MELT YOURSELF DOWN – PRAY FOR ME I DON’T FIT IN
È dai tempi dell’esordio del 2013, accolto con grande affetto dalla stampa internazionale, che i Melt Yourself Down mettono dischi in buca, con variazioni sul tema di un punk funk jazzato e ballereccio che con il tempo ha assunto una sua natura formulaica e sicura, un coltellino svizzero di musica efficace e irresistibile che è stata certamente una nota a margine della storia degli anni ’10, ma che ha trovato sempre la sua nicchia risuonando in quegli spazi di svago che riempivano la ricerca del prossimo discone o della prossima hit. Tra Melt Yourself Down, Last Evenings on Earth e 100% Yes il gruppo londinese è riuscito sempre a convogliare la sua tagliente frenesia in pezzi di musica che sono riusciti puntualmente ad arrivare nelle classifiche di fine anno. Va da sé, quindi, che ogni volta che esce un singolo dei Melt Yourself Down noi stiamo tranquilli: è roba buona, non bisogna neanche starci a fare chissà quali voli pindarici e ci mettiamo in cassa un’oretta di divertimento. Quindi quanto può rugare il cazzo considerare che quest’anno il nostro pane quotidiano ci viene negato in favore di una sua versione azzima, insipida e scialba?
Eppure il beat della opener e title track di Pray for Me I Don’t Fit In prometteva un’altra mina di bella presenza, con quel vociare rauco alla Mark Stewart e quella baraonda graffiante della sezione strumentale, un brano a metà tra i migliori revival synth-jazz-punk e il desert theme di un videogioco che suona in MIDI. Ma l’entusiasmo per il singolo più potente del disco scema con mestizia in un piano inclinato inesorabile che comincia già dal secondo/terzo brano, in un quadretto che si impigrisce di pennellate sempre più banali e di maniera. Comincia ad esserci poco da dire già nella Boots of Leather che puzza di post-punk dei Noughties (il peggiore), ma l’assenza di idee comincia a palesarsi in misura abbacinante appena superata a sinistra l’accettabile Nightsiren, raggiungendo il secondo atto del disco aperto da All We Have, un noiosissimo pop anthem travestito da jazz acido, che poi è un po’ il seguito di tutto il disco. Più avanti i Melt Yourself Down proseguono con un lavoraccio che si perde in canzoni glabre che nel migliore dei casi mischiano la cadenza ritmica degli Arctic Monkeys con l’INNEGABILE voglia di vivere degli Sleaford Mods. E, purtroppo, il lato B del disco è tutto così. Un po’ viene da pensar male e subodorare che Pray for Me I Don’t Fit In voglia mettersi in scia di quel post-punk più facilone che in questi anni sta appestando la scena inglese, un po’ viene da pensar peggio e sospettare che i ragazzi abbiano firmato per un set di dischi con Decca e che quindi non possano stare senza pubblicazioni. Entrambi i casi non fanno giustizia a una band che era partita da quel progetto psicopatico di afrobeat incazzato nel 2013 e che si è trovata addomesticata: da sciamani visionari del punk to come a gente del mestiere al guinzaglio delle richieste del pubblico – che adesso per questo genere di musica va matto.
C’è ancora spazio per riprendersi in futuro, ma non ci spererei particolarmente. La stampa mainstream e di settore (dal Guardian fino a TheQuietus) tende a premiare un album del genere, motivati rispettivamente da un sound che finalmente “non è così eclettico” e dal clout che i Melt Yourself Down hanno maturato negli ultimi anni di attività. Se è questo è ciò che piace, questo è ciò che ci aspetterà. Quando una bestia viene castrata smetterà di fare casino, veleggerà verso l’obesità, sarà più propensa a vivere di coccole e noia. Ma qui, cosa che succede di rado, la chiudiamo sperando di essere nel torto.