BLACK MIDI – HELLFIRE
Di tutti i gruppi usciti dalla nuova scena brit-punk, i black midi sono quelli che più di tutti si sono mostrati spregiudicati nell’esacerbazione del tasso tecnico della propria musica. Fin dai tempi di Schlagenheim (ma in realtà pure da prima, vedasi i vari singoli e live con cui si sono fatti conoscere e hanno montato l’hype in vista del loro debutto), i black midi si sono divertiti ad allestire sul loro suono di ovvia derivazione post-punk un intricato sistema di bizzarrie armoniche, storture ritmiche e complessità strutturali varie ed eventuali che a molti commentatori ha fatto parlare di math rock, ad altri ancora di progressive rock, ad alcuni – per fortuna una sparuta minoranza – addirittura di jazz rock, perché basta un’intervista dove si parla di Mahavishnu Orchestra e qualche linea di chitarra come quella di Western per citare robe a caso senza criterio.
Per questo, pur con tutti i suoi ovvi richiami a This Heat e Pere Ubu al limite del citazionismo sfacciato, Schlagenheim ha presentato i black midi – almeno in prospettiva – come uno dei prodotti tutto sommato più interessanti del post-punk revival inglese contemporaneo: la speranza era che i black midi sfondassero le barriere in cui erano costretti dai cliché della scena, abbracciando con maggior convinzione le possibilità progressive della loro musica a vantaggio dell’originalità (e della qualità) della loro proposta. Questo auspicio si è realizzato soltanto parzialmente con Cavalcade, che se da un lato virava con più convinzione verso territori di prog bislacco e assurdista in stile zolo, dall’altro presentava una scrittura decisamente più pasticciata e fuori fuoco di Schlagenheim. Tuttavia, un ulteriore passo verso la meta desiderata (almeno da noi) l’ha mosso Hellfire, che esce precisamente oggi ma che noi abbiamo ascoltato ampiamente nelle ultime settimane in maniera squisitamente illegale e senza dare mezzo centesimo alla Rough Trade.
Di base, Hellfire è un concept album, e anzi il cantante Geordie Greep lo descrive in termini di epic action film: ogni brano è pensato come un’istantanea sulle disavventure e sulla psiche di un ristretto cast di personaggi, tutti accomunati dal vivere nello stesso – non meglio precisato – periodo di guerra; si spazia da coppie di disertori omosessuali in fuga (Eat Man Eat), a proprietari di bordelli in cerca di autoassoluzione (The Defence), fino a soldati della marina alle prese con traumi mentali e scrupoli morali (Welcome to Hell). Di conseguenza, per rappresentare storie tanto scapestrate vissute in un clima di incertezza e violenza, la musica di Hellfire esalta ulteriormente l’estremismo timbrico, il crossover stilistico e lo sviluppo frammentario dei brani su cui già Cavalcade aveva puntato con fermezza – i suoni si fanno ancora più duri, la timbrica ancora più variopinta, le strutture ancora più disconnesse. Tutto molto bello e interessante sulla carta, ma c’è un piccolo problema: nonostante le migliori intenzioni, e anche la discreta qualità di diversi testi, il solo ascolto non permette di cogliere praticamente nulla del concept di Hellfire, visto che la mitragliante prestazione vocale di Greep (tra l’istrionismo di David Thomas e il solito, verbosissimo, spoken word tanto in voga tra i gruppi post-punk inglesi, ma riprodotti a velocità ×2) impedisce spesso di cogliere il filo logico dei testi, e la sua voce viene recepita soltanto come un’altra fonte sonora. Contando che anche la musica non ha eccezionali doti evocative, la formula così eclettica ed eccessiva di Hellfire viene privata quasi completamente dell’impianto narrativo che ne legittima la non linearità: viene quindi recepito come mero barocchismo il delirante flusso di brani di Hellfire, che spazia senza criterio tra melodie levigate e zuccherine, asperità più edgy più vicine al suono caustico del post-punk, e grandiose muraglie sonore dall’impatto cinematico e magniloquente.
E per “senza criterio”, si intende proprio che in qualsiasi momento i black midi possono estrarre una carta a caso dal loro repertorio, senza alcun preavviso e senza alcuna coerenza né all’interno del pezzo, né con il resto delle sonorità del disco. Per dire, la title track è solo uno skit giocato tutto su questo zompettante tema di pianoforte che ne esalta la spigolosità ritmica, eppure nel suo minuto e spicci di durata i black midi fanno in tempo a inserire un drastico cambio di registro verso metà traccia, con uno struggente tema di archi a dettare la linea melodica. Ma si potrebbe portare come caso paradigmatico più o meno ogni pezzo, da Eat Man Eat che detta la pulsazione ritmica con il battito di mani e con la chitarra acustica come nel flamenco, alla conclusiva 27 Questions, un brano di avant-prog dissonante e a suo modo anche estremo che si apre poi a un incalzante tema in odor di vaudeville nella sezione finale. (In quest’ultimo caso, perlomeno, la coerenza tra musica e testo si percepisce anche all’ascolto: il protagonista è un attore alla sua ultima performance sul palco, e la frazione di show tune non è altro che la colonna sonora per le domande cui lui non ha saputo dare risposta che egli rivolge al pubblico nei suoi ultimi istanti di vita.) L’esempio più estremo, tuttavia, si trova incastonato a metà disco, con l’accoppiata Still / The Race Is About to Begin (inframezzate dal breve intermezzo elettronico di Half Time). La prima si apre con un arpeggio country per poi evolversi in una tenue ballata folk/prog, dall’atmosfera bucolica non troppo distante dai King Crimson di I Talk to the Wind, impreziosita da misurati interventi di sax, flauti, vibrafoni e canti di uccelli nello sfondo. Eppure, subito dopo uno dei momenti più dolci e curati di tutto il loro repertorio – dove addirittura si apprezza una performance canora decente, visto il passaggio di consegne in favore del bassista Cameron Picton – i black midi sono capaci di lanciarsi in The Race Is About to Begin, uno dei loro vertici di massimalismo: quattro minuti di montagne russe avant-prog che sembrano scaturire dalla collisione di tre o quattro composizioni autonome compresse in un solo brano che richiama alla mente giocondi esercizi di stile come YYZ e i Cardiacs degli anni Ottanta, seguiti da tre minuti di coda decisamente più soft e omogenei dominati da chitarra acustica e pianoforte. Boh?
È evidente che in Hellfire non tutto funziona come dovrebbe. Tuttavia, sarebbe ingeneroso pure bollare questo disco dei black midi come completo fallimento; anzi, Hellfire offre alcuni dei momenti migliori che i black midi abbiano inciso su full-length nell’arco della loro breve carriera – la title track, Welcome to Hell, Still, 27 Questions su tutti. Sembra quasi che il gruppo stia tendendo asintoticamente a quella forma di “nuovo progressive rock” che si poteva scorgere tra le righe in Schlagenheim, che Cavalcade sembrava accennare timidamente, e che noi (io) stiamo aspettando con curiosità e trepidazione. Con tutti i suoi difetti e le sue mancanze, Hellfire riesce comunque a infondere speranze sul proseguimento della carriera dei black midi, che è più di quanto si possa dire di un qualsiasi disco post-punk random uscito dal Regno Unito quest’anno.