode a ricordarci che siamo tutti imperfetti. Eppure, nonostante questa mole di buone azioni, nonostante la sua aura di umiltà e nonostante io sia cresciuto ascoltando la sua musica, per Harry Belafonte provo sincera antipatia. Come mai? Per saperlo occorre addentrarci nel genere che lo ha portato alla ribalta, il calypso.
Il calypso affonda le sue radici nell’Africa dell’est, e come quasi tutti i generi musicali esportati dall’Africa la sua evoluzione e le sue contaminazioni sono in larga parte dovute allo schiavismo: si crede infatti sia nato circa quattro secoli fa a Trinidad, cantato in lingua creola da schiavi nelle piantagioni caraibiche di zucchero. Le radici africane del genere sono innanzitutto da ricercare nella parola stessa calypso, derivante dalla musica popolare africana kaiso poi europeizzata nella pronuncia, forse mescolata col termine francese carrouseaux, forse plasmata per richiamare la ninfa greca Calipso. Col passare dei secoli e l’adozione da parte della popolazione di Trinidad e Tobago di usi e costumi provenienti dalla tradizione europea, il calypso ha gradualmente cambiato lingua, strumenti, contesto sociale e influenze, divenendo legato a doppio filo col carnevale e passando dalla bocca del griot – poeta-musicista creolo – a quella del calypsonian, cantore adesso anglofono di storie, spiritosaggini, notizie e critica sociale. Approfondire la storia del popolo trinidadiano significa innanzitutto addolorarsi per la secolare oppressione occidentale (prima francese e spagnola, poi inglese), e in secondo luogo meravigliarsi della resilienza culturale di una popolazione che si è vista imporre tutto: lavoro, abitudini, tradizione, lingua. Nonostante gli innumerevoli, espliciti tentativi di privare queste persone della loro storia, sembra che a Trinidad ogni imposizione di pensiero e costume sia finita per essere solo un nuovo tizzone nel focolare di una cultura che in risposta si è fatta sempre più caleidoscopica. Ironicamente, proprio da tutti questi cambiamenti e forzature nascono le contraddizioni che rendono il calypso così affascinante. Si tratta infatti di un genere dove semplicità e raffinatezza convivono in modo tanto bizzarro quanto naturale: le melodie sono immediate e accattivanti, ma nascondono al loro interno armonie e progressioni tutt’altro che banali; il cantato è del tutto privo di fronzoli, ma presenta testi sorprendentemente articolati a livello formale. Il motivo di questi contrasti è da ricercare nel ruolo che il calypso ha occupato per secoli in queste piccole isole caraibiche che gli hanno dato i natali. Fin dalla sua graduale introduzione nel diciottesimo secolo, a Trinidad il carnevale è sempre stata una festività attesa e preparata per mesi, con competizioni e prove di abilità che conferiscono ai vincitori bragging rights per un anno intero. Le tradizioni che lo contraddistinguono sono cambiate col tempo: secoli fa, donne bardate di vesti sgargianti coloravano l’enorme folla sparsa per le strade, mentre giostranti si sfidavano armati di bastoni in combattimenti scanditi al ritmo dei tamburi – tradizione, questa, mantenuta ancora oggi. I calypsonian prendevano invece parte a un altro tipo di duello, il picong, cantandosi addosso reciprocamente versi di scherno più o meno bonari in quello che potrebbe essere efficacemente descritto come il progenitore calypso delle rap battle. Un altro tipo di sfida musicale, più raffinata, vedeva i cantori scrivere un testo da zero entro un dato lasso di tempo, chiuderlo in una busta e presentarlo in seguito durante il carnevale, lasciando a giudici e pubblico la decisione su chi fosse l’autore più abile. Queste tradizioni sono poi convogliate nelle competizioni annuali di calypso, istituite a inizio novecento e tutt’ora esistenti, in cui Trinidad e Tobago scelgono il loro Calypso Monarch, ambito titolo ricoperto negli anni dai nomi più in vista del genere. Nomi che, nel desiderio un po’ ingenuo di suonare altisonanti e vigorosi, diventano moniker favolosi come Roaring Lion, Mighty Sparrow, Mighty Destroyer, Growling Tiger, Duke of Iron, Lord Invader, Lord Melody, Mighty Duke, Attila the Hun e molti, molti altri. Oltre all’aspetto competitivo, il calypso è sempre stato uno strumento per gabbare e criticare il potere: nato con finalità analoghe alle più famose worksongs degli schiavi americani, il genere era poi divenuto un modo per diffondere tra la popolazione isolana idee e notizie di qualsiasi tipo. Proprio per questo, durante le numerose occupazioni dei Caraibi il calypso è stato spesso osteggiato; ai calypsonian fu vietato di suonare all’aperto, e per secoli venne proibita l’inclusione nelle canzoni di numerose tematiche scomode. Il governo coloniale britannico arrivò perfino a bandire l’utilizzo di percussioni in tutti i Caraibi, imposizione a cui le popolazioni risposero continuando ad accompagnarsi con pentole, coperchi e barili di metallo. A inizio Novecento, quando questo scellerato divieto era ormai venuto meno, il calypso continuava ad essere suonato in appositi edifici (chiamati tradizionalmente “tende” anche quando non erano tende); per questi luoghi era necessaria una licenza, e chi voleva mantenerla doveva sottoporre i contenuti di ogni singolo brano alla polizia prima di poterli cantare al pubblico.
