CONTAINER BELLO

I PYRRHON CE L’HANNO FATTA, FINALMENTE

PYRRHON – EXHAUST

Willowtip

2024

Death Metal

Di tutta la schiera di gruppi di death metal dissonante e ipertecnico che gli anni Dieci hanno prodotto sull’onda lunga dell’influenza dei Gorguts, il quartetto newyorkese Pyrrhon è sempre apparso come uno dei progetti meno metal della scena. Ovviamente, questo non vuol dire che non si tratti di una band intrinsecamente metal, ma soltanto che i Pyrrhon sono stati tra coloro che hanno messo maggiormente in chiaro quanto la loro musica fosse legata a doppio filo con certe esperienze del rock sperimentale americano come i Big Black, i Sonic Youth e i Flying Luttenbachers – oltre che ovviamente con le propaggini più aliene del death metal tecnico (e, di conseguenza, con un sacco dei riferimenti non-metal che da sempre contraddistinguono il genere – dai Primus a Herbie Hancock). Similmente ad altri esponenti della scena metal newyorkese più intellettuale – vedasi i Flourishing e gli Imperial Triumphant – anche i Pyrrhon sono estremamente consapevoli delle manifestazioni più oblique del rock prodotto nella Grande Mela, e rileggono le forme del metal estremo da una prospettiva lucida e consapevole di tale eredità culturale: in questo senso, già An Excellent Servant but a Terrible Master del 2011, che pure oggi rappresenta il capitolo più tradizionalmente death metal della loro discografia, conteneva in nuce molti degli elementi che i Pyrrhon hanno sviluppato nel corso dei dieci anni successivi.

A partire da The Mother of Virtues, infatti, i Pyrrhon hanno cominciato a pubblicare dischi via via più indecifrabili, dove l’estetica death metal dell’esordio è stata corrosa da strutture sempre più labirintiche e da un impatto sempre più distruttivo. Mentre la loro musica veniva dirottata sempre più verso l’ermetismo cerebrale del mathcore e dell’avant-garde metal, questa svolta stilistica ha collateralmente finito per esaltare i debiti timbrici, armonici e ritmici contratti con il noise rock, il post-rock di Louisville e l’avant-prog. Tutto molto interessante sulla carta, ma finora ai Pyrrhon è sempre mancata la fase di scrittura dei pezzi: una volta azzeccato il sound caotico, esplosivo e originale di The Mother of Virtues, la band non si è mai preoccupata di incorniciarlo in brani da uno sviluppo intelligente e creativo che andasse oltre all’impilare un’accozzaglia di riff massacrati da dissonanze e inintelligibili cambi di tempo per minuti e minuti di fila, occasionalmente rallentando verso rovinosi breakdown. Il che può andare (e in effetti va) benissimo per uno o due brani; ma quando un album lambisce l’ora di durata e i Pyrrhon fanno in continuazione sempre la stessa cosa la questione diventa piuttosto critica, specie considerando che la scelta di una delivery tanto monodimensionale non appare funzionale a convogliare un messaggio più profondo del famolo strano perché ci piacciono sia gli Slint che i Cryptopsy. Se si aggiunge poi che questa formula è stata riproposta, quasi completamente uguale a se stessa e con pochissime deviazioni dalla strada maestra, pure sui successivi What Passes for Survival e Abscess Time, è comprensibile lo scetticismo – pur contaminato da una sana dose di curiosità – che da sempre ci accompagna nei giudicare la loro opera.

Ciononostante, l’estetica metallara-ma-non-troppo della loro musica si è rivelata ampiamente sufficiente affinché una nutrita cerchia di persone, che peraltro normalmente non si interessa di death metal, chiudesse un occhio o due sui loro pur innegabili limiti come compositori cominciasse a considerare i Pyrrhon come i più sofisticati esponenti del nuovo death metal. E per la storia del a pensar male si fa peccato eccetera eccetera, aggiungo che c’è sicuramente un nesso tra questa ottima reputazione presso un pubblico non specializzato e l’8 conferito a The Mother of Virtues da uno dei critici più inetti e incompetenti che abbiano mai tentato di trattare la musica estrema.


Quest’ultimo Exhaust, quinto album della discografia dei Pyrrhon e terzo edito dalla Willowtip, è però una bestia vagamente diversa dai tre lavori che l’hanno preceduto; e perfino la copertina, che abbandona la palette giallo-bile delle illustrazioni di The Mother of Virtues, What Passes for Survival e Abscess Time per offrire uno psichedelico primo piano di un piccione martoriato sull’asfalto, sembra immediatamente suggerire un qualche rimescolamento delle carte in tavola. Exhaust è un album, a suo modo, simultaneamente più essenziale e più dinamico dei lavori che l’hanno preceduto. Il minutaggio medio dei brani è stato sfrondato (per la prima volta, non c’è una singola traccia che superi gli otto minuti), e di conseguenza il disco è complessivamente il più breve della loro carriera: il che porta all’ovvio e gradito corollario che le composizioni dei Pyrrhon evitano di indulgere nella ripetizione asfissiante della stessa idea per minuti e minuti, al solo scopo di sovraccaricare di tensione una musica già estremamente satura di volume. Talvolta, come su First as Tragedy, Then as Farce, la struttura dei pezzi è talmente fulminea e dritta al punto da esaltare le già numerose assonanze con l’elaborato deathgrind degli Human Remains.

Eppure, in un formato così più contratto nella durata, la scrittura dei Pyrrhon non perde la sua sofisticazione, ma anzi si fa più varia e proteiforme, finalmente offrendo un assaggio della varietà di umori e timbri che il quartetto è capace di sfoderare – anche quando si muove su sentieri relativamente già battuti in passato, come quella Stress Fractures che porta inconfondibile il marchio dei Dillinger Escape Plan di Calculating Infinity. Su Luck of the Draw e The Greatest City on Earth, per esempio, le tortuosità del death metal di Obscura collidono con la ferocia del mathcore come da copione, ma da questo impatto emergono ora scampoli di melodia che richiamano le inflessioni noise rock degli Aeviterne, ora ostinati tremolo picking che si muovono nella direzione del black metal progressivo dei Krallice e degli Scarcity. Sulla bellissima apertura di Not Going to Mars, invece, il classico sound Pyrrhon si compromette con quanto fatto da Ulcerate e Imperial Triumphant negli ultimi lavori. Ancora, su Last Gasp il lento deteriorarsi del tempo di esecuzione in un pantano post-sludge sembra spostare le coordinate dal death metal verso l’industrial metal, complice la voce effettata che compare a metà brano che fa pensare ai Today Is the Day del periodo Relapse se non addirittura agli Scorn di Vae Solis.

Se le composizioni di Exhaust suonano tanto ricche è anche merito delle scelte da parte del solito, ottimo Colin Marston in cabina di regia. È da sempre lui a occuparsi della produzione dei dischi dei Pyrrhon, ma per questo lavoro le sue scelte hanno operato un po’ in controtendenza rispetto a quanto fatto in passato. Il suono di Exhaust è infatti meno claustrofobico e impastato se paragonato a quello dei suoi predecessori, mentre i volumi appaiono (leggermente) meno assordanti; il che riduce forse l’urto devastante della musica dei Pyrrhon in favore però della nitidezza dei suoni e della ricchezza di sfumature. Così facendo, lo spettro delle dinamiche a disposizione del gruppo si amplia notevolmente, e si possono apprezzare al meglio i vari dettagli tecnici che compongono il tessuto sonoro complessivo. Per dire, lo stile chitarristico di Dylan DiLella è sempre stato peculiarissimo, rimasticando nel suo eloquio l’influenza di Trey Azagthoth, di Sonny Sharrock e di Thurston Moore contemporaneamente; ma mai come su Exhaust il suo fraseggio elaborato e poliglotta è stato tanto valorizzato. Il lavoro di Marston esalta appieno la ricchezza armonica e il peculiare gusto melodico della sua chitarra, spesso deturpato e sabotato in maniera sostanziale dall’abuso di armonici artificiali e dall’utilizzo spregiudicato della leva del tremolo. Discorsi molto simili si possono fare anche per il pirotecnico lavoro di Erik Malave, che con il tono iper-distorto del suo basso si destreggia tra un sostegno ritmico robusto e terremotante degno di un gruppo noise rock di Darin Gray, e le cervellotiche evoluzioni melodiche dei grandi bassisti progressive metal. 

Quello che colpisce maggiormente di Exhaust, però, è che per la prima volta le sonorità astruse dei Pyrrhon sembrano necessarie al fine di comunicare il senso di burnout e – appunto – di esaurimento cui è votato tutto il lavoro: per usare le stesse parole del gruppo, sono la perfetta colonna sonora per descrivere il processo di  «things – machines or humans – being ground down and never recovering». È un senso di disfacimento e deterioramento che si percepisce in ogni aspetto della musica di Exhaust: nel passo ritmico fratturato dettato da basso e batteria, nelle disarmonie della chitarra, nelle urla disperate di Doug Moore, nel flusso labirintico e serpentino in cui sembra intrappolato ogni brano. L’esempio più eclatante, in questo senso, è però nella relativamente più quieta Out of Gas – che si candida seriamente al titolo di miglior pezzo estremo del 2024. È la sinistra cronaca di un viaggio alla guida di un’auto lungo una strada deserta, portato avanti più per inerzia che per volontà attiva: la macchina macina chilometri nell’oscurità, nessuna destinazione in vista se non la linea bianca della segnaletica sull’asfalto, fino a che la vettura comincia a sfaldarsi e a collassare su se stessa – e con lei, anche la psiche del pilota. Se già il senso di autoflagellazione e il nichilismo alienato delle parole di Moore possono richiamare la poetica dei primissimi Swans, la musica non è da meno: per oltre tre minuti e mezzo l’ostinata linea di basso e i sinistri interventi di chitarra sembrano provenire dal noise rock più scarnificante degli anni Ottanta, con solo il batterismo tentacolare di Steve Schwegler a mantenere un legame estetico e concettuale con il mondo metal. Soltanto nella parte finale del pezzo, in corrispondenza del collasso mentale e fisico definitivo del protagonista, i Pyrrhon tornano a lidi di estremismo sonoro che competono ai Neurosis o ai Today Is the Day. Dopo tre minuti e mezzo di tensione tanto sfibrante, una tale deflagrazione suona addirittura catartica. 

È ironico che, nelle stesse parole della band, la gestazione di Exhaust sia stata travagliata a causa di una sorta di blocco dello scrittore, che ne ha rallentato i tempi di composizione e registrazione. Tutto, su questo nuovo disco, funziona come mai aveva fatto nella musica dei Pyrrhon: forse prendersi il tempo per ragionare e pensare con calma alla resa dei propri brani era proprio ciò che mancava alla loro formula. 

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Emanuele Pavia
Emanuele Pavia