“I does tell all meh critics
Mighty Chalkdust, Peoples’ Parliament
Red House [il parlamento di Trinidad, ndr.] politicians sick
Deceitful to each other
And all of them congosa
But the Kaiso Tent my friend
Engages time honoured men
Like the illustrious Kitchener,
Stalin, de super star
Some like the Mighty Shadow does deal in poverty
Pink Panther and Aloes are the true macos of society
Some like the Lion and Cro Cro, sing out fearlessly
Others like Delamo stand for truth and honesty”
Come ho già accennato sopra, queste rigorose limitazioni poste alla libertà espressiva dei musicisti calypso, indubbiamente mirate a fiaccare il loro spirito, finirono invece per temprare le loro capacità, spingendoli a coniare una scrittura fatta di simboli e doppi sensi che potessero sfuggire agli occhi dei censori e venir recepiti solo da chi sapeva ascoltare. Racconti di eventi storici in nazioni lontane e figure universalmente riconosciute venivano riproposti dai calypsonian, distillandone messaggi che potessero ispirare la popolazione: tra gli innumerevoli esempi troviamo Abraham Lincoln Speech at Gettysburg, brano di Growling Tiger dove i riferimenti alla libertà e all’autodeterminazione presi dal discorso di Lincoln volevano velatamente incoraggiare il popolo di Trinidad a lottare per l’indipendenza; c’è poi Mock Democracy di Lord Cristo, in cui le parole di condanna per la segregazione razziale statunitense (they will lynch and torture you in Jacksonville / Frame and persecute you in Notting Hill / Exercising inhumanity / And still proclaiming to believe in democracy) risuonavano forte anche in un Paese ancora sotto il dominio coloniale. La profondità di pensiero raggiunta da alcuni calypsonian è sbalorditiva; la raccolta Fall of Man: Calypsos on the Human Condition 1935-1941 riesce a dare un’ottima visione d’insieme sulla versatilità tematica del genere, proponendo un calypso a forti tinte jazz dall’andamento più sobrio, dove figurano anche canzoni filosofiche sull’uomo e il suo destino. Calypsos and Meringues, contenente una serie di brani registrati negli anni ‘50 dal folklorista americano Harold Courlander, vuole invece mettere a confronto le tradizioni musicali di Haiti e Trinidad, presentando brani classici nella loro tradizionale cornice di festività isolana. Anche il celebre etnomusicologo Alan Lomax dimostrò forte interesse per il calypso, organizzando e presentando un concerto a New York in cui invitò ad esibirsi alcuni dei calypsonian più importanti dell’epoca: The Duke of Iron, Macbeth the Great e Lord Invader. La registrazione di questo concerto rimane ancora oggi nel doppio disco Calypso at Midnight/Calypso after Midnight; al netto di qualche scenetta decisamente impropria per la sensibilità del nostro tempo, l’album resta una piacevolissima introduzione al genere, riuscendo a dare un assaggio dell’umorismo e arguzia di questi musicisti. Come si evince dai titoli di vari brani (Man Smart, Woman Smarter; Women will Rule the World), le tematiche trattate dai calypsonian non si limitavano assolutamente a seriose condanne o infuocate incitazioni; gran parte dei calypso classici sono leggeri e beffardi, anche se alcuni di essi espongono idee decisamente poco attuali: Ugly Woman di Roaring Lion, ad esempio, suggerisce sfrontatamente di sposare solo donne brutte, per essere serviti e riveriti nella vita di coppia senza la paura che la sposa trovi un nuovo marito. Essendo stato registrato negli anni ’30, è facile immaginare come ai tempi tale pezzo possa essere sembrato solo una divertente boutade. Musica e testo erano talmente catchy che, circa venti anni dopo, la star hollywoodiana Robert Mitchum ne propose un’improbabile cover dal titolo meno esplicito From a Logical Point of View – insieme a un altrettanto improbabile video musicale, peraltro recentemente parodiato dalla serie statunitense The Boys. Questo calypso sta all’interno di un disco di cover dal sapore caraibico rilasciato da Mitchum nello stesso anno (Calypso – is like So!), indubbiamente registrato per spremere un po’ più di denaro dalla moda lanciata proprio da Belafonte l’anno precedente. Questo brano, in tutta la sua insolenza, può quindi servire come esempio perfetto per introdurre l’ennesimo sistema di oppressione mosso ai danni dei calypsonian: la commercializzazione sconsiderata della loro musica negli Stati Uniti, portata avanti senza far vedere praticamente un soldo agli autori originali dei brani.
In tutto questo, cosa ha fatto di sbagliato il povero Harry Belafonte? Perché mi sta antipatico? Dare una risposta è meno facile di quanto sembri. Come si può ben immaginare, i veri autori dei brani calypso di cui sopra – contenuti anche nei dischi di Belafonte – non videro mai un soldo degli enormi profitti generati dalla loro musica, che per almeno un paio di decenni ebbe discreto successo negli States. I primi brani calypso, registrati trent’anni prima del boom commerciale avvenuto nei fifties, vennero incisi da veri calypsonian trascinati negli studi di registrazione americani per due spicci, e poi mandati a fare in culo con tanti saluti. Questa attitudine predatoria si può evincere da vari brani calypso, uno su tutti il dolcissimo Poor but Ambitious registrato nel 1940 da Wilmoth Houdini, dove il pover’uomo essenzialmente prega per tutta la canzone di poter lavorare onestamente. Belafonte, campione progressista dei diritti degli uomini di colore, non si è mai fatto troppe remore morali né artistiche nel diventare ricco propinando una versione infinitamente più vacua di un genere così culturalmente rilevante. Questa cosa mi infastidisce a livello sociale, ma ancor di più a livello musicale: come troppo spesso succede nella storia della musica, un prodotto inferiore in tutto finisce per spopolare soltanto perché l’autore si sa vendere bene. Belafonte, dopotutto, è sempre stato benvestito e inoffensivo, un giocattolo esotico ad uso e consumo di un grande pubblico ignorante e intellettualmente pigro. La storia del Re del Calypso è quella di un uomo cresciuto negli ambienti della sinistra radicale, la storia di un uomo di colore che, essendo famoso e rispettato nell’epoca storica sbagliata, si è visto ostacolato dal maccartismo ed ebbe comunque l’integrità di restare fedele alla sua ideologia per più di mezzo secolo. Un uomo che, dopo la storica sentenza Brown vs Board of Education del 1954 (che rese incostituzionale la segregazione razziale), si rifiutò di suonare negli stati sudisti, dove essa spesso non veniva ancora rispettata. Eppure è anche la storia di un uomo che, appropriatosi di un genere musicale già pesantemente bistrattato, lo ha annacquato togliendoli ogni tipo di mordente e sapore sovversivo per vendere dischi. Parliamo anche di questo, per favore. Day-O, ad oggi il più famoso brano calypso, non è un brano calypso. Harry Belafonte non è un musicista calypso, ed è infinitamente più legato alle sue radici giamaicane che a Trinidad. Quando Snoop Dogg si era fatto qualche canna di troppo mettendosi in testa di diventare un rastafari chiamato Snoop Lion, i capi del rastafarianesimo gli dissero giustamente di andare a giocare in autostrada vestito di nero. Perché il calypso può invece essere stuprato con assoluta impunità? Non sono affatto un fan del concetto di cultural appropriation, oggi molto di moda in certi ambienti: la musica e l’essere umano in generale si evolvono proprio grazie alla commistione di varie culture, dopotutto. Se questa commistione è però orchestrata a tavolino per creare un tipo di musica il più commercializzabile possibile, ecco che mi iniziano a girare un po’ le palle. Mi sta antipatico Belafonte come mi stanno antipatici Elvis Presley e i Led Zeppelin, ingrassati all’inverosimile sui traguardi culturali dei bluesman – solo, ancora di più, perché la sua musica suona comparativamente decisamente più vuota. A Belafonte le opportunità di fare arte valida non sono di certo mancate: prima di reinventarsi come “musicista folk” suonava nei club accompagnato da Charlie Parker e Max Roach, e la sua educazione impegnata gli aveva sicuramente fatto conoscere il valore di fare arte originale e avanguardistica. Tuttavia, Belafonte è sempre stato soprattutto un performer, e in decine di release non si è praticamente mai spinto oltre gli album di cover tematici e i rimasticamenti di generi in voga a fini commerciali. Come ho scritto all’inizio di questa disamina, nessuno è perfetto: non vi chiedo di condividere la mia antipatia per l’innocuo Harry Belafonte, né di valutare la sua musica in maniera diversa. Mi basterà che teniate in considerazione i miei pensieri e, se mai vi capiterà di vedermi storcere il naso quando tutti gli altri stanno vibando con Day-O o Angelina, che non mi consideriate uno spocchioso bastian contrario. Il vero calypso non si esaurisce in una manciata di brani dal sapore esotico da ascoltare come sottofondo: nasce da una commistione particolarissima di approcci, ed il coesistere della sua anima popolare con la ricerca competitiva di un’espressione sempre più raffinata lo rendono un genere unico. Dopo un’adolescenza passata ad ascoltare le compilation di Belafonte, quando sentii per la prima volta Lord Kitchener – peraltro un brano totalmente innocuo, contenuto in un DJ Mix degli Avalanches – rimasi inspiegabilmente folgorato dal suo carisma, dalla genuinità del cantato, e capii quanto c’era da scoprire nella cultura musicale di un piccolo lembo di terra perso nell’Oceano Atlantico